venerdì 11 aprile 2014

Dentro la pazza folla


Dalle tele di Camille Pissarro ai racconti di Edgar Allan Poe
Il fascino sottile e inquietante della moltitudine moderna

Roberta Scorranese

Quanto spaventava la Ringstrasse viennese negli anni a cavallo tra Otto e Novecento! Carrozze velate che tagliavano la via formicante di aristocratici, borghesi e pezzenti, uno sciame variegato unito dalla scoperta di un qualcosa che, lentamente, assumeva una vita a sé: la città. Si guardi l’acquerello del viennese Theo Tasche, Passaggio sulla Ringstrasse, del 1908: la metropoli con i suoi negozi, il respiro polveroso, i borbottii. Le dame-bene ai balconi dei palazzi che avevano ispirato Maupassant (nella novella Le signe, 1886) e che ispireranno a Freud L’architettura dell’isteria (1897) con la medesima immagine gravida di simboli: l’affacciarsi alla finestra. Quell’ansia sottile e misconosciuta di uscire di casa e farsi massa, tutt’uno con quel microcosmo dinamico, mosso da un ritmo invisibile e convulso. Nasceva la folla. 
Folla. Il tema centrale di questa edizione di «Visioni» a Lugano è antico e moderno. Se la massa nasce con un gruppo di persone agglutinate da un desiderio, una protesta, una ribellione, la folla — all’alba delle moderne metropoli — somiglia più a uno stato di necessità, a un movimento frenetico e casuale come quello degli atomi. Inquietante. Un qualcosa del quale ci si ritrova improvvisamente a fare parte. 
L’arte, come sempre, aveva intuito questa nuova cattedrale sociale: c’era Camille Pissarro, il quale, con tele come La Place du Théâtre Français (1898) guardava distante, dall’alto, la strada brulicante. Persone, carrozze e cose diventavano tanti punti neri indistinti. L’acuto Caillebotte, nel dipinto Boulevard des Italiens, del 1880, adotta la stessa prospettiva, però qui la folla si infittisce, si sgretola in mille macchioline scure, addossate le une alle altre. 
Opere letterarie come Il ventre di Parigi o Germinal di Émile Zola, avevano raccontato forti vicende umane con voce plurima, corale. E negli stessi anni, a Parigi, c’era Guy de Maupassant che addirittura incarnava fisicamente questa curiosa religione: era agorafobico. Ma torniamo a Vienna, sulla Ringstrasse: non è un caso che proprio lì l’architetto Camillo Sitte descrisse la paura degli spazi aperti puntando il dito contro i grandi centri affollati, in una difesa (di retroguardia?) delle piazze tradizionali nei paesi più piccoli. Però, per capire la massa moderna bisogna fare un passo indietro: andiamo nella Londra del 1840. È di quell’anno infatti la prima edizione originale di un’opera-chiave: L’uomo della folla, di Edgar Allan Poe. 
Nel cuore scuro e maleodorante della capitale britannica, un uomo siede al caffé e comincia a osservare le persone che gli girano intorno come mosche. Lentamente si perde in esse, si immedesima nei loro paltò, guarda con i loro occhi. È questa la folla moderna: una solitudine condivisa, monadi antistanti che dialogano senza parlare, l’uno nei molti . Non è la «massa» novecentesca descritta da opere mirabili come La ribellione delle masse di Ortega y Gasset (1939). E nemmeno quell’attrazione segreta che provò il giovane Elias Canetti nel 1922, quando, a Francoforte, si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau: quella folla indistinta, quel corpo unico e plurimo gli sembrò simile a una forza centripeta e da questa sensazione nacque (nel 1927) un’opera straordinaria, Massa e potere
No, no, la folla di Poe rispecchia piuttosto quella consapevolezza che, più o meno due secoli prima, aveva fatto dire all’aforista francese Jean de La Bruyère «Ah, ce grand malheur de ne pouvoir être seul!». La consapevolezza che non possiamo, non riusciamo più a stare più da soli. Chissà se è la stessa che, in quegli stessi anni o poco prima, folgorò Henry David Thoreau quando si ritirò in una capanna del Massachussets e scrisse Walden, ovvero Vita nei boschi . Un «via dalla pazza folla» che voleva essere anche un riappropriarsi del mondo. 
Ma torniamo a Poe e al suo osservatore seduto al caffè di Londra. Questa immagine colpì un poeta inquieto, che cercava segrete corrispondenze tra le cose. Si chiamava Charles Baudelaire e venne catturato da Poe a tal punto che (Bufalino ha parlato di «vampirismo intellettuale») non solo si mise a tradurne e commentarne le opere, ma addirittura andò da un grande fotografo dell’epoca, Felix Tournachon, detto Nadar, e si fece ritrarre nella stessa posa dello scrittore americano. L’attenzione quasi entomologica con cui il protagonista del racconto di Poe osservava la folla, si insinuò in Baudelaire e fu in quella nicchia che lentamente prese forma la figura del flâneur, colui che vaga senza meta nella metropoli, guarda, si lascia assorbire dalla città e diventa un «botanico da marciapiede». Nasceva dunque la flânerie , ripresa da Walter Benjamin nei suoi celebri Passages . Un vagabondare tra la gente, dunque, in seguito tema di un raffinatissimo racconto di Robert Walser, La passeggiata (1919). 
Poi, la folla cambierà. Diventerà massa politica e sociale, fonte di rivendicazioni o — più di recente — di una spersonalizzazione tanto più affascinante quanto più «liquida», omologata. Ma il cinema ha fatto in tempo a regalarci due capolavori sullo sciame di persone che si condensa in una massa e accusa il singolo: Il corvo, di Henri-Georges Clouzot (1943), dove la provincia piano piano si schiera accusando un uomo e Furia, di Fritz Lang (1936), dove da un chiacchiericcio monta un’aggressione da tutti contro uno. È quella Ringstrasse, insomma, che tutti ci portiamo dentro. E di cui facciamo parte. 



Nelle masse, amate o odiate, gli artisti allo specchio
L’orrore di Bosch, l’affetto di Guttuso. E lo sguardo duro sugli «automi» in guerra

Francesca Bonazzoli

Non esiste, nella storia dell’arte, una specifica iconografia della folla: nessun manuale antico, come l’Iconologia di Cesare Ripa che ha fatto da riferimento a generazioni di artisti dalla fine del Cinquecento all’Ottocento; nessuna raccomandazione da parte delle sacre autorità come quelle introdotte dal Concilio di Trento; nemmeno convenzioni stilistiche che, per il successo della formula, siano diventate cliché condivisi. Al contrario, ogni artista ha proiettato sull’immagine della folla i propri sentimenti più viscerali: fobie, disprezzo, amore, aspirazioni sociali e fedi politiche. 
Colui il quale ha avuto più orrore della massa ignorante, cieca e dagli istinti bestiali, è stato sicuramente il fiammingo Hieronymus Bosch (1450 - 1516) che in due sconvolgenti rappresentazioni della Salita al calvario ha dipinto volti di una tale cattiveria e ottusità da sