giovedì 4 settembre 2014

Einstein nemico della guerra. La sua speranza era Gandhi


Sin dal 1914 il grande fisico si oppose al nazionalismo

Paolo Mieli

"Corriere della Sera", 2 settembre 2014

La più grande idea del Novecento deve tutto alla coerenza e all’ostinazione di intellettuali che seppero sottrarsi ai forti condizionamenti dei tempi in cui vissero. Proprio nel 1914, anno d’inizio del primo conflitto mondiale, l’ebreo svizzero Albert Einstein, dopo una vita tutt’altro che coronata da successi, ebbe qualche primo importante riconoscimento: fu chiamato a Berlino a dirigere il neonato Kaiser Wilhelm Institut per la fisica e fu nominato membro della prestigiosa Accademia prussiana delle scienze. Sua moglie Mileva aveva voluto rimanere a Zurigo con i figli: sarebbero rimasti separati per cinque anni, poi nel 1919 avrebbero divorziato e lui si sarebbe risposato con Elsa Loewenthal, sua cugina. Lì a Berlino Einstein avrebbe trovato amici tra alcuni eminenti colleghi come Max Planck e Walther Nernst. Forse ne avrebbe avuti di più, se non si fosse messo di traverso all’onda nazionalista che contraddistinse l’ingresso del Paese nella Prima guerra mondiale. Un clima, quello interventista, che l’inventore della teoria della relatività definì «da manicomio».
Nell’ottobre del 1914 fu dato alle stampe il celebre manifesto nazionalista dal titolo «Un appello al mondo della cultura», sottoscritto da 93 scienziati, scrittori, artisti e intellettuali che si proponevano di difendere il governo tedesco e «controbattere alla disinformazione sulla Germania». Disinformazione che a loro avviso stava dilagando in tutto il mondo e che meritava adeguate messe a punto. Il manifesto sosteneva che i tedeschi non erano responsabili dello scoppio del conflitto, sorvolando del tutto sul fatto che la Germania aveva da poco invaso il Belgio, devastando per di più la città di Lovanio: neghiamo, dicevano — non senza una certa improntitudine — i 93, che «i nostri soldati abbiano attentato alla vita o ai beni di un solo cittadino belga».
Fu questo un frangente di grande rilievo nella vita di Einstein, peraltro dedicata interamente alla scienza. È quel che sostiene Pedro G. Ferreira nel libro La teoria perfetta, che la Rizzoli si accinge a pubblicare nell’impeccabile traduzione di Carlo Capararo e Andrea Zucchetti. Einstein, scrive Ferreira, «era scioccato da quel che avveniva intorno a lui»; da pacifista e internazionalista qual era, scese in campo con un contromanifesto, «Un appello agli europei», nel quale, assieme a un pugno di colleghi, prendeva le distanze dal «Manifesto dei 93», criticandone duramente i firmatari e sollecitando gli «uomini colti di tutti gli Stati» a «lottare contro quella guerra distruttiva». Ma quell’appello fu bellamente ignorato, tant’è che in Inghilterra nessuno ritenne di fare distinzioni tra i firmatari dei due appelli. Nessuno, tranne lo studioso Arthur Eddington, grandissimo astronomo nonché direttore dell’osservatorio di Cambridge. Allo scoppio della Grande guerra, racconta Ferreira, Eddington fu una delle poche voci che si levarono contro l’ondata di acceso nazionalismo che riguardava non soltanto il suo Paese, ma anche moltissimi suoi colleghi. La situazione che si era creata al momento dell’entrata in guerra della Gran Bretagna «lo aveva gettato nello sconforto». Soprattutto per quel che riguardava le future relazioni tra uomini di pensiero e di scienza.
In una serie di furibondi articoli su «The Observatory», l’organo ufficiale degli astronomi britannici, «le argomentazioni contro la collaborazione con gli scienziati tedeschi» furono sostenute con forza da un gran numero di studiosi. Era come se i loro colleghi tedeschi fossero diventati all’improvviso non degni di essere considerati dei veri scienziati. I rapporti tra i loro mondi d’un tratto si fecero gelidi. L’eminente professore di astronomia di Oxford Herbert Turner non ebbe esitazioni a dire cose senza senso: «Possiamo riammettere la Germania nella comunità internazionale e abbassare gli standard della legge internazionale al suo livello, oppure possiamo escluderla e innalzarli; non esiste una terza alternativa». Tale «era l’animosità nei confronti di tutto quanto era tedesco che al presidente della Royal Astronomical Society, il quale aveva trascorsi tedeschi, venne chiesto di rassegnare le dimissioni». Incredibile.
