domenica 11 ottobre 2015

Social solitudine


Siamo tutti schiavi di un Io idealizzato e virtuale, che oscura il nostro Io reale e ci allontana da ogni legame autentico pur di non rinunciare alla pigra “comodità” di Google o Facebook 
È la condizione umana dell’era digitale


Jonathan Franzen, "La Repubblica", 11 ottobre 2015

Sherry Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista ma non luddista: un’adulta. Ha una cattedra sovvenzionata al Mit e lavora a stretto contatto con gli esperti di robotica e affective computing che lavorano da quelle parti. A differenza di Jaron Lanier, che si porta dietro il pesante fardello di essere un dipendente Microsoft, o di Evgenij Morozov, che ha una prospettiva bielorussa, la Turkle è un’insider fidata e rispettata, e questo ne fa una sorta di coscienza del mondo high-tech.
Il suo precedente libro (Insieme ma soli: perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, pubblicato in Italia da Codice) era uno spietato rapporto sulle relazioni umane nell’epoca digitale. Osservando le interazioni delle persone con i robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini, raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini, cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi, meno esigenti. Parallela a questo mutamento corre una preferenza crescente per il virtuale rispetto al reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le persone, ma i soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi, con sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo stesso modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social media trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle osservava ripetutamente una profonda delusione nei confronti degli esseri umani, imperfetti, distratti, bisognosi, imprevedibili come le macchine sono programmate per non essere.
Il suo nuovo libro, Reclaiming Conversation, estende la sua analisi critica, spostando l’attenzione dai robot all’insoddisfazione verso la tecnologia espressa dalle persone che ha intervistato di recente. La Turkle interpreta questa scontentezza come un segnale di speranza, e il suo libro rappresenta una vera e propria chiamata alle armi: la nostra entusiastica sottomissione alle tecnologie digitali ha portato a un’atrofizzazione di capacità umane come l’empatia e l’introspezione, ed è arrivato il momento di riaffermare noi stessi, comportarci da adulti e rimettere la tecnologia al suo posto. Come in Insieme ma soli , la forza della tesi della Turkle deriva dall’ampiezza della ricerca e dall’acume delle sue osservazioni psicologiche. Le persone intervistate hanno adottato nuove tecnologie perché ricercavano un maggior controllo, ma hanno finito per sentirsi controllate dalle tecnologie.
L’io amabile e idealizzato che hanno creato con i social media lascia ancora più isolato il loro io reale. Comunicano incessantemente, ma hanno paura delle conversazioni faccia a faccia; sono preoccupati, spesso in modo nostalgico, di tralasciare qualcosa di fondamentale. La conversazione è il principio organizzativo della Turkle, perché gran parte degli elementi costitutivi dell’umanità è a rischio quando la sostituiamo con la comunicazione elettronica. La conversazione presuppone solitudine, per esempio, perché è nella solitudine che impariamo a pensare per conto nostro e sviluppare un senso stabile dell’io, elemento essenziale per accettare gli altri così come sono. (Se non riusciamo a separarci dai nostri smartphone, dice la Turkle, consumiamo le altre persone «a spizzichi e bocconi: è come se le usassimo alla stregua di pezzi di ricambio per sostenere il nostro fragile io».) Attraverso l’attenzione conversativa dei genitori, i bambini acquisiscono un sentimento duraturo di connessione e l’abitudine di parlare dei loro sentimenti, invece di limitarsi ad agire sulla base di essi. (Turkle è convinta che conversare regolarmente in famiglia contribuisca a «immunizzare» i bambini dal bullismo.) Quando parli a qualcuno di persona, sei costretto a riconoscere la sua piena realtà umana, ed è qui che inizia l’empatia. (Uno studio recente dimostra un drastico calo dell’empatia, misurato con test psicologici standard, fra gli studenti universitari della generazione degli smartphone.) E la conversazione si porta dietro il rischio di noia, la condizione che gli smartphone ci hanno insegnato a temere sopra ogni altra cosa, ma anche la condizione in cui si sviluppano la pazienza e l’immaginazione.
La Turkle esamina ogni aspetto della conversazione – da soli con se stessi, con parenti e amici, con insegnanti e partner, con colleghi e clienti, con la società in generale – e racconta l’erosione elettronica di ciascuno di essi. Facebook, Tinder, i Mooc, i messaggini compulsivi, la tirannia delle mail di lavoro e la vuotezza dell’attivismo sociale online finiscono tutti nel mirino dell’autrice.
