mercoledì 11 giugno 2014

Canali, una vita in latino


Luca Canali il baro amante del latino

Lo scrittore è morto ieri a Roma a 89 anni. 
Studioso dell’antichità, fu nel Pci e raccontò la Resistenza

Paolo Mauri

“La Repubblica”, 9 giugno 2014

Ettore Paratore faceva lezione, alla Facoltà di Lettere di Roma, nell’aula prima, affollatissima, anche perché la frequenza era in quegli anni obbligatoria. Montava materialmente in cattedra, una cattedra molto alta, non prima d’aver controllato che attorno al tavolo che stava proprio sotto la cattedra sedessero i suoi assistenti, di cui era maestro e anche un po’ tiranno. Luca Canali, scomparso ieri a Roma quasi novantenne, era tra loro, latinista, ma non solo. All’epoca trovavo bellissimo il suo ritratto di Cesare, che non ho più riletto e bellissime erano anche le sue traduzioni.
Intanto, nel ‘65 era uscito un suo libro di riflessioni più o meno storico- filosofiche, con una lettera di Montale che il Corriere della sera aveva pubblicato come elzeviro: “La Resistenza impura”. Canali, allora quarantenne, era un uomo molto bello (le ragazze di Lettere non avevano dubbi) e in più era comunista. Un comunista alla corte del rigido conservatore Paratore che avrebbe presto proposto ai suoi studenti “rivoluzionari” per la traduzione in latino un brano di Mao, suggerendo di volgere «comunisti » con «omnia qui communia censent». Canali ne avrebbe comunque conservato un buon ricordo: il suo mestiere lo sapeva ed era coltissimo, aveva solo il torto di scrivere terribili romanzi, come raccontò nella recente e lucidissima intervista a tutto campo di Antonio Gnoli ("Repubblica", 29 settembre 2013), dove rivelava di avere una figlia segreta e concludeva un ragionamento durato, credo, una vita intera: «La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio». “La Resistenza impura” insinuava molti dubbi sui risultati raggiunti da una generazione che aveva conosciuto l’azione diretta contro i nazifascisti (Canali era entrato nelle formazioni di Giustizia e Libertà e solo in seguito aveva aderito al Pci) ed ora assisteva alla caduta di tanti ideali. Nel ‘58, dopo i fatti d’Ungheria, il compagno Canali che aveva diretto diverse sezioni del Pci, ma aveva manifestato dei dubbi su quanto andava accadendo era stato buttato fuori dal Partito con diversi altri e vi sarebbe rientrato solo molto più tardi. La sua storia si incamminava ad essere quella di uno studioso di letteratura latina che presto avrebbe avuto i suoi successi lavorando su Lucrezio, Virgilio, Giovenale (divenne anche consulente per il Satyricon di Federico Fellini) e che avrebbe continuato a suo modo nella militanza politica. Nel ‘77 pubblicò Quel punto di luce (Vangelista editore), un libro sulla Resistenza a Roma, con i ritratti di alcuni partigiani torturati e uccisi dove ribatteva ad una affermazione di De Felice che dichiarava di non credere alle rivoluzioni tradite, alle resistenze tradite. «Io invece ci credo», scriveva Canali, «per dirla con la stessa rozzezza, e penso anzi sia una legge storica che tutte le rivoluzioni siano tradite». In qualche modo il tradimento diventa più propriamente un assestamento e poco oltre Canali ritorna sul concetto di Resistenza impura: «tutte le rivoluzioni coinvolgono in sé l’“impuro”, il reale imperfetto, il tornaconto personale, il casuale, e perfino la viltà e la delazione ».
