domenica 3 maggio 2015

«Novo» fu lo stile o le idee dei poeti?


Claudio Giunta

"Il Sole 24 ore - Domenica", 3 maggio 2015

Se dovessi scrivere un saggio sullo stilnovo, proverei a non fare nomi, o quasi. Cercherei di mostrare attraverso i testi se e come questo stile, inteso in senso larghissimo (metro, forme, figure retoriche, idee), è davvero nuovo rispetto a quello dei siciliani e a quello della prima generazione tosco-emiliana, e in che modo anticipa Petrarca, in che modo cioè contribuisce a formare il primo linguaggio poetico che noi sentiamo veramente moderno (per la verità, qualcosa del genere l'ha scritto anni fa, almeno in parte, Guido Capovilla: Ascendenze culte nella lingua poetica del Trecento, «Rivista di letteratura italiana», I [1983]; le sue pagine e il suo metodo non mi pare siano entrati davvero nel dibattito, ma era un saggio interessante).
Procedere in questo modo avrebbe soprattutto due vantaggi. Da un lato, permetterebbe di recuperare dai manoscritti e dalle edizioni parecchi testi, anonimi o scritti da autori minori vissuti nell’ultimo quarto del Duecento e nel primo del Trecento, che negli studi sullo stilnovo non vengono mai citati perché non rientrano nel repertorio dello stilnovo canonico, quello di Dante giovane, Cavalcanti, Cino, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, e però hanno, con l’opera di questi autori, punti di contatto evidenti (l’antologia curata qualche anno fa da Marco Berisso per la BUR andava in questa direzione). Dall’altro, permetterebbe di limitare al minimo le congetture intorno ai rapporti che legano questi poeti – i loro testi, le loro biografie – l’uno all’altro, congetture che, a mio avviso, rendono molto spesso i saggi sulla (e i commenti alla) poesia medievale una specie di esercizio enigmistico: poco attendibile, poco interessante e, cosa non meno grave, abissalmente noioso.
Nel suo saggio Il dolce stil novo, Donato Pirovano prende una strada opposta rispetto a quella che ho descritto sin qui, ma lo fa con un rigore, una larghezza d’informazione e un equilibrio tali da farmi pensare che il mio immaginario saggio non aggiungerebbe poi molto a ciò che già sappiamo (e che Pirovano spiega bene), che abolire le personalità e le etichette (gli stilnovisti) non sarebbe del tutto giusto, e che insomma tutti i metodi sono buoni quando sono buoni.
Il volume di Pirovano fa parte della collana Sestante, dedicata ai grandi autori o alle grandi correnti della letteratura italiana, ma ha un problema preliminare che gli altri volumi della serie non hanno: dimostrare l’esistenza del suo oggetto. Che si debba o possa parlare di stilnovo come di una riconoscibile, descrivibile corrente poetica, infatti, molti studiosi l’hanno negato: e giustamente, dunque, il primo capitolo del libro informa sulla storia di questo «discusso concetto storiografico».
Lo stilnovo è, secondo una nota definizione di Contini, la «scuola che contiene con maggior consapevolezza e buona grazia il senso della collaborazione a un’opera di poesia oggettiva, e insomma la scuola che ha più il senso della scuola». Ora, lasciando da parte la questione della scuola, ciò che colpisce, negli autori che gli studiosi chiamano stilnovisti, è proprio la consapevolezza di sé e della propria arte che essi mostrano di avere. Perché è vero che la coscienza dello stilnovo è soprattutto Dante, che tra la Vita nova, il De vulgari eloquentia e il Purgatorio fissa il canone dei buoni e dei cattivi poeti («benché quasi tutti i Toscani siano diventati rochi nel loro turpiloquio, riteniamo che alcuni abbiano conosciuto l’eccellenza del volgare, e cioè Guido, Lapo e un altro, fiorentini, e Cino Pistoiese»: un altro, in questo passo del De vulgari eloquentia, è lui, Dante). Ma è anche vero che le poesie degli autori che stanno intorno a Dante sono il trionfo della metaletteratura: