domenica 22 giugno 2014

L'urna della dea bendata


Dalle belle pagine di Giordano Bruno dedicate alla Fortuna 
si possono trarre riflessioni critiche sul mondo attuale

Nuccio Ordine


"Domenica - Il Sole 24 ore", 22 giugno 2014 

«Ecco l'eccellente stupidità del mondo. Quando siamo vittime della fortuna, incolpiamo delle nostre sciagure il sole, la luna, le stelle, come se fossimo canaglie per necessità, furfanti, ladri e traditori per il dominio di quelle sfere»: nel Re Lear, Edmund distingue in maniera chiara le responsabilità degli uomini da quelle della Fortuna. Non serve a nulla dare la colpa alla dea bendata, al fato, alla malasorte se noi siamo dei «malfattori, dei ladri, delle canaglie». 
Sarebbe impossibile voler ripercorrere in un breve intervento ciò che gli esseri umani – nella letteratura e nell'arte, nel mito e nella filosofia – hanno voluto rappresentare sotto le spoglie della dea Fortuna. Dispensatrice della cattiva o della buona sorte, antagonista per eccellenza della virtù, ministra della provvidenza divina, espressione della casualità, messaggera delle disposizioni dei pianeti e delle stelle, occasione (kairòs) per mettere alla prova la virtù, impietosa dominatrice della ruota delle vicissitudini, alla dea bendata sono stati attribuiti, nel corso dei secoli, ruoli opposti e contraddittori. 
E per evitare di scivolare nelle sabbie mobili delle infinite occorrenze, ho voluto limitare il mio intervento alle bellissime pagine che Giordano Bruno dedica al tema della Fortuna nel suo dialogo Lo spaccio de la bestia trionfante, pubblicato a Londra nel 1584. Qui la dea bendata smonta con molta finezza tutte le accuse. E spiega che il suo ruolo incarna una necessità: nessun essere umano può scampare, infatti, all'urna della mutazione. Ma solo pochi, purtroppo, saranno favoriti da una mano che non può commettere ingiustizie, perché proprio la cecità garantisce la totale uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla sorte («Non veggio mitre, toghe, corone, arti, ingegni ...; e però quando dono, non vedo a chi dono»).
All'interno di questo meccanismo naturale non c'è possibilità di infliggere torti. La comune radice degli esseri umani viene rispettata. Nell'urna ogni «schedula è uguale a quella di tutti gli altri». Ma se la Fortuna estrae una moltitudine di ladri e di inetti la colpa non è sua. Non può esserle attribuita una responsabilità che riguarda la Virtù o la Verità. Come sarà possibile estrarre uomini virtuosi e onesti se nell'urna vengono depositati, assieme a «otto o nove» individui di valore, «otto o novecentomila» esseri bestiali e imbroglioni?
La dea bendata riconosce all'uomo la possibilità di poter condizionare gli eventi. Alla necessità che siano pochi a governare («Non è errore che sia fatto un prencipe: ma che sia fatto prencipe un forfante»), segue la possibilità che sia l'umanità stessa a determinare in maniera positiva questa scelta: «Or non è possibile che un principato sia donato a tutti; ma l'errore consiste che quel l'uno è vile, che quell'uno è forfante». Bruno aveva pensato già due anni prima, nel Candelaio, a teatralizzare la sua visione tutta umana della Fortuna. Gioan Bernardo – che con la sua astuzia conquista la bella Carubina – si vanta di esser riuscito a «apprendere pe' capelli l'occasione»: un'espressione che allude all'atteggiamento «impetuoso» di un famoso passaggio del capitolo XXV del Principe, in cui Machiavelli invita a non essere «respettivo» (cioè a non procedere con cautela) perché «la Fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». 
Sempre nel Candelaio, il tema della Fortuna come occasione, come irripetibile opportunità che bisogna afferrare al volo, si manifesta anche nella favola dell'asino e del leone. I due animali, infatti, decidono di andare a Roma e di passare un fiume montando, a turno, l'uno sull'altro. All'andata spetta all'asino. E il felino, temendo di cadere in acqua, «sempre più e più gli piantava l'unghie ne la pelle di sorte che gli penetrorno in sin all'ossa». 
Otto giorni dopo, il leone prende su di sé l'asino: «Il quale essendogli sopra, per non cascar ne l'acqua, co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento (o come vogliam dire, il tu-m'intendi), per parlar onestamente, al vacuo sotto la coda, dove manca la pelle». Alle vibrate proteste del felino, l'asino risponde: «vedi ch'io non ho altr'unghia che questa d'attaccarmi». La favola, insomma, insegna che «nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta non si serva de l'occasione».
Le pagine eloquenti dello Spaccio e del Candelaio dedicate alla Fortuna, mi sembra inutile dirlo, non hanno niente a che fare con il nostro presente. Eppure, a rileggerle bene, finiscono per stimolare – come ogni buon classico dovrebbe fare – una riflessione critica sul mondo che ci circonda. Non possiamo considerare ingiusto che ci sia un principe, ma è profondamente ingiusto che quel principe sia un furfante. 
I recenti eventi di cronaca legati all'Expo 2015 o al Mose, al Monte dei Paschi di Siena o alla Carige, alle mutande di un ex governatore o ai gratta e vinci di anonimi consiglieri regionali non fanno certo pensare al cattivo influsso della Fortuna.
L'orazione della dea bendata non ammette eccezioni: se dall'urna vengono estratti furfanti è solo perché la Virtù, la Sapienza o la Giustizia sono state bandite dalla nostra società fondata sulla folle avidità del guadagno. Solo a noi spetta, insomma, riabilitare quei valori positivi in grado di disinfestare l'urna da ladri e da furfanti e di consentire alla Fortuna di estrarre un principe virtuoso.
Per cui, se non saremo capaci di promuovere quella radicale rivoluzione morale suggerita dalla dea bendata nello Spaccio di Giordano Bruno, sarà perfettamente inutile, come ci ricorda pure Shakespeare, continuare a lamentarci e a imprecare contro l'ingiusto Fato o contro il terribile Destino. Quel Fato e quel Destino contribuiamo a costruirlo noi stessi, stando insieme, giorno per giorno, anche con i nostri gesti e con le nostre azioni più umili. 

