lunedì 8 dicembre 2014

Il sesso dell'arte



Il Novecento ha ribaltato molti stereotipi
La Yourcenar si faceva chiamare scrittore e i suoi protagonisti sono uomini. 
Mentre il sito “Goodreads” ora attesta che le lettrici sono più libere di scegliere cosa leggere


Melania Mazzucco

"La Repubblica", 7 dicembre 2014

I LIBRI, i quadri, i film, hanno un sesso? E se sì, hanno il sesso del loro autore (della loro autrice)? Dall’origine dei tempi tutti gli artisti si considerano i genitori delle loro opere, essendo coloro che le mettono al mondo. Ma i genitori non possono determinare il genere delle loro creature — nemmeno l’ingegneria genetica sa farlo: può selezionarlo, ma è cosa diversa. Se i romanzi, i quadri e i film ripetessero meccanicamente il sesso del loro autore ciò costituirebbe un’eccezione sconvolgente che minerebbe lo statuto stesso delle opere, e dimostrerebbe che gli autori si sono sempre sbagliati. Essi non sono genitori ma gemelli delle loro creature. Queste non avrebbero alcuna autonomia, alcuna singolarità: sarebbero solo il loro specchio.
È ingenuo illudersi di riconoscere da una frase (un dettaglio, un fotogramma) l’identità dell’autore. La storia tramanda romanziere celate dietro uno pseudonimo maschile, pittrici che sono state confuse coi loro fratelli o padri, musiciste i cui spartiti sono stati usurpati dai loro maestri o mariti. Eppure questi equivoci riguardano soprattutto le epoche passate, quando le donne dovevano contentarsi di utilizzare modelli, esperienze, fantasie, tecniche e simboli considerati universali, ma in realtà elaborati dagli uomini. La domanda perciò non è retorica.
Da alcuni millenni i filosofi, e da qualche decennio anche le filosofe, si chiedono che cosa distingua il maschile dal femminile. E se questa differenza sia naturale (innata, essenziale) o culturale. Aristotele diede la risposta più duratura (i residui del suo dualismo, che ha improntato il pensiero occidentale, sopravvivono ancora adesso, in forma di luogo comune del discorso): il maschile è l’elemento attivo, portatore di forma; il femminile è materia, elemento inerte. Da questa contrapposizione originaria sono derivate una serie di dicotomie: al maschile si associano azione, razionalità, autocontrollo, efficacia, luce, innovazione; al femminile passività, irrazionalità, sensibilità, debolezza, oscurità, incapacità di invenzione e originalità. Questi stessi stereotipi sono divenuti anche categorie artistiche — stilistiche, tematiche.
“Virile” è analogo di “potente”, “forte”, “razionale”, “asciutto”, caratteristiche che si suppongono naturalmente proprie dell’uomo (e delle sue opere), in opposizione a “debole”, “sentimentale”, “emotivo”, “ridondante”: caratteristiche che invece si suppongono naturalmente proprie della donna (e delle sue opere). Gli aggettivi sottintendono un giudizio e una gerarchia di qualità. Che le donne hanno introiettato e fatto proprio. Dovevano ritenere un complimento essere considerate autrici di un’opera “virile” (come capitò alle pittrici Gentileschi, Valadon e tante altre).
Marguerite Yourcenar ribadì spesso il suo scarso interesse per il personaggio femminile (anche per il proprio: voleva essere chiamata scrittore e non scrittrice, questa parola implicando un disvalore). I protagonisti dei suoi romanzi, da Alexis a Adriano e Zenone, sono uomini. Diceva: le donne non fanno la guerra, non hanno potere. Il loro destino le costringe fra quattro mura — e costringe il romanziere che si occupa di loro a limitarsi a temi domestici, da interno: la famiglia, l’adulterio, il divorzio, la maternità. Una letteratura che ha per protagonista la donna è perciò antiepica, lirica, elegiaca, intimista. Non il romanzo — che presuppone un forte legame con la società circostante, l’esterno — ma la novella (e il diario o l’autobiografia) sarebbero la forma più adatta a narrare il personaggio femminile. Parallelamente, in pittura, il genere considerato congeniale alla donna era il ritratto (l’interno), non la pittura storica (che presupponeva, appunto, il mondo), e nel cinema il dramma sentimentale e non il western o il thriller.
I mutamenti sociali e antropologici avvenuti nel XX secolo hanno terremotato questi pregiudizi. Le donne hanno scritto romanzi assai belli e diretto innovativi film d’azione e di guerra (basti pensare alla regista Kathryn Bigelow). La crisi dello stereotipo vale anche al contrario: bei film intimisti e sui sentimenti li hanno girati registi uomini (i fratelli Dardenne, Todd Solonz, Alexander Payne, Asgar Farhadi).
E se le dicotomie sopra citate si sono rivelate culturali e non naturali, e perciò reversibili, resta il fatto che la fruizione artistica è un’esperienza cognitiva (leggere, guardare, ascoltare, significa comprendere un testo) e insieme emotiva (sperimentare gli effetti del testo), e perciò il genere del lettore (spettatore, ascoltatore) è determinante quanto il genere inscritto nel testo (non del testo).
Esperimenti condotti già negli anni Ottanta nelle università americane hanno dimostrato che uomini e donne leggono i romanzi in modo diverso. Gli uomini li ritengono il risultato di una costruzione, e perciò percepiscono con forza la voce che parla, le donne li sperimentano come mondo, senza soffermarsi su come questo venga narrato. Li riassumono anche in modo opposto: i primi selezionano trama e azione; le seconde atmosfera, contesto, relazioni tra i personaggi.
Inoltre le donne sono state educate a leggere i testi degli uomini, a vedersi riflesse nel loro sguardo e ad assumere sistema di valori, princìpi e punto di vista maschile: a sognare di essere Ettore piuttosto che Andromaca, Sandokan piuttosto che la perla di Labuan, Pinocchio e non la Fata Turchina. Mi rallegra apprendere dal sondaggio di Goodreads (di cui ha parlato su queste pagine Enrico Franceschini il 27 novembre scorso) che le lettrici (inglesi) siano ora libere di scegliere da chi preferiscano essere intrattenute, educate, spaventate, e che i condizionamenti culturali che le hanno afflitte per secoli si siano sbriciolati. Gli uomini, invece, non hanno dovuto farlo: con rare eccezioni i classici della cultura occidentale sono scritti da uomini. Gli uomini non sono abituati a vedersi riflessi nello sguardo dell’altro. Essi sono, per parafrasare un saggio di critica femminista di Judith Fetterley, «lettori che oppongono resistenza». Se accetteranno la sfida, potranno leggere per duemila anni libri col nome femminile sopra il titolo. Solo allora potranno scegliere con consapevolezza, e il risultato del sondaggio avrà davvero significato.
Ma anche il lettore (lettrice) è una figura immaginaria. La singolarità di ciascuno di noi non deriva solo dal genere, ma anche da altre differenze — la classe, la geografia, la razza, l’orientamento sessuale, la cultura, la politica — e dialoga con la società in cui viviamo. E se noi lettrici, lettori, scrittori, scrittrici, siamo plurali, allora anche le opere lo sono. Di sessi ne hanno più d’uno. Il proprio, quello di chi le crea e quello di chi le gode e se ne appropria.

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