nel senso che questi sono autori che da un lato riflettono su ciò che fanno (e dicono per esempio quale tipo di amore vada messo in versi, quale tipo di donna occorra amare, a quale pubblico sia giusto rivolgersi), e dall’altro riflettono su ciò che fanno gli altri, alludendo a ciò che gli altri hanno scritto, o citandoli, oppure, e soprattutto, interagendo direttamente con loro attraverso i sonetti di corrispondenza (una buona percentuale della poesia stilnovista è fatta di tenzoni). Non c’è probabilmente un’altra epoca della storia letteraria in cui la poesia sia stata adoperata tanto assiduamente per commentare se stessa.
Molto opportunamente, Pirovano dedica tre capitoli lunghi e molto informati del suo libro allo studio di questa rete di rapporti: uno riepiloga e analizza le opinioni di Dante, un altro prova a tracciare il profilo della ’scuola’ attraverso le rime di corrispondenza, un terzo entra nei testi e illustra Aspetti e caratteri dello stil novo, cioè si concentra su alcuni temi e tratti di stile caratteristici di questi poeti. Questi sono i capitoli centrali del libro, quelli più ricchi di notizie e di spunti, ma si leggono con profitto anche quelli ’di servizio’, nei quali Pirovano riassume in poche limpide pagine vita opere e ’posizione’ degli stilnovisti e, soprattutto, informa sulla loro tradizione testuale, manoscritta e a stampa (chiunque abbia tentato di spiegare questioni così intricate sa quant’è difficile farlo con chiarezza, e limitando l’uso dei clichés). L’ultimo capitolo, Ai margini dello stil novo, introduce nomi nuovi nel canone stilnovista (l’Amico di Dante, Lupo degli Uberti, Noffo Bonaguide), e insomma complica il quadro, alludendo a una ’storia dello stilnovo’ che vada oltre la triade Dante-Cavalcanti-Cino: la storia di una maniera poetica, più che quella di un gruppo di poeti – che è appunto la prospettiva che anche secondo me sarebbe proficuo adottare.
Le obiezioni che posso fare al libro di Pirovano sono quelle a cui ho accennato in apertura: obiezioni che dipendono, più che da divergenze sull’interpretazione di questo o quel testo o autore (che non mancano, com’è naturale), da un diverso punto di vista sul modo in cui qualche aspetto di questa materia potrebbe essere trattato. Forse una maggiore profondità storica avrebbe aiutato a fissare meglio, a spiegare meglio la – diciamo – differenza stilnovista. Se si leggono in sequenza una poesia trobadorica, una siciliana, una toscana del pieno Duecento e una della Vita nova, anche l’orecchio non allenato avverte qualcosa di diverso, e si tratterebbe appunto di mettere meglio a fuoco quel qualcosa: osservare lo stilnovo in una diacronia più lunga di quella usuale potrebbe metterci nelle condizioni di capirlo meglio, e magari di segnare delle linee di continuità là dove ci pare di vedere delle fratture, o viceversa. In secondo luogo, senza affatto voler negare il tasso altissimo di metaletterarietà di questa poesia, mi pare che Pirovano accordi troppa fiducia alle (in breve) letture intertestuali che da mezzo secolo (per fissare una data: da Cavalcanti in Dante di Contini, 1968) hanno un così grande peso negli studi sulla letteratura medievale. Per la gran parte, secondo me, sono invenzioni (invenzioni che si trasmettono per prossimità, come le malattie infettive: gli allievi credono a quelle dei maestri, i pisani a quelle dei pisani, i milanesi a quelle dei milanesi, eccetera): e mi farebbe piacere se Pirovano la pensasse almeno un po’ come me. Ma sono opinioni. Ed è un’ottima cosa – un segno di vitalità della disciplina, ma anche di intelligenza da parte di chi sa riformulare i problemi – il fatto che di questi vecchi testi si possa ancora parlare, consentendo e dissentendo.
Donato Pirovano, Il dolce stil novo, Salerno Editrice, Roma, pagg, 360

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