Eddington «la pensava diversamente e si comportava di conseguenza». Come quacchero era profondamente contrario all’uso delle armi (si rifiutò anche di andare a combattere, ma il governo lo avrebbe dispensato, come vedremo, dal compiere i suoi doveri militari in quanto «persona di importanza per la nazione») ed espresse pubblicamente il proprio dissenso nei confronti dell’insofferenza dei suoi connazionali verso l’intellighenzia tedesca: «Non pensate a un tedesco simbolico», disse, «ma a uno specifico vostro ex amico, per esempio. Chiamatelo crucco, pirata, infanticida e provate a infuriarvi; il tentativo fallirà, tanto è ridicolo».
Eddington, a dispetto della guerra e delle esortazioni all’odio da parte dei suoi colleghi, si tenne in costante rapporto con Einstein. Riceveva, sia pure con «esasperante lentezza», i suoi scritti da Praga, Zurigo, Berlino, tramite un amico astronomo, Willem de Sitter, il quale glieli spediva dall’Olanda. Finché nel 1918 l’Inghilterra, sentendosi in grave pericolo, avviò una nuova ondata di coscrizioni e richiamò anche lui alle armi. Ancora una volta Eddington rifiutò di arruolarsi, adducendo il motivo che doveva prepararsi ad assistere a un’eclissi di sole, quella del 1919, proprio per verificare le teorie del «tedesco» Einstein. Ciò che gli provocò antipatie e insinuazioni da parte di molti colleghi. Uno di loro disse: «Abbiamo provato a pensare che le affermazioni false ed esagerate fatte oggi dai tedeschi fossero dovute a qualche malattia passeggera sviluppatasi di recente; ma un esempio del genere induce a chiedersi se la triste verità non vada cercata più a fondo».
Eddington, in altre parole, sarebbe stato infettato dal contagio del «male germanico». Il tribunale di Cambridge aprì contro di lui un processo, accusandolo di essersi sottratto alla leva, e i giudici lo trattarono in modo assai poco cordiale. Finché intervenne nel dibattimento il grande astronomo Frank Dyson (notissimo per aver introdotto il segnale orario di Greenwich) e spiegò alla corte che solo Eddington avrebbe potuto osservare con profitto l’eclissi del 1919, dalla quale si sarebbe saputo se Einstein aveva ragione. Se cioè Einstein aveva colto nel segno prevedendo che «la luce emessa dalle stelle lontane era destinata a incurvarsi passando in prossimità di un corpo imponente come il Sole». La corte di Cambridge fu convinta da Dyson; di conseguenza si mostrò clemente con Eddington, che così poté lavorare alla preparazione del suo esperimento. E l’osservazione dell’eclissi del 1919 diede risultati straordinari. Sarebbe dunque toccato a Eddington il compito di conferire ad Einstein il primo riconoscimento pubblico su scala mondiale. Il 6 novembre 1919 l’astronomo inglese si alzò in piedi durante una riunione della Royal Astronomical Society e, «in tono monocorde e solenne», descrisse il suo recente viaggio nella piccola isola di Principe, al largo delle coste occidentali dell’Africa. Lì con un telescopio aveva fotografato l’eclissi totale di sole. Misurando le posizioni di alcune stelle dietro il disco solare, aveva scoperto che «la teoria della gravità concepita dal santo patrono della scienza britannica, Isaac Newton, ritenuta esatta per oltre due secoli, era invece sbagliata». Al suo posto, affermò, doveva essere presa in considerazione quella nuova e corretta proposta da Einstein, conosciuta come «teoria della relatività generale». Lì per lì gli astanti non parvero rendersi conto dell’importanza dell’annuncio. Quando Eddington finì di parlare, un fisico polacco, Ludwik Silberstein, gli si avvicinò per dirgli: «Professore, lei deve essere una delle tre persone al mondo che capiscono la relatività generale». Poi, notando che il suo interlocutore indugiava, aggiunse: «Non faccia il modesto». Questi lo fissò e gli rispose: «Al contrario, sto cercando di pensare chi sia la terza».
