domenica 3 maggio 2015


Quanti stereotipi sugli schermi contemporanei

Emiliano Morreale

"La Repubblica", 3 maggio 2015

COS’È un personaggio? Cosa lo definisce? La sua appartenenza sociale, la sua rete di relazioni, la sua psicologia, la funzione che ha all’interno della narrazione? E sarà vero che i ruoli, nel cinema americano, sono aumentati? L’articolo di Eric Kaplan prende spunto da una ricerca che probabilmente è sommaria, anche perché l’Imdb è una fonte non troppo affidabile, soprattutto per il cinema del passato.
Sicuramente, il cinema ha seguito l’evoluzione di una società sempre più complessa e articolata. Il che, visto da un altro punto di vista, ha un carattere più specifico. All’epoca d’oro del cinema hollywoodiano, la triade magica studios-generi-divi permetteva una produzione industriale che si basava su una serie di convenzioni narrative di forte riconoscibilità, sulla replicabilità dello sceriffo e del detective, del seduttore e della dark lady. Convenzioni che gli sceneggiatori e i registi potevano variare, sabotare, capovolgere; viceversa trasformando in caratteri rigidi anche quelli prelevati dalla letteratura, fosse essa Cime tempestose o Addio alle armi. In un cinema diventato «adulto», dagli anni ‘60 in poi, la fonte di personaggi non era più così fluente, e oggi gli stereotipi sono più nascosti, meno accettabili nella loro nudità.
Il cinema d’azione post Pulp Fiction è spesso moralmente ambiguo, al di là del bene e del male. Il nuovo stereotipo è quello del detective e del criminale che si specchiano l’uno nell’altro, «come lo yin e lo yang» si dice ogni tanto nei polizieschi. E nel contempo trionfano personaggi dalla percezione alterata, che non garantiscono nulla dello statuto di ciò che ci appare davanti agli occhi: morti che si credono vivi (Il sesto senso, The Others), uomini che vivono in un mondo costruito apposta per loro (Truman Show, The Village), folli che vedono una realtà che non c’è (A Beautiful Mind). Post-mortem movies, ha definito alcuni di essi il teorico Thomas Elsaesser in un gioco di parole con il post-modern: i film in cui i personaggi sono tra la vita e la morte, o in un mondo altro, e lo scoprono, insieme allo spettatore, solo alla fine. Ma perfino i supereroi, nell’ultimo The Avenger: Age of Ultron, vivono immersi in una serie di visioni del loro passato. Un cinema ideale per il mondo virtuale.
La psicologia freudiana, con le sue belle opposizioni tra generazioni, passa il testimone agli archetipi di Jung e ai suoi derivati, al «viaggio dell’eroe» che secondo i nuovi manuali di sceneggiatura guida ogni forma di narrazione. Ci sono l’Eroe, l’Ombra, il Guardiano della Soglia, eccetera. Ma si tratta di pure forme, vettori che poco ci dicono della carne e del sangue dei personaggi. Quali potrebbero allora essere gli eroi e gli anti-eroi del nostro tempo? I «lupi di Wall Street» narrati da Scorsese, i soldati e i reduci delle ultime guerre giuste, gli assassini che non sono più mossi da moventi razionali ma da follia e da elucubrazioni esoteriche (i serial killer). E soprattutto, tanti maschi in crisi. La crisi di quella che in Usa si chiama masculinity è il tormentone della commedia di culto di Judd Apatow o il filone di Una notte da leoni, ma anche di thriller d’autore come Gone Girl. Dall’altro lato, è ormai decennale la mascolinizzazione dei ruoli femminili (la poliziotta, la soldatessa). Ma l’elemento davvero nuovo è forse la crescita d’età. Gli attori quarantenni e i cinquantenni non sono più condannati a parti secondarie di genitori o a recitare ruoli troppo giovani per la loro età. E i film della/per la terza età non sono più una curiosità ma una norma, in una società che invecchia (al festival di Toronto dell’anno scorso, vetrina del cinema nordamericano, ce n’erano decine).
Ma la grande mutazione del personaggio contemporaneo è ancor meglio visibile nel mondo delle serie tv. Oggi al centro del grande universo narrativo delle serie c’è spesso uno stesso tipo di personaggio, alle prese con uno stesso tema: il male, inteso come qualcosa di anzitutto interiore. Li potremmo chiamare i figli di Tony Soprano: il Don Draper di Mad Men, i protagonisti di True Detective o House of Cards sono uomini che compiono, più o meno malvolentieri, il male (in varie forme) e fronteggiano l’orrore proprio e altrui. Curioso: perché la narrativa popolare, e specie quella seriale, è stata invece sempre il luogo principe delle opposizioni nette, dei buoni e dei cattivi: la fanciulla in pericolo, il sadico persecutore, il giovane di classe più elevata e la di lui infida madre, il vecchio (nonno) saggio, l’eroe mascherato dal passato nascosto. Oppure, al contrario e per bilanciare, il fascino anarchico e aristocratico del ladro gentiluomo, dell’inafferrabile primula rossa. Il percorso narrativo di questi nuovi «eroi» invece non è più quello classico, nelle varie forme (la lotta per affermarsi, l’ascesa e caduta, la perdita dell’innocenza). Piuttosto, si tratta di personaggi che l’innocenza forse non l’hanno mai avuta, e il cui scopo è sostanzialmente di evitare la propria catastrofe, salvare il proprio potere, il collasso del proprio mondo, minacciato dall’esterno ma anche dai propri fantasmi. Eroi allarmati e allarmanti di un tempo di crisi.

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