In realtà Canali pensava molto anche a se stesso, alla sua storia personale, alla famiglia da cui proveniva, al suo modo di stare al mondo. Il padre faceva il carbonaio e con lui non c’era stata praticamente mai una vera confidenza. Da un certo punto in poi Canali diventa dunque un acuto narratore di se stesso e delle vicende che lo riguardano sul piano personale e persino su quello sessuale che dopo l’apprendistato nelle case chiuse si rivela problematico o semplicemente predatorio (molto poco invece racconta sul piano professionale che sembra appartenere ad un’altra persona). Nel 1980 esce Il sorriso di Giulia, (Editori Riuniti). Giulia è la figlia di Luca. Alla fine del romanzo c’è un capitolo intitolato «Come vorrei essere ricordato». Parla di una fotografia scattata nel ‘73: «È forse l’unica foto della mia vita in cui sembro soddisfatto di me, padre correttamente seduto sul divano con la figlia treenne». La normalità era già un rimpianto. Nel frattempo Canali aveva vinto una cattedra a Pisa e faceva su e giù da Roma con la sua velocissima Porsche. È più o meno in questo periodo che matura ed esplode una fortissima depressione accompagnata da una psiconevrosi piuttosto grave. Canali si guarda ora soffrire, ancora una volta con spietata acutezza e scrive l’Autobiografia di un baro (Bompiani, 1983). Mi capitò di leggerla proprio su un treno che mi portava a Pisa. Mi turbò. Non ne volevo scrivere. Poi invece pensai che scriverne era doveroso e dichiarai subito che la mia non era una recensione nel senso classico del termine. Si può recensire la sconfitta, la sofferenza? Canali, che resta comunque un eccellente scrittore, comunica al lettore il dolore per una vita distrutta, nella quale (a torto) pensa di avere avuto la parte di un baro. Ma un baro, obiettavo, può perdere sempre? Non sono l’unico a pensare che questo suo libro, ristampato anche in anni recenti (negli Oscar Mondadori), sia quello che meglio lo rappresenta, anche se su se stesso sarebbe tornato molte volte e citiamo almeno Spezzare l’assedio (Bompiani, 1984) dove però i fatti sono in qualche modo romanzati.
Autobiografia di un baro si chiude con un capitolo scritto da Maria, la ragazza spagnola che era venuta in Italia e che sarebbe diventata sua moglie. È un’altra pagina di delusione e di dolore dove si vede Luca indifferente conquistatore, poco incline al sentimento. «Ho conosciuto un giovane uomo pieno di dubbi e di ragioni, bello come una statua greca…». Così comincia il capitolo firmato da Maria ora da tempo scomparsa. Invecchiando in solitudine Canali era diventato l’ombra di se stesso. La sua bibliografia, tra saggi, traduzioni, narrativa e poesia, è infinita (Giunti ha pubblicato proprio in questi giorni Pax alla romana. Gli eterni vizi del potere, scritto a quattro mani con Lorenzo Perilli), ma lui stesso ammise che spesso scriveva per terapia. Se nella scrittura e nella letteratura cerchiamo qualcosa che ci faccia conoscere meglio gli uomini e la loro sorte, Canali resta un autore di singolare e (posso dirlo?) perverso fascino. Suo malgrado, un testimone protagonista del nostro recente passato.

