domenica 15 giugno 2014

Inferno


I corrotti e gli sfruttatori “non saranno felici dall’altra parte” e “dovranno rendere conto a Dio”. Così le parole del Papa riaprono la questione teologica e morale del giudizio

Perché l’uomo ha bisogno che il male venga punito

Vito Mancuso

"La Repubblica", 13 giugno 2014

Esiste l’Inferno? E se esiste, quali sono i criteri per esserne rinchiusi o scamparne? Sono queste le due grandi questioni sollevate dal potente discorso di papa Francesco due giorni fa, quando ha levato alta la voce contro chi «vive nel male, bestemmia Dio, sfrutta gli altri, li tiranneggia, vive soltanto per i soldi, la vanità, il potere»; quando ha messo in guardia dal «riporre la speranza nei soldi, nell’orgoglio, nel potere, nella vanità»; quando ha detto che i corrotti non saranno felici «dall’altra parte» e per loro «sarà difficile andare dal Signore»; quando ha tuonato contro quelli che «fabbricano armi per fomentare le guerre» dicendo che «sono mercanti di morte e fanno mercanzia di morte». Contro questi operatori di iniquità il Papa ha proclamato «che un giorno tutto finisce e dovranno rendere conto a Dio».
Parole che mi hanno ricordato la mano alzata di fra Cristoforo a casa di don Rodrigo e il suo celebre «verrà un giorno» del capitolo sesto dei Promessi sposi. Ma verrà davvero quel giorno? Esiste il giudizio e l’Inferno che ne può derivare? Esiste cioè una logica del mondo cui la libertà deve rendere conto? Oppure quel giorno non verrà e non ci sarà giudizio, perché non esiste logica più grande dell’uomo e il mondo è solo dei potenti e dei furbi? Ben lungi dal rimandare a lugubri e grotteschi scenari con diavoli e arroventati tridenti, l’esistenza dell’Inferno rimanda al senso complessivo del mondo: se esso sia ultimamente governato da una logica di bene e di giustizia cui la libertà deve rispondere (divenendo responsabile), oppure no, perché c’è solo l’arbitrio e la volontà di potenza dei singoli in competizione tra loro.
Già Platone nutriva la convinzione che l’aldilà riservi «qualcosa di molto migliore per i buoni che non per i cattivi» (Fedone, 63 C) e Kant a sua volta ha affermato: «Non troviamo nulla che già sin d’ora ci possa fornire ragguagli sul nostro destino in un mondo futuro se non il giudizio della nostra coscienza, quello che il nostro stato morale presente ci permette di giudicare in maniera razionale» ( La fine di tutte le cose ).
Tutte le grandi religioni insegnano che l’anima sarà giudicata: gli egizi mediante l’immagine della psicostasia o pesatura dell’anima (ripresa anche nel medioevo cristiano), lo Zoroastrismo e l’Islam mediante il simbolo del ponte escatologico sottile come un capello su cui le anime appesantite dal peccato precipiteranno senza scampo, l’Induismo e il Buddismo mediante il concetto di karma che determina le successive reincarnazioni. Lo scenario è comunque lo stesso: 1) c’è una logica che struttura il farsi del mondo; 2) la libertà umana è chiamata a rispondervi; 3) la qualità della risposta determinerà il giudizio che l’attende, quando la libertà verrà meno di fronte alla logica cosmica; 4) il giudizio può avere esito negativo. Ciò che il cristianesimo chiama Inferno, laicamente è il fallimento, nel senso che la libertà può fallire e un’intera esistenza rivelarsi sprecata.
Richiamando corrotti, trafficanti di uomini, mercanti di morte e in genere tutti coloro la cui interiorità è abitata dall’avidità e dalla brama, papa Francesco non ha fatto altro che ribadire la sovranità del bene e della giustizia (che un cristiano chiama Dio) su questo mondo, e la conseguente responsabilità che ne scaturisce, quella di impostare la vita all’altezza di questo nobile ordinamento. Naturalmente da ciò non consegue per nulla la sicurezza sull’esistenza dell’Inferno- Paradiso e di Dio, tutto ciò rimarrà sempre e solo oggetto di fede. Da ciò consegue piuttosto una domanda per ogni persona responsabile: l’amore per il bene e per la giustizia che talora si accende in noi è solo un personalissimo anelito oppure è la manifestazione di una logica più grande a cui originariamente apparteniamo?
Vengo alla seconda questione sollevata dal profetico discorso del Papa, quella dei criteri che nel giudizio finale determinano la perdizione o la salvezza. La tradizione cristiana afferma da un lato che ci si salva grazie alla fede, dall’altro grazie al bene compiuto. A cosa però spetta il primato: alla fede professata o al bene praticato? E chi andrà all’Inferno: i non credenti o gli iniqui? Ancora oggi alcuni cristiani sostengono il primo polo dell’alternativa sottolineando l’irrilevanza della dimensione etica per il destino finale, giocato interamente sull’adesione allo “scandalo” della fede di cui parlava san Paolo esemplificata dal noto detto di Lutero che invitava pure a peccare ma a credere ancora di più ( pecca fortiter sed fortius crede ). Il Papa l’altro giorno ha detto esattamente il contrario: all’Inferno ci andranno gli iniqui, i corrotti, chi vive solo per il denaro e fa male al prossimo. È il pensiero di Gesù quale appare dal Vangelo con i criteri del giudizio finale basati non sull’adesione dottrinale ma sulla pratica del bene: «Avevo fame e mi avete saziato, avevo sete e mi avete dato da bere…» (Mt 25, 35 e 42).
Anche questa è una convinzione universale. Per limitarmi alla religione dell’antico Egitto, nella pesatura dell’anima del defunto il contrappeso era la piuma della dea Maat, personificazione della Giustizia. Ma ancora più notevole è la somiglianza tra il brano evangelico citato e un passo del Libro dei Morti: «Ho soddisfatto Dio con ciò che ama. Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva». Queste parole risalgono a 1500 anni prima di Cristo. Da testi come questo emerge la verità del cristianesimo, verità come universalità a cui tutte le religioni attingono e che mai è mancata agli uomini. Ed è parlando questo linguaggio che papa Francesco raggiunge tutti coloro che amano la giustizia, a qualunque fede o popolo appartengano.


