domenica 22 febbraio 2015

L’universo smise di essere un noioso parallelepipedo



1915-2015. 
Il 25 novembre di un secolo fa 
Albert Einstein presentò la teoria della relatività generale
Il cielo non fu più quello che fino ad allora era stato pensato, ma si trasformò in una struttura viva, 
mobile ed elastica, piena di fosse, cunicoli e pendii
E l’uomo a livello cosmico divenne del tutto irrilevante

Paolo Giordano

"Corriere della Sera - La Lettura", 22 febbraio 2015

Credo di avere incubato la fascinazione per la fisica molto tempo fa, da bambino, grazie soprattutto alla relatività generale. Ne conoscevo giusto il nome, com’è ovvio, ma quello era sufficiente a darmi l’idea elettrizzante di un sapere assoluto, «generale» appunto, e avevo visto alcune animazioni rozze nelle quali le masse dei pianeti deformavano la geometria dello spazio: mi avevano sconvolto. I residui di poche parole — «spaziotempo», «relatività», «gravitazione» —, uniti alle istantanee colorate e inquietanti delle nebulose immobili ai confini nell’universo, prevalsero al momento giusto su altre curiosità sviluppate nel frattempo, e io mi ritrovai a studiare fisica all’università.
Dovetti attendere il penultimo anno di corso per addentrarmi nella teoria che mi aveva motivato fin dall’inizio. La relatività generale, sebbene si tratti di un campo non più nuovo, fa ancora parte delle frontiere più avanzate della scienza e richiede un allenamento agonistico per essere affrontata nello specifico. Il professore che teneva i due moduli del corso aveva il vizio di non scrivere alla lavagna. Pretendeva di farci comprendere i calcoli astrusi della relatività da seduto, sviluppando tensori e integrali nell’aria trasparente di fronte a sé. Spesso interrompeva le lezioni con lunghe telefonate in russo, alle quali assistevamo perplessi e rispettosi. Riteneva, come molti iniziati alle scienze più radicali, che avremmo dovuto essere in grado di occuparci da soli delle minuzie dei conti, impresa che io tentai e ritentai in quegli anni, sempre senza una piena soddisfazione.
«È un vero miracolo che i metodi moderni di istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca», scriveva Einstein a proposito del proprio accidentato percorso di studi. Ed è altrettanto miracoloso, per me, che l’ammirazione per la sua teoria più grandiosa sia uscita indenne, rinvigorita semmai, dai miei anni universitari e dai tentativi falliti di dominarla, al punto che, a cento anni esatti dal suo concepimento, sento il bisogno di festeggiarla come merita.
Einstein presentò il suo lavoro sulla relatività generale il 25 novembre 1915 davanti all’Accademia prussiana delle scienze. All’epoca era già una celebrità per via dei tre articoli pubblicati nel 1905, tra cui quello sulla relatività ristretta e quello sull’effetto fotoelettrico che gli avrebbe valso il Nobel, ma sarebbe stata la relatività generale a renderlo l’icona indiscussa della fisica moderna, della scienza in genere, del pensiero umano stesso.
Come accade non di rado, Einstein approdò a un risultato capitale partendo da un problema concettuale piuttosto semplice e da una convinzione personale, si potrebbe quasi dire da un principio «di buon senso». Era persuaso che le leggi naturali, le leggi fondamentali della fisica, dovessero essere le stesse da qualunque parte le si osservasse o, per dirla più precisamente, in qualunque sistema di riferimento si effettuassero le misure. Non si trattava di una convinzione nuova per lui. Nell’articolo sulla relatività ristretta aveva mostrato con eleganza come ciò fosse vero per due osservatori che si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro: il «buon senso» di Einstein valeva, a patto di accettare che la luce viaggiasse a una velocità fissa per chiunque dei due la misurasse. Il problema, tuttavia, sussisteva ancora nel caso di due osservatori che avessero un’accelerazione l’uno rispetto all’altro. Nel 1907, mentre lavorava ancora presso l’Ufficio brevetti di Berna, Einstein iniziò a preoccuparsi di questa possibile estensione.
