mercoledì 1 aprile 2015

Potere e pathos


Così l’arte greca regalò le emozioni alla scultura

A Firenze nelle sale di Palazzo Strozzi sono in scena i bronzi ellenistici in arrivo dai grandi musei del mondo

Paolo Russo

"La Repubblica", 21 marzo 2015


LE PIÙ belle, e meglio conservate, son quelle riemerse dal Mediterraneo e dal Mar Nero. E ora in Palazzo Strozzi sfilano per Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico ( fino al 21 giugno). A chi li ha trovati, devon’esser apparsi come magiche epifanie avvolte nel liquido silenzio d’un verde-blu senza tempo. Ed ecco dal II secolo a.C. la Testa Ritratto d’uomo con la kausia, il tipico cappello macedone, preziosa pure per gli occhi in alabastro (le statue ellenistiche li avevano di norma ed erano policrome con inserti di rame, oro e argento), tolta all’Egeo nel ‘97. O la Figura maschile ripescata nel ‘92 da alcuni sub vicino Brindisi a soli 16 metri. Ancora, un probabile discobolo del IV-II secolo rimasto nelle reti d’un peschereccio, era il 2004, vicino l’isola greca di Climno, oggi splendido anche dei suoi bagliori verdi e rossastri di bronzo ossidato.
Fino alla magnetica, imponente Testa d’Apollo, che al Museo di Salerno commosse Ungaretti al punto di fargliela paragonare, in una immaginaria cronaca di quel fatto, agli occhi del pescatore di alici che la tirò su nel 1930, al Battista. La terra nei millenni non è stata lieve al bronzo. Meno ancora gli uomini, che i capolavori ellenistici in quella lega di rame e stagno allora più pregiata dell’argento e al pari dell’oro, li han rifusi senza pietà per farne armi e danari. Bellezza, morte e “sterco del diavolo” stretti in un sinistro paradosso. Accanto al quale, la fine della committenza (chi nel pio Medioevo pagava per statue nude o poco vestite?), cancellò la memoria visibile di quei tesori e l’insuperata maestria tecnico- espressiva che li aveva generati durante l’Ellenismo, fra IV e II secolo a.C. Per riconquistarla, insieme alle stupefacenti conoscenze anatomico-dinamiche di Fidia, Lisippo, Dedalo e gli altri maestri del periodo, ci vorrà il ‘400 di Ghiberti e Donatello. Fu l’Ellenismo un periodo lungo e fausto, che Alessandro lanciò sulle ali del suo sogno di unire le culture d’oriente con quella greca, alla quale fu educato da Aristotele. Un’utopia cosmopolita iniziata nel 336 a.C. con la conquista delle polis e terminata ai confini dell’India nel 323 a.C. con la morte a 33 anni di quel formidabile condottiero e visionario statista. Di quell’epoca irripetibile, cincoli quanta bronzi, per lo più divinità ed atleti, prestati da alcuni dei maggiori musei del mondo, raccontano ora una creatività fra le più alte della storia.
Benissimo curata da Jens Daehner e Kenneth Lapatin del Getty Museum di Los Angeles, la mostra si segnala inoltre per sintesi, eleganza d’allestimento, cura delle luci, i testi esaurienti e parchi delle sette sezioni. Avviate da un vuoto basamento firmato Lisippo, a suggerire l’assenza dei capolavori inghiottiti dai millenni, mentre il loro invece permanere è incarnato dall’ Arringatore, celebre pezzo di fine II secolo già di Cosimo I e conservato all’Archeologico di Firenze, che dal 20 marzo ospita una mostra su tre secoli della nota passione mediceo-lorenese per l’antichità. Un legame di profetica modernità che la mostra allarga dagli specialisti a chiunque. Si veda la superba Testa di cavallo “ Medici- Riccardi”, già di Lorenzo e restaurata per l’occasione, palesemente analoga sia alla Protome Carafa che a quella del monumento a Gattamelata, entrambe fusioni di Donatello, che i Medici vollero curatore delle loro raccolte antiche. Colpisce anche lo splendido Eros dormiente , archetipo del figlio di Afrodite ed Ares qui reso in un ideale di dolce innocenza già tal quale putti e cherubini rinascimentali. Quell’immenso, febbrile laboratorio politico, amministrativo e culturale che partorì la Biblioteca di Alessandria, Archimede e Aristarco di Samo, la nascita della filologia, fu tanto importante da sopravvivere al suo artefice. L’arte, anche decorativa, svettò, dando profondità emotiva e dinamica mai viste, credibilità anatomica, alla relativa fissità della pur già sofisticata statuaria arcaica e classica, ne ampliò gesti e posture, conferendo a quei tesori una relazione novissima col mondo esterno. E cancellando l’idealizzazione della classicità, per accogliere realismo e quotidiano, limiti e difetti, lo straniero e il deforme fin lì banditi dal sacro recinto dell’arte. È il caso della Statuetta di un artigiano del Met, un vecchio brutto, calvo e zoppo dalla povera veste, il cui taccuino nella cinta depone però più a favore di un artista. Lo splendore dell’Ellenismo trionferà anche nella Roma imperiale che conquistò la Grecia, dopo aver sedotto quella repubblicana e gli etruschi. Nel miracoloso sincretismo di quel futuribile cantiere dalle mille etnie e culture, l’arte greca resta centrale ma convive con altri centri di produzione – Egitto e Turchia – in uno scambio costante. Nello sconfinato impero che Alessandro conquistò con tale fulminea potenza da avviare, lui ancora in vita, la propria divinizzazione, parrebbe profilarsi una sorta di globalizzazione. Ma più che retrodatare un concetto a torto ritenuto nuovo e nostro, è più proficuo riconoscervi la storia che torna: come con l’impero romano, quello di Gengis Khan, il colonialismo eurocentrico che prese le mosse dalla cultura del Rinascimento.
A corredo della rivoluzione estetica e produttiva, l’ellenismo va annunciando anche un mercato dell’arte affatto diverso dal nostro. La committenza si sposta dalla polis alla corte ed ai privati, celebrando il primato della ritrattistica e, vero status symbol, le glorie di entrambi, anche in quanto collezionisti, mai prima d’allora così numerosi. L’arte vola ai confini dell’impero e oltre: un diffuso canone di bello è ulteriore koinè d’un’élite che ai temi civili della classicità preferisce realismo e intimismo. E a quella bulimia estetica gli originali non bastan più: i maestri, non più soli nelle loro botteghe-aziende, assemblano col mastice parti di corpi di cui hanno grandi riserve, secondo le caratteristiche del soggetto. Come, mutatis mutandis, accadrà coi Della Robbia, Perugino, i multipli anni Sessanta. Duemila anni prima di Benjamin, grazie al bronzo e all’esattezza delle repliche da fusione indiretta a cera persa (utilissima la saletta sulla complessa tecnica), l’opera è già riproducibile, legalmente e non, perché pure i falsari son già all’opera. La copia, come nel Rinascimento “malato” di classicità, assurge ad un’importanza inedita. Meglio se d’autore, ovvero gli eccelsi artigiani greci che nella Roma imperiale, benché ancora artigiani (lo status d’artista arriva, come si sa, intorno al 1200), firmavano fieri le proprie creazioni per le case dei potenti, che gareggiavano coi generali i quali, fino a tutto il II secolo a.C., riporteranno come trofei i bronzi razziati in guerra.

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