Inferno

John Milton

ED IN un punto, quanto lungi il guardo 
D’un Angelo si stende, ei l’occhio manda 
Su quell’atroce, aspro, diserto sito; 
Carcere orrendo, simile a fiammante 
Fornace immensa; ma non già da quelle 
Tetre fiamme esce luce; un torbo e nero 
Baglior tramandan solo, onde si scorge 
La tenebrosa avviluppata massa 
E feri aspetti e luride ombre e campi 
D’ambascia e duol, dove non pace mai, 
Non mai posa si trova, e la speranza 
Che per tutto penétra, unqua non scende. 
Quivi è tormento senza fin, che ognora 
Incalza più, quivi si spande eterno 
Un diluvio di foco, ognor nudrito 
Da sempre acceso e inconsumabil solfo.



Il nemico della società, identikit del diavolo secondo Francesco
“Il demonio c’è anche nel secolo XXI”
Il pontefice riafferma la tradizione dei suoi predecessori

Agostino Paravicini Bagliani


QUALCHE giorno fa, il primo giugno, nel suo discorso allo Stadio Olimpico, a Roma, papa Francesco ha detto che il diavolo «non vuole la famiglia, ecco perché cerca di distruggerla». Qualche mese prima (primo aprile), durante l’omelia mattutina a Santa Marta, il papa si era riferito al diavolo per riaffermarne l’esistenza: «Il diavolo c’è. Il diavolo c’è. Anche nel secolo XXI». Già nella sua prima omelia nella Cappella Sistina, all’indomani della sua elezione (13 marzo 2013), davanti ai cardinali che lo avevano eletto, Francesco, parlando a braccio, ricordò il demonio, affermando che «quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del demonio».
Questo frequentissimo riferirsi al demonio potrebbe a prima vista sorprendere, se non fosse che tutti i papi di questi ultimi decenni hanno parlato del demonio. Paolo VI scelse persino il 29 giugno 1972, festa di san Pietro, per sostenere con gravità che «da qualche fessura sembra essere entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». Giovanni Paolo II avrebbe persino celebrato due volte il rito di esorcismo nella sua cappella privata. Anche per papa Woytila, l’esistenza del demonio era reale. Lo disse il 24 maggio 1987 a Monte Sant’Angelo, nel luogo in cui nacque il culto dell’Arcangelo Michele: «Il demonio è tuttora vivo e operante nel mondo». Il male non è soltanto la conseguenza del peccato originale, ma «l’effetto dell’azione infestatrice e oscura di Satana ». Benedetto XVI avvertì un giorno (26 agosto 2012) i fedeli accorsi a Castel Gandolfo per l’Angelus che la «colpa più grave di Giuda fu la falsità, che è il marchio del diavolo ». Leone XIII (1878-1903) formulò persino una preghiera a San Michele Arcangelo affinché proteggesse i cristiani «in questa ardente battaglia contro tutte le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia».
Rispetto ai suoi predecessori, Papa Francesco usa però uno stile diverso per parlare del demonio, più moderno, meno retorico, diretto e semplice. Poche parole bastano. «Il diavolo c’è. Il diavolo c’è. Anche nel secolo XXI». Se il linguaggio di papa Francesco è così semplice, la sostanza è in perfetta sintonia con la tradizione. Anche per Francesco, il demonio è una realtà, quella «realtà terribile, misteriosa e paurosa» di cui aveva parlato Paolo VI. Anche per Francesco, il demonio è il nemico principale della società, a tal punto che potrebbe anche distruggerne le fondamenta, come ad esempio la famiglia. In questo senso la continuità attraversa i secoli. Già per i primi scrittori cristiani, il demonio è, ad esempio, l’istigatore dei sensi, a tal punto che si riteneva che il demonio facesse perdere il controllo della ragione attraverso il riso.
Per descrivere i primi casi di eresie medievali, il monaco Rodolfo il Glabro, “lo storico dell’anno Mille”, attribuisce al demonio un ruolo di protagonista grazie anche al suo potere di trasformarsi. La “follia” del contadino Leutardo di Vertus, che «si liberò dalla moglie» e volle giustificare il divorzio «adducendo le prescrizioni del Vangelo » incominciò quando «un enorme sciame d’api» - metafora del demonio - entrò nel suo corpo. Il colto Vilgardo di Ravenna, che aveva letto con passione gli autori classici, divenne «sempre più insensato» per causa di «certi diavoli che presero l’aspetto dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale». Nei grandi momenti di trasformazione della società medievale, il demonio appare sempre come il principale nemico della società. Quando intorno al 1430, in Italia (Roma, Todi) e al nord delle Alpi appaiono le prime cacce alle streghe, a capo della presunta setta del “sabba” viene posto il demonio, cui streghe e stregoni rendono omaggio compiendo orge e quant’altro. Il tragico fantasma del sabba delle streghe ha avuto bisogno del demonio per esistere, e così funzionò per più di tre secoli nell’Europa cristiana, cattolica e protestante.
Se la tradizione cristiana che attribuisce al demonio un ruolo di assoluto pericolo per la società è antichissima, il modo con cui papa Francesco parla del demonio è moderno. Il demonio non è più un nemico generico della società. I temi sono quelli che parlano alla gente, la famiglia, il denaro. Per di più il papa lo fa usando parole semplici, chiare, dirette. Con maggiore efficacia dei suoi predecessori, ma non discostandosene nella sostanza.

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