In uno dei suoi «esperimenti mentali» — che l’iconografia ci ha abituato, forse un po’ ingiustamente, a pensare come divagazioni libere durante il tedio dell’ufficio — Einstein immaginò un uomo in caduta libera insieme ad altri oggetti. Un pensiero poetico, insomma. Immedesimandosi in quell’uomo e levandogli le complicazioni del dove e perché stesse precipitando, dell’aria in faccia, del terrore di morire schiantato, intuì che non ci fosse modo per lui, durante la caduta, di accorgersi dell’esistenza della gravità, nessuna misurazione glielo consentiva. Che l’esperimento mentale tradisse una sinistra carenza di empatia, Einstein si accorse forse in seguito, al punto di scrivere nella sua Autobiografia scientifica : «Se un individuo ha il dono di pensare con chiarezza, può darsi benissimo che questo lato della sua natura si sviluppi maggiormente a spese di altri lati, e determini quindi più la sua mentalità». Comunque sia, grazie alla sua «mentalità» e alla noncuranza per le sorti dell’uomo in caduta libera, Einstein creò la prima sinapsi tra il concetto di accelerazione e quello di attrazione gravitazionale, la base della relatività generale.
Per formalizzare compiutamente la teoria gli ci vollero altri otto anni, i trasferimenti da Berna a Praga, poi a Zurigo e infine a Berlino, la separazione dalla prima moglie Mileva, dai figli, e — qui sta l’eccezionalità dell’impresa — un’immersione in rami sofisticatissimi della matematica, che pochi all’epoca immaginavano potessero rivelarsi utili per descrivere la realtà. Bernhard Riemann, un allievo geniale di Carl Friedrich Gauss, aveva studiato la curvatura delle superfici immerse in spazi a molte dimensioni, e da più parti nel mondo venivano esplorate da anni le proprietà fantasiose delle geometrie cosiddette «non euclidee»: geometrie nelle quali decadono certe ipotesi sullo spazio così come lo sperimentiamo, nelle quali le rette parallele prima o poi s’incontrano, la somma degli angoli interni dei triangoli è diversa da centottanta gradi e percorrendo a piedi un quadrato non ci si ritrova infine al punto di partenza. Sembravano arzigogolii tipici della matematica pura, modelli strampalati, e invece attendevano pazienti di debuttare da protagonisti nel mondo fenomenico.
Einstein pensò allo spaziotempo come a una struttura geometrica che viene deformata, curvata dalla presenza della materia — dall’energia e dalla massa, dalle stelle, dai pianeti, dai gas — e seppe trovare la relazione esatta fra l’ammontare della curvatura e la quantità di materia necessaria a produrla. «Einstein dice che lo spazio è curvo e che causa della curvatura è la materia», sintetizzò Richard Feynman anni dopo. Se fino a un attimo prima l’universo era un noioso parallelepipedo punteggiato di corpi celesti, il 25 novembre 1915 esso si trasformò all’improvviso in una struttura viva, mobile ed elastica, piena di fosse e rigonfiamenti e cunicoli e pendii scoscesi.
Da visualizzare non è semplice, anzi è impossibile. Per quanto dotato intellettivamente, nessun essere umano è in grado di raffigurarsi lo spaziotempo in quattro dimensioni, e ancor meno una sua deformazione. Possiamo sì intuire l’esistenza di una quarta dimensione, quella temporale, attraverso analogie brillanti, ma non certo coglierla appieno. A dispetto delle intuizioni di Einstein e delle elaborate concezioni attuali, il tempo resta per noi una variabile disaccoppiata dallo spazio, newtoniana, qualcosa che scorre in avanti e basta, con esasperante regolarità.
Non solo. Non siamo nemmeno in grado di rappresentare mentalmente un volume di spazio che viene curvato. Sappiamo farlo bene con una superficie — basta pensare all’effetto di una sfera di metallo poggiata su un lenzuolo ben teso —, ma con una dimensione spaziale aggiuntiva siamo già persi. All’immagine «istintiva» della relatività generale mancano, quindi, sempre due dimensioni e ciò è valido per tutti, per Einstein come per ciascuno di noi.
La teoria, al di là dell’ostico formalismo matematico, presenta un bizzarro aspetto democratico: non può essere davvero visualizzata da nessuno. La sua comprensione è sempre assimilabile, con più o meno sofisticazioni, a quella della sfera di metallo che crea una conca nel lenzuolo. Per i fisici moderni, abbandonare in tal senso il conforto della percezione, di quella visiva in particolare, è ormai diventato una prassi. Non solo la relatività generale, ma anche la meccanica quantistica (perfino in misura maggiore) richiedono all’uomo di allentare i lacci dell’intuitività, di chiudere gli occhi e fidarsi da un certo punto in poi della matematica e della sua interpretazione attenta. Certa fisica, in effetti, non la si comprende davvero, piuttosto ci si abitua. Se fossimo minuscoli, molte di quelle che appaiono come elucubrazioni sarebbero per noi ovvie, esperibili, ma così non è. Il Novecento ha segnato in molti ambiti questo passaggio a una «scienza dell’invisibile», di ciò che è troppo elusivo, troppo piccolo, troppo distante per essere acciuffato, se non con il pensiero o l’evidenza indiretta.
Ciò che della relatività generale conquistò tutti, prima ancora del suo significato, fu che era espressa da un’equazione, una sola, elegantissima e apparentemente innocua (per inciso, non si tratta di quella associata a Einstein nei poster, E=mc2, che ha a che vedere con la relatività ristretta, bensì di un’altra dall’aspetto più esotico). I fisici sono facilmente sedotti dalla sinteticità delle formule. Malgrado la compattezza, però, nel momento in cui il fisico malcapitato decideva di «aprire» l’equazione di Einstein, essa si rivelava di una complessità quasi mostruosa, come un nodo di serpenti velenosi, ognuno dotato di parecchie teste. La ricerca di soluzioni, sempre particolari, ha occupato non soltanto i fisici, ma eserciti di computer strapotenti, fino a oggi. E ogni soluzione trovata ha inaugurato una nuova branca della ricerca e una rivoluzione nel nostro modo di intendere il cosmo.
Non esiste altra teoria scientifica che in un unico balzo abbia portato l’uomo così in alto nella comprensione della realtà e al tempo stesso lo abbia annichilito tanto gravemente. Se scoprire che la Terra non era al centro di tutto e il Sole non le ruotava attorno fu un duro colpo alle nostre certezze istintive, è stata la relatività generale a sancire la totale irrilevanza dell’uomo, almeno a livello cosmico. Einstein stesso crebbe con l’idea di un universo costante, immutabile. In pochi decenni la relatività generale ci ha invece informati che l’universo ha avuto un’origine microscopica e drammatica, il Big Bang, e che avrà anche una fine, sebbene sia ancora dibattuto quale; ci ha informati che esso si sta espandendo intorno a noi — sta «lievitando» rende forse meglio l’idea — e lo fa sempre più in fretta; che non solo occupiamo un posto periferico nella nostra galassia, ma la nostra galassia è solo una fra le innumerevoli; che le stelle hanno destini diversi e commoventi e il nostro Sole sarà infine ridotto a una miserevole nana bianca; che balliamo tutti quanti intorno a un buco nero che inghiotte e inghiotte materia, insaziabile, azzerando ogni memoria di ciò che era prima; che ciò che vediamo e sentiamo e tocchiamo non è che il quattro per cento di quello che realmente esiste là fuori, perciò il resto lo chiamiamo Materia oscura o Energia oscura e non abbiamo idea di che accidenti sia.