Il presidente della Royal Society, J.J. Thomson, definì le misurazioni di Eddington «il risultato più importante ottenuto, per quanto riguarda la teoria della gravitazione, dai tempi di Newton». E aggiunse: «Se verrà confermato che il ragionamento di Einstein è giusto — ed è già sopravvissuto a due verifiche molto severe relative al perielio di Mercurio e alla presente eclissi —, allora tale risultato è una delle più alte conquiste del pensiero umano». Il giorno seguente, 7 novembre 1919, la valutazione di Thomson rimbalzò sul «Times» di Londra con un articolo intitolato: «Rivoluzione nella scienza. Una nuova teoria dell’universo. Rovesciate le idee di Newton». Trascorsero altri tre giorni e la notizia raggiunse l’America, dove il «New York Times» titolò: «Luci oblique nei cieli. Trionfa la teoria di Einstein».
Per Einstein, come dicevamo all’inizio, gli esordi erano stati tutt’altro che facili. Mise a punto la teoria della relatività tra il 1905 e il 1907, mentre lavorava come umile perito nell’ufficio brevetti di Brema. I suoi studi al Politecnico di Zurigo era stati «senza infamia e senza lode». E al momento della laurea, allorché il relatore gli impedì di lavorare su un argomento a sua scelta, consegnò una tesi «piuttosto scialba», abbassando a tal punto il suo punteggio che non riuscì a procurarsi un posto come assistente in nessuna delle università presso cui aveva fatto domanda. Dal conseguimento della laurea, nel 1900, a quando finalmente ottenne l’impiego all’ufficio brevetti, nel 1902, la sua carriera non fu che «una sequela di fallimenti». La tesi di dottorato che sottopose all’università di Zurigo gli fu addirittura respinta.
Se riuscì a restare in carreggiata, fu per merito dell’amico matematico Marcel Grossmann che, pur essendo dotato di un ingegno infinitamente minore del suo, era diventato, poco dopo la laurea, professore di geometria descrittiva. L’amico Marcel lo aveva aiutato a non perdersi d’animo. Si deve oltretutto a una raccomandazione del padre di Grossmann se Einstein ottenne il posto all’ufficio brevetti. E con esso i soldi che gli consentirono di continuare a studiare. Le previsioni del 1907 derivate dalla sua teoria generale furono fatte su quella che Ferreira definisce «una base matematica piuttosto striminzita». In effetti Einstein non aveva grande trasporto — se così si può dire — per la matematica che definiva «erudizione superflua», giungendo a sostenere che, da quando i matematici si erano «avventati sulla teoria della relatività», lui stesso non ci aveva «capito più niente». Si diceva «restio a ricorrere alla matematica astrusa che avrebbe rischiato di oscurare gli eleganti concetti fisici che stava cercando di mettere insieme». Uno dei suoi professori di Zurigo definì la presentazione di un suo lavoro «goffa sotto il profilo matematico».
Solo nel 1911 Einstein aveva cominciato a cambiare idea. E nel 1912, tornato ad insegnare a Zurigo, si recò da Grossmann, e lo implorò: «Mi devi aiutare, altrimenti impazzisco». Sarebbe stato solo l’incontro nel 1915 con un autentico genio della matematica, David Hilbert, all’Università di Gottinga, che gli avrebbe fatto cambiare definitivamente idea sulla materia. Aveva però creduto in lui, già nel 1907, il fisico Johannes Stark (che, come vedremo, ai tempi di Hitler gli sarebbe stato ostile), il quale gli aveva commissionato un articolo Sul principio di relatività e le conclusioni che ne derivano . Fu scrivendo quel saggio che Einstein, pur consacrato dalla pubblicazione, si accorse che la sua teoria era ancora imperfetta e aveva bisogno di approfondirla ulteriormente. Ma quel primo successo e l’apprezzamento di Stark fecero sì che nel 1908 ottenesse la nomina a libero docente all’Università di Berna. Come docente si fece una pessima fama: voleva seguire solo le sue ricerche, gli studenti non gli interessavano. Passò poi all’Università di Zurigo e fu lo stesso. Finché nel 1911 riuscì a ottenere una cattedra «senza obblighi di insegnamento» all’università tedesca di Praga. Proprio quello che cercava per potersi rimettere a studiare. Poi fu la Grande Guerra e — fortunatamente per la scienza — il suo nome e le sue idee erano abbastanza note, sia pure in un ambito ristretto, sicché poté entrare in rapporto con persone che, a dispetto delle divisioni provocate dal conflitto, restarono in proficuo contatto tra loro.
