sabato 21 marzo 2015

La peste, il mugnaio, i mercanti. E la storia creò la lingua italiana


Dal Cinquecento abbiamo un lessico comune. Che l’inglese non distruggerà

Paolo Di Stefano

"Corriere della Sera", 20 marzo 2015

La Storia della lingua italiana nasce, come disciplina universitaria, nel 1938, quando viene istituita a Firenze l’omonima cattedra, affidata a Bruno Migliorini. L’anno successivo Roma attiva un insegnamento per Alfredo Schiaffini: poi, fino agli anni Cinquanta, le sole nomine sarebbero state quelle di Gianfranco Folena a Padova nel 1956 e di Maurizio Vitale a Milano nel 1957. Eppure gli studi di storia della lingua in Italia hanno avuto, fino a oggi, esponenti di sommo rilievo, capaci di spaziare tra la dialettologia e la stilistica letteraria, tra la filologia e la critica tout court . Ora, con la Prima lezione di storia della lingua italiana (Laterza, pp. 176), Luca Serianni, erede a Roma del grande Schiaffini e autore di saggi e manuali tra i più importanti degli ultimi decenni, si propone di tracciare le grandi linee della disciplina a beneficio di un ampio pubblico, con ammirevole chiarezza argomentativa e per quanto possibile senza troppi tecnicismi (quelli indispensabili vengono spiegati in un utile indice conclusivo).
«Come è ovvio — dice Serianni — la storia della lingua, non avendo riferimenti scolastici, è poco nota, dunque può capitare che anche le persone colte la confondano con altre discipline, come la glottologia oppure la storia della letteratura, mentre il suo campo di interesse non riguarda soltanto i testi letterari». I vari passaggi di continuità e discontinuità, a cominciare dal rapporto genetico tra latino (nella varietà parlata del «latino volgare») e italiano, sono illustrati con una molto essenziale serie di esempi. Senza dimenticare la presenza, nell’italiano come nelle altre lingue romanze, di un lessico dotto direttamente attinto dal latino, che ha lasciato un ricco deposito lessicale non solo nella lingua ma anche nei dialetti.
C’è una storia interna e una storia esterna. La prima riguarda gli sviluppi, strutturali, della fonetica, della morfologia, della sintassi, dovuti al succedersi delle generazioni di parlanti e alle interferenze di altre lingue. Quelli esterni provengono da fattori fisici, storici, antropologici o culturali. Si sa che le catastrofi naturali, le migrazioni, gli eventi bellici determinano più di altri il cambiamento delle lingue. Un esempio? La peste del 1348, con il conseguente spopolamento di Firenze e il successivo inurbarsi di persone provenienti dal contado, ha finito per provocare sensibili innovazioni linguistiche. E basti pensare alle conseguenze del sacco di Roma del 1527 ad opera dei lanzichenecchi, che con l’ondata migratoria giunta dal Centro-Nord portò numerosi tratti settentrionali in un dialetto che fino ad allora registrava elementi tipicamente meridionali. E non si allude solo alle evidenze del lessico, ma anche alla fonetica.
«Si può sostenere — scrive Serianni — che la storia di una lingua altro non sia che una particolare declinazione della storia generale, alla stregua della storia dell’arte o delle istituzioni sociali». Un filo rosso che Serianni insegue con particolare attenzione e che non dovrebbe sfuggire agli storici tout court riguarda il rapporto tra cultura alta e «gente comune»: secondo studi ormai consolidati, l’acquisizione della lingua scritta è avvenuta, in passato, attraverso canali non istituzionali. Il caso del mugnaio friulano del Cinquecento Domenico Scandella, detto Menocchio, ricostruito da Carlo Ginzburg in un libro divenuto un piccolo classico della storiografia, è particolarmente significativo: nonostante la sua distanza geografica e culturale dagli ambienti intellettuali, Menocchio, processato dall’Inquisizione e poi condannato al rogo nel 1599, era arrivato a conoscere l’italiano da autodidatta attraverso la lettura di libri d’avventura e di testi religiosi ottenuti in prestito. Si deve ai lavori di Francesco Bruni e di Enrico Testa su documenti privati come gli epistolari l’idea di un «italiano pidocchiale» diffuso ben prima dell’unità nazionale, della scolarizzazione estesa e dell’azione determinante della televisione. Un «italiano nascosto» che conviveva con i dialetti.