Luca Canali ha spezzato l’assedio
L’esistenza in ostaggio del male di vivere: scrivere non lo consolò

Alessandro Piperno

"Corriere della Sera", 9 giugno 2014

Anni fa, imbattendomi in Qualcosa è cambiato — uno spassoso film in cui Jack Nicholson veste i panni di uno scrittore recluso che cerca di esorcizzare coazioni nevrotiche di ogni sorta attraverso la pratica non meno compulsiva della scrittura — pensai a Luca Canali. Per me un caro amico, appena scomparso, una specie di mentore, a suo modo un impareggiabile maestro di stile. Ricordo che gliene parlai, e gli dissi anche che il vecchio Jack alla fine del film se la cavava piuttosto bene: Hollywood sa come chiudere in bellezza le sue fiabe e ricompensare i suoi eroi. «Qualcosa è cambiato? — disse lui contrariato — beh, mi sa che per me non cambierà un bel niente». Era piuttosto irritato che paragonassi una commedia sentimentale alla sua vita. 
Non ne parlerei in modo così impudico — del disagio psichico, intendo — se esso non fosse il tema dominante di tutta la narrativa e dell’intera esistenza di Luca Canali. Una volta mi disse che, a dispetto di quello che pensano certi romantici ciarlatani, nulla è meno creativo del disagio psichico. E parlava (come al solito) con cognizione di causa. A quarant’anni Luca Canali era un uomo bellissimo, un disincantato libertino, alle spalle la Resistenza e una militanza tosta nel Pci (quando essere comunisti era roba seria) finita con un’abiura dopo i fatti di Ungheria. Allievo riottoso e dissidente di Paratore, era da poco diventato ordinario di Letteratura latina. Frattanto aveva già iniziato la sua formidabile carriera di traduttore (Cesare, Catullo, Lucrezio...). Un suo libro bizzarro, La resistenza impura, era stato pubblicamente elogiato da Montale. Inoltre, Canali aveva prestato la sua consulenza a Fellini che stava girando il Satyricon
Poi il crollo, i ricoveri, la lunga clausura nelle tenebre dello spirito. 
Quando lo conobbi questa era già storia. Alla quale aveva dedicato tre libri spudorati: Autobiografia di un baro , Amate ombre e Spezzare l’assedio. Tre titoli, converrete con me, bellissimi. Che dicono tutto di Canali. Il suo desiderio di auto-calunniarsi, la sua nostalgia straziante per chi non c’è più e la lotta per liberarsi dall’assedio della malattia. Il modo attraverso il quale Canali teneva a bada tutto questo caos era la sintassi. Deliberatamente ispirata a quella latina, la sintassi di Canali conferiva alla prosa una specie di solennità baudelairiana. Un assaggio? All’inizio di un racconto si sta rivolgendo direttamente a un amico morto, di nome Pietro: «Pietro, tu eri Pietro, ma sulla tua pietra nessuno edificherà la sua chiesa. All’amico venuto in città dal suo regno di provincia per indiscutibili impegni familiari e industriali, oltre che come sempre ognuno per chi sa quale oscuro eterodosso miraggio, e certo per rintracciare passi e amici perduti, mi sono dimenticato di dire di te, che non eri più sulla terra, ma sotto, parallelo a tanti altri, orizzontale, a decomporti con il lombrico, la buccia di patata, il seme d’orzo, l’orina del randagio». 
Eccolo qui, Canali allo stato puro. C’è tutto il suo materialismo, c’è l’orrore per la decomposizione. C’è l’involuzione sintattica al servizio di un pensiero disperato. Il lessico preciso e brutale. C’è l’immaginazione macabra smussata dalla pietà e dalla tenerezza. C’è, anche se dietro le quinte, la sua Roma. Una specie di sintesi tra la Roma di Augusto e quella degli artisti di via Margutta. Il cinismo, la violenza, il sesso. Tutto mescolato. 
Nella mia vita non ho mai incontrato un uomo più consapevolmente (vorrei dire virilmente, se non suonasse sessista) disperato di Luca Canali. La vita non ha senso. E neppure la morte ce l’ha. Dio non esiste. Il Diavolo fa ridere i polli. La sola verità è il corpo e la materia. È tutto lì. Non c’è altro. Non a caso Canali venerava Lucrezio, Leopardi e Joyce. Non che avessero qualcosa in comune (o forse sì), ma certo tutti e tre, e ciascuno in modo diverso, coltivavano un’idea non proprio idilliaca della condizione umana. 
È un vero peccato che Canali abbia scritto così tanto. Che non sia riuscito a disciplinarsi. E che con il tempo la sua vena si sia così opacizzata. Del resto, era lui a dirlo: la malattia, la clausura non insegnano niente, neppure a uno scrittore. Se si fosse meglio amministrato, se non avesse usato la scrittura per colmare quel gigantesco buco, forse oggi i suoi scritti migliori sarebbero inseriti nelle più selettive antologie del Secondo Dopoguerra. Ma dopotutto chi se ne frega delle antologie? 

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