Proprio in ragione della loro drammaticità, Einstein fu il primo a opporre resistenza a certe conseguenze della sua teoria. Che l’universo avesse avuto un inizio gli sembrava un’assurdità e per tutta la vita trattò i buchi neri come dei meri intoppi matematici di cui sbarazzarsi. Nessuna mente, per quanto geniale, sarebbe disposta ad accettare una tale mole di cambiamenti tutta insieme. Al contrario, per noi è quasi impossibile pensare all’universo senza contemplarne l’inizio esplosivo, guardare il cielo notturno senza essere da qualche parte consapevoli dei buchi neri incastonati nelle sue profondità. Se anche non abbiamo studiato quelle cose, esse si sono imposte in qualche strato della nostra coscienza. La relatività generale, come ogni grande rivoluzione della scienza, è stata anche un gigantesco trauma collettivo e varrebbe forse la pena, oggi, di indagare come abbia influenzato il nostro modo di essere, la fiducia che riponiamo in noi stessi.
Si tratta, con ogni probabilità, anche della teoria che ha generato più equivoci di sempre. Il suo nome, «relatività generale», ha portato molti alla conclusione sbrigativa e superficiale che, secondo Einstein, tutto quanto fosse «relativo». Hans Reichenbach diede al fisico parte della responsabilità di ciò, sottolineando come in ragione della sua scoperta egli fosse diventato «un filosofo implicito», pur rifiutando per tutta la vita un simile ruolo. «Questa è la sua forza e la sua debolezza a un tempo: la sua forza, perché ha reso tanto più concreta la sua fisica; la sua debolezza, perché ha lasciato la sua teoria esposta ai travisamenti e alle interpretazioni sbagliate».
In realtà, se si riflette sul presupposto di Einstein, ovvero che le leggi della natura debbano essere equivalenti da qualunque parte le si osservi, si capisce facilmente come la relatività generale affermi semmai il contrario della sua vulgata più deteriore.
Allo stesso modo, è sbagliato considerare l’impresa di Einstein come la supremazia del pensiero puro, teorico, sulla scienza sperimentale. Lo conferma il fatto stesso che tutte le sue intuizioni muovessero da veri e propri esperimenti, seppure immaginati. Paradossalmente Einstein, l’emblema della ragione che domina la concretezza, era un fisico legato in tutto e per tutto all’empirismo. Si premurò, fin da subito, di trovare delle prove che convalidassero la sua teoria. La prima era già disponibile: si sapeva da tempo che l’orbita di Mercurio intorno al Sole si comportava in maniera anomala, almeno stando alla legge di gravitazione di Newton. Per giustificare le irregolarità nella sua rivoluzione si era perfino ipotizzata l’esistenza di un pianeta aggiuntivo nel nostro sistema solare, Vulcano, peccato che nessuno riuscisse a vederlo. L’anomalia, si scoprì, era un effetto puro della relatività.
L’evidenza schiacciante arrivò nel 1919, quando Arthur Eddington organizzò una spedizione all’Isola di Principe, nel Golfo di Guinea, e lì, durante un’eclissi totale di Sole, fu in grado di fotografare la deflessione dei raggi luminosi, il modo in cui il segnale proveniente dalle stelle giungeva a noi curvato dal campo gravitazionale intorno al Sole.
Ma ci sono aspetti della teoria che attendono ancora un verdetto a cento anni dalla scoperta. Se la relatività generale è vera così come Einstein l’ha formulata, allora devono esistere nel cosmo delle «onde gravitazionali». Di nuovo il cervello s’imbatte in un limite intrinseco nel tentativo di visualizzare queste onde che si muovono nello spaziotempo a quattro dimensioni mettendolo in agitazione, e di nuovo si rifugia nella sfera poggiata sul lenzuolo: lasciate cadere la sfera da una leggera altezza ed essa provocherà delle increspature nel tessuto. Si suppone che onde gravitazionali generate da eventi catastrofici, come la fusione di due buchi neri, ci attraversino in continuazione, deformandoci, ma i loro effetti sono così leggeri da esserci sempre sfuggiti. «Più che a uno specchio d’acqua, lo spaziotempo somiglia a una lastra d’acciaio straordinariamente compatta, che vibra a malapena anche se percossa nel modo più violento possibile» (Pedro G. Ferreira).