«La tradizione — osserva Serianni — sottolinea l’inesistenza dell’italiano nei secoli passati: nella percezione comune l’identità italiana è poco più che un’invenzione romantica o risorgimentale, ma un filo linguistico comune, sovradialettale, si può cogliere a partire dal Cinquecento anche fuori dal recinto della letteratura alta». Gli illetterati dialettofoni potevano imparare l’italiano «per pratica», arrivando ad averne una competenza passiva grazie all’azione, certo «preterintenzionale», svolta con il catechismo dalla Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento. Insomma, l’idea che i dialetti abbiamo dominato incontrastati la comunicazione orale non sarebbe altro che «un solido pregiudizio», come ha scritto lo stesso Bruni.
È dimostrato, tra l’altro, che tra la lingua umile quotidiana e la codificazione letteraria è esistita un’area di mezzo rappresentata da un italiano scritto commerciale e diplomatico, utilizzato in ampie zone del Mediterraneo e dell’Europa orientale per almeno tre secoli, tra il XVI e il XVIII: l’italiano è stato, per esempio, la lingua super partes adottata nel testo ufficiale di un importante trattato bulgaro del 1774, quello di Kuüçüc Kaynarca, che pose fine a uno dei conflitti tra russi e turchi. Anche le cancellerie dei consolati francese e britannico a Tunisi, nel corso del Seicento, adottavano la nostra lingua. Una lingua veicolare simile all’inglese attuale? «Certo — risponde Serianni — ma in una proporzione più ridotta: l’inglese è oggi una lingua planetaria adottata sistematicamente in ambito scientifico, ma il meccanismo è simile». Fatto sta che oggi gli apocalittici parlano di decadenza dell’italiano. Solo luoghi comuni e errori di prospettiva, come fa notare ironicamente Giuseppe Antonelli in un recente libro? «Gli ultimi dati Istat dimostrano che l’uso dell’italiano rispetto al dialetto sta crescendo, mentre fino a qualche anno fa sembrava immobile. Gli aspetti di criticità si verificano semmai nella pratica scritta, soprattutto a scuola: i test mettono in evidenza la povertà del lessico e la scarsa capacità di comprensione di un testo complesso come un editoriale giornalistico. Questo è il dato più preoccupante, che ha anche ricadute sul piano civile, non certo la morte del congiuntivo, che tra l’altro non sta affatto morendo. Quel che sta morendo è la capacità di argomentare». Proprio all’argomentazione, Serianni ha dedicato un libro, uscito l’anno scorso da Laterza, che proponeva «prove ragionate di scrittura».
Se l’invasione dell’inglese è ormai un dato di fatto, Serianni non concorda con l’auspicio di Tullio De Mauro che l’inglese diventi la lingua veicolare della polis europea: «Se così fosse, l’inglese dovrebbe diventare la lingua della comunicazione politica, ma il discorso politico non trasmette solo informazioni tecniche, perché fa leva sui simboli, sulle emozioni, sui sentimenti. Pensare che la conoscenza dell’inglese sia così avanzata da cancellare le lingue nazionali sarebbe sbagliato. Sarebbe come decretare la perdita dell’identità plurilingue europea». Del resto, in Germania, per fare un esempio, la questione linguistica non si pone nemmeno: in ogni sede istituzionale il tedesco è inamovibile e un corrispondente di un giornale italiano che pensasse di stabilirsi a Berlino conoscendo solo l’inglese resterebbe rapidamente fuori gioco. Per non parlare della Francia, ancora saldamente ancorata alla propria identità linguistica a ogni livello.
Altra faccenda è la letteratura. Manzoni era convinto che l’italiano doveva scrollarsi di dosso la sua cultura letteraria e guardare piuttosto a quella parlata «viva e vera» capace di diventare lingua nazionale, e cioè il fiorentino. Graziadio Isaia Ascoli contestò il dirigismo manzoniano, rivendicando la portata della tradizione scritta e della cultura alta come motori del processo di costruzione di una lingua unitaria. Una vexata quaestio che rimane ancora attuale. Provando infine ad abbozzare una sorta di «certificato storico per l’italiano», sul modello dei documenti di residenza o di stato di famiglia rilasciati dai Comuni, Serianni si schiera con Ascoli: lo strumento che ha permesso di dare voce agli emarginati è la scrittura, quel modello super-regionale filtrato dalla Chiesa e diventato con la grande letteratura trecentesca e con la codificazione del Cinquecento «un esempio precoce di lingua sufficientemente stabile».

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