La guerra, come si sa, non finì in tutto e per tutto nel 1918, anzi si protrasse, sia pure in altre forme, per una lunga parte del Novecento. Ma i «partigiani della relatività» rimasero uniti. In particolare un eclettico matematico e meteorologo sovietico, Aleksandr Fridman (che, a differenza di Einstein, era stato volontario nella Prima guerra mondiale), e un sacerdote cattolico belga, Georges Lemaitre (anche lui ex combattente), i quali ebbero intuizioni in un certo senso superiori a quelle del maestro. Einstein e Lemaitre si trovarono nell’inverno del 1933 a trascorrere qualche tempo assieme a Pasadena presso il campus del California Institute of Technology, dove il sacerdote era stato invitato a tenere delle conferenze. I due passeggiavano per ore e ore, chiacchierando animatamente sotto gli sguardi curiosi di professori e studenti; il «Los Angeles Times» li descrisse con «espressioni serie sui volti, a suggerire che stessero discutendo dello stato attuale delle faccende cosmiche». In realtà parlavano anche di altre cose che stavano accadendo in quei primi mesi del 1933, a cominciare dall’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler. Il secolo produceva di continuo ideologie destinate ad entrare in conflitto con questa leva di geniali scienziati. I rapporti di Einstein con il nazismo furono pessimi fin dall’inizio. Le sue teorie furono fin dal 1933 bersaglio della Deutsche Physik, rappresentata da Philipp Lenard e dal primo «scopritore» di Einstein, il Nobel Johannes Stark, che parlavano della «fisica ebraica» come di qualcosa che stava «avvelenando la Germania» e andava immediatamente «sradicata dal sistema». Così Einstein e, dopo di lui, Erwin Schroedinger e Max Born, assieme a molti altri, lasciarono la terra tedesca e gran parte di loro si trasferì negli Stati Uniti, dove alcuni avrebbero dato un apporto fondamentale alla costruzione della bomba atomica.
Da quel momento Einstein divenne un signor nessuno per la cultura tedesca: il principale manuale di fisica, Lehrbuch der Physik, addirittura non menzionava neppure il suo nome. Ma, nonostante questa incredibile campagna di disconoscimento, Stark non riuscì a divenire il fisico di riferimento della Germania hitleriana. Ad insidiarlo per quel ruolo emerse Werner Heisenberg, uno dei padri della moderna teoria dei quanti. Heisenberg non era ebreo, ma questo non fermò Stark, che scatenò anche contro di lui la macchina della denigrazione già sperimentata con Einstein: in un articolo per l’organo ufficiale delle SS lo definì «ebreo bianco» e lo accusò di essersi reso «responsabile del declino della scienza teutonica al pari di tutti gli altri che erano stati cacciati». Ma Heisenberg godeva della protezione di Heinrich Himmler (del quale era stato compagno di scuola): il gerarca nazista riuscì a far interrompere la campagna di Stark e a mettere Heisenberg a capo del programma nucleare tedesco. Con grande sgomento dei fisici scappati dalla Germania, i quali ben conoscevano le sue qualità assai superiori a quelle di Stark. Ciò che spinse gli Stati Uniti ad accelerare i piani per la costruzione dell’atomica.
La cosa più incredibile è che le teorie di Einstein furono avversate anche, sul versante opposto, in Unione Sovietica, dove Stalin aveva fissato nel 1938, con lo scritto Il materialismo dialettico e il materialismo storico , le linee guida per la ricerca scientifica nel suo Paese. Ad Einstein in Urss veniva rimproverato il fatto che la sua teoria «generava un universo assurdo con un’origine ben definita, troppo simile al punto di vista religioso» che il pensiero sovietico era tanto smanioso di «estirpare dalla società». Non aiutava certo il fatto che uno dei principali diffusori delle teorie di Einstein fosse un sacerdote, il già menzionato Georges Lemaitre, uno «straniero corrotto appartenente a una società borghese decadente e agonizzante». A dire il vero, osserva Ferreira, «in questo feroce rifiuto del pensiero non sovietico, si dimenticava che l’ipotesi dell’universo in espansione in realtà era stata avanzata per la prima volta da un brillante fisico russo e sovietico, Aleksandr Fridman».
Nel 1952, Aleksandr Maximov, un influente storico della scienza sovietico, pubblicò un articolo dal titolo Contro l’einsteinismo reazionario nella fisica che, pur essendo apparso su uno sconosciuto giornale della Marina dell’Urss di stanza nell’Artico, «Flotta rossa», ebbe una grande eco. Ma provocò reazioni impreviste e fino a quel momento inimmaginabili. Vladimir Fok, discepolo di quel Fridman che era stato sodale di Einstein, replicò con un testo dal titolo Contro la critica ignorante delle moderne teorie della fisica. Prima che fosse dato alle stampe, Fok, Lev Davidovic Landau (il padre dell’atomica russa) e altri fisici russi fecero appello alla leadership sovietica perché rivedesse il giudizio su Einstein e in una lettera privata indirizzata a Lavrentij Berija, braccio destro di Stalin nonché capo del programma nucleare e termonucleare in Urss, lamentarono la «situazione anomala della fisica sovietica», citando l’articolo di Maximov come esempio dell’aggressiva ignoranza che ostacolava il progresso della scienza sovietica. Fok rivelò poi di aver ottenuto l’appoggio di Berija per questo articolo contro Maximov (e probabilmente era vero), ma quest’ultimo riuscì a ottenere che Fok e Landau rimanessero isolati almeno fino al 1954 quando, dopo la morte di Stalin e la fucilazione di Berija, ottennero la riabilitazione (a distanza) di Einstein.
Nel frattempo Einstein, già dalla fine degli anni Trenta, era diventato buon amico di un genio della matematica Kurt Gödel, che si era allontanato da Vienna riparando a Princeton dopo che i nazisti lo avevano malmenato per il suo «aspetto da ebreo». Lo aiutò a diventare cittadino americano, anche se la cerimonia rischiò di andare a monte allorché Gödel scoprì tra le pagine della Costituzione statunitense quella che gli appariva come un’incongruenza logica «che avrebbe potuto consentire al governo del Paese di degenerare in tirannia». E rifiutò di giurare su quel testo. Sono gli anni in cui spunta l’astro di Robert Oppenheimer (il padre dell’atomica statunitense), che non ha grande considerazione del clima di quel campus: «Princeton è una casa di pazzi», scrive al fratello, «i suoi luminari solipsisti risplendono in una desolazione solitaria e senza speranza; Einstein è completamente rimbambito». Forse anche per questo Einstein si opporrà nel 1947 alla sua nomina a direttore dell’Institute for Advanced Study, cercando di favorire il fisico austriaco Wolfgang Pauli. Dopodiché i due strinsero quello che l’autore definisce «un tenue legame di amicizia, cordiale ma non intima».
Negli anni successivi Einstein e Oppenheimer saranno comunque accomunati dall’ostilità ai programmi nucleari americani del secondo dopoguerra per la costruzione della bomba H. Ostilità che costerà il posto a Oppenheimer, accusato di «grave indifferenza per le esigenze di sicurezza del sistema». Ed è questo loro atteggiamento che probabilmente è all’origine della tardiva riabilitazione sovietica di cui si è detto. Einstein, al quale nel 1948 è stato diagnosticato un aneurisma all’aorta (morirà nel 1955), da quel momento viaggia di meno. In compenso scrive lettere. In una, al «New York Times», sostiene di riuscire a vedere nel contesto dell’epoca «solo la via rivoluzionaria della non collaborazione, nel senso di Gandhi». Interessante approdo di un singolare itinerario politico culturale.

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