Alcune generazioni di fisici sperimentali hanno ormai sacrificato la propria vita alla frustrazione di non riuscire a rilevare le onde gravitazionali. Dai grossi cilindri di metallo sospesi in aria da Joseph Weber si è passati a misurazioni sempre più sofisticate, a scrutare i sistemi binari di stelle relegati ai margini remoti dell’universo, fino a concepire l’esperimento più ardito che l’umanità abbia mai sognato, per certi versi più ardito dell’attuale collisore del Cern. Gli ideatori del Laser Interferometer Space Antenna Project, Lisa in breve, proposero di mandare in orbita intorno al Sole tre satelliti, che avrebbero disegnato un triangolo virtuale con un lato di cinque milioni di chilometri e comunicato fra loro attraverso fasci laser e specchi. Le onde gravitazionali, con il loro passaggio, avrebbero incurvato le traiettorie dei laser, modificandone in maniera lieve gli spettri di interferenza. Gli Stati Uniti si sono però tirati indietro spaventati dal costo dell’impresa, stellare anche quello, e Lisa è stato ridotto alla sua versione europea, eLisa, con bracci di «solo» un milione di chilometri, e il cui lancio è previsto per il 2034.
Pedro G. Ferreira, nel suo libro La teoria perfetta, giura che il nostro sarà il secolo della relatività generale, dopo che il Novecento ha celebrato tutto lo splendore e l’orrore della fisica atomica. Se è vero, ci siamo entrati pieni di domande, la principale delle quali è come sia possibile unificare la gravità con le altre interazioni fondamentali della natura in un’unica visione sintetica, una questione alla quale già Einstein dedicò decenni infruttuosi della sua vita e che tiene la fisica teorica in una delle più lunghe impasse di sempre, una impasse che tuttavia, come accade tanto nella scienza quanto nell’arte, ha prodotto nel frattempo teorie collaterali intrepide e inattese: la teoria delle stringhe, la gravità quantistica e le ipotesi secondo le quali il nostro universo non sarebbe che un piccolo rigonfiamento di un cosmo immensamente più esteso e composito.
È probabile che Einstein, da innovatore profondamente reazionario che era, avrebbe scartato con sprezzo la gran parte di queste congetture. La storia insegna che spesso sbagliò nel farlo. Per noi, che non dobbiamo preoccuparci del rigore delle equazioni, non ha troppa importanza. Possiamo goderci la relatività generale e i suoi costrutti più estremi come un immaginario estatico e potente, bearci di come la ragione umana, attraverso lo sforzo di un uomo e di tutti coloro che lo hanno seguito, abbia saputo cogliere un mistero tanto intrinseco della natura. E forse, per una volta, rallegrarci di vivere in un’epoca che ha almeno questo di speciale: il cosmo che ci circonda non è mai stato così tumultuoso e così grande.

1 commento:

  1. .... la lusinga del poter racchiudere in una formula la sintesi del " Creato " è sempre presente dal tempo della " mela " che Adamo mangiò .... In questo senso l' articolo è fascinoso e stimolante . Tuttavia , come scienziato, si dovrebbe chiarire che ogni teoria ha i suoi limiti di validità e la misura della sua " validità " sperimentale è data dalla possibilità di " confutarla " ( Popper ) . E' un bell' articolo comunque soprattutto nello spirito di chi lo ha scritto che ha evocato le mie stesse sensazioni quando scelsi di iscrivermi alla facoltà di FISICA all' Sapienza di Roma nel 1961/62 . Enzo Di Giacomo

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