Ma la parte più commovente e rappresentativa del libro riguarda la scomparsa delle conversazioni in famiglia. Il circolo vizioso funziona in questo modo, secondo i giovani intervistati dalla Turkle: «I genitori regalano ai figli il telefono. I figli non riescono a distogliere i genitori dal loro telefono e allora si rifugiano nel loro. Poi i genitori interpretano il fatto che i figli siano assorbiti dal loro telefono come un’autorizzazione a usare a loro volta il telefono quanto vogliono». Secondo la Turkle la responsabilità è tutta dei genitori: «Il modo più realistico per spezzare questo circolo è fare in modo che i genitori si assumano la loro responsabilità di mentori». Riconosce che può essere difficile, che i genitori hanno paura di rimanere tecnologicamente indietro rispetto ai figli, che per conversare con dei bambini ci vuole pazienza e pratica, che è più facile dimostrare amore genitoriale scattando tonnellate di foto e pubblicandole su Facebook. Ma a differenza di Insieme ma soli, dove si accontentava di diagnosticare, in Reclaiming Conversation la Turkle usa un tono terapeutico ed esortativo. Invita i genitori a capire cosa c’è in gioco nelle conversazioni familiari – «lo sviluppo della fiducia e dell’autostima», «la capacità di provare empatia, amicizia, intimità» – e a riconoscere la propria vulnerabilità rispetto agli incanti della tecnologia. «Accettate la vostra vulnerabilità», dice. «Rimuovete la tentazione».
Reclaiming Conversation può essere visto come un sofisticato manuale di autoaiuto. Sostiene con argomenti convincenti che i bambini si sviluppano meglio, gli studenti imparano meglio e i dipendenti hanno un rendimento migliore quando i loro mentori danno il buon esempio e ritagliano spazi per interazioni faccia a faccia. Ma suona meno convincente quando esorta all’azione collettiva. È convinta che sia possibile e doveroso progettare una tecnologia «che ci imponga di usarla in modo più consapevole». Invoca un’interfaccia per smartphone che «invece di incoraggiarci a stare connessi il più a lungo possibile ci incoraggi a staccarci». Ma un’interfaccia del genere metterebbe a rischio quasi tutti i modelli di business della Silicon Valley, dove capitalizzazioni di mercato smisurate sono fondare proprio sulla capacità di tenere i consumatori inchiodati ai loro apparecchi. La Turkle spera che la domanda dei consumatori, che ha costretto l’industria alimentare a creare prodotti più sani, possa alla fine costringere l’industria high-tech a fare altrettanto. Ma l’analogia è imperfetta: le aziende del comparto alimentare guadagnano vendendo cose essenziali, non inserendo pubblicità mirate in una braciola di maiale o sfruttando i dati che fornisce una persona mentre la addenta. L’analogia è anche politicamente inquietante: dal momento che una piattaforma che scoraggia il coinvolgimento è meno redditizia, per guadagnare dovrebbe far pagare un sovrapprezzo che solo consumatori benestanti e istruiti, del genere di quelli che fanno la spesa nei negozi di prodotti bio, sarebbero disposti a pagare.
Reclaiming Conversation si sofferma sugli aspetti politici della privacy e sui robot che fanno risparmiare lavoro, ma la Turkle si tiene a distanza dalle implicazioni più radicali delle sue scoperte. Quando fa notare che a casa di Steve Jobs tablet e smartphone erano vietati quando si cenava e la famiglia era incoraggiata parlare di libri e di storia, o quando cita Mozart, Kafka e Picasso sull’importanza di una solitudine senza distrazioni, sta descrivendo le abitudini di individui altamente efficaci.
E sì, la famiglia che se la passa abbastanza bene da comprare e leggere il suo nuovo libro forse riuscirà a limitare l’esposizione alla tecnologia e vivrà ancora meglio. Ma che ne sarà della gran massa delle persone, troppo ansiose o troppo sole per resistere alle attrattive della tecnologia, troppo povere o sovraccariche di impegni per sfuggire ai circoli viziosi? Matthew Crawford, in The World Beyond Your Head, mette a confronto il mondo di una sala aeroportuale per «poveri» (saturata di pubblicità, stracolma di schermi magnetici) con il mondo sereno e senza pubblicità di una sala d’aspetto business: «Per dedicarsi a riflessioni allegre e creative, e magari creare ricchezza per se stessi durante quelle ore inoperose trascorse in aeroporto, c’è bisogno di silenzio. Ma la mente degli altri, giù nella sala d’aspetto dei poveri (o alla fermata dell’autobus), può essere trattata come una risorsa, una riserva deambulante di potere d’acquisto». Le nostre tecnologie digitali non sono politicamente neutre. Il giovane che non riesce a stare o non sta mai da solo, non riesce a conversare con la famiglia, a uscire con gli amici, ad andare a una conferenza o a svolgere un compito senza controllare il suo smartphone è l’emblema di un’economia attaccata come una sanguisuga al nostro corpo. La tecnologia digitale è il capitalismo a velocità iperspaziale, che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto che trascorriamo da svegli.
È forte la tentazione di correlare l’ascesa della «democrazia digitale» con il forte incremento della disuguaglianza economica, di vederci qualcosa di più di un semplice paradosso. Ma forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità «gratuita» di Google, la confortevolezza di Facebook e la compagnia affidabile degli iPhone. Il fascino di Reclaiming Conversation sta nell’evocazione di un’epoca, non molto lontana, in cui la conversazione, la privacy, le sfumature nelle discussioni non erano beni di lusso. Non è colpa della Turkle se il suo libro può essere letto come un manuale per privilegiati. Si rivolge a una classe media in cui lei stessa è cresciuta, evocando una profondità di potenziale umano che un tempo era diffusa. Ma il medio, come sappiamo, sta scomparendo.
© The New York Times 2015 (Traduzione di Fabio Galimberti)

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