Machiavelli e il Nobel North
Gli argini alla sfortuna 

Paolo Legrenzi


Cinquecento anni fa, nel capitolo XXV de Il Principe, Niccolò Machiavelli cerca di rispondere alla domanda: «Quanto conta la fortuna nelle umane vicende e in che modo ci si può opporre ad essa». Per Machiavelli la fortuna è quella che oggi chiameremmo sfortuna. Lo chiarisce bene paragonandola «a uno di quei fiumi Rovinosi che, quando si adirano, allagano le pianure, travolgono gli alberi e gli edifici... tutti fuggono davanti a loro, ognuno cede al loro dominio senza potervisi opporre in nessun modo». Bisogna costruire argini e prevenire il debordare dei fiumi: «la fortuna dimostra la sua potenza dove non è stata predisposta virtù che le resista». Armando Massarenti spiega nell'elegante riedizione de Il Principe curata dal Sole 24 Ore, che le virtù di Machiavelli sono le virtù epistemiche, quelle che «hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini, come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti».
Settanta anni fa, Douglass North non si unì ai suoi compagni che venivano a liberare l'Europa. Scelse invece di fare l'obiettore di coscienza. S'imbarcò su un cargo portando con sé molti libri e sessanta anni dopo, diventato premio Nobel dell'economia, scrisse Capire il processo del cambiamento economico. North interpretò gli ultimi cinquecento anni come una progressiva limitazione del domino della fortuna sul nostro destino. Machiavelli pensava che la fortuna fosse «arbitra della metà delle nostre azioni», e che ne lasciasse «governare l'altra metà, o quasi, a noi». Noi siamo riusciti ad aumentare molto questa seconda metà. Parte dell'incertezza l'abbiamo domata inventando le assicurazioni, cioè il calcolo dei pericoli: «Ad esempio – dice North – nel XV secolo lo sviluppo dell'assicurazione marittima, che comportava la raccolta e il confronto d'informazioni, circa le navi, i carichi, le destinazioni, i tempi di viaggio, i naufragi e i relativi risarcimenti, ha trasformato l'incertezza in rischio». Un'altra buona parte è stata eliminata grazie ai progressi delle scienze naturali e umane, e delle tecnologie. Tutto a posto, allora? Non proprio. Oggi non abbiamo di fronte un principe da convincere, bensì dei decisori pubblici. Spesso, pur di suscitare facili consensi, trascurano la necessità di dialogare con gli esperti. Oggi sapremmo come evitare che i fiumi debordino, ma talvolta sembra che non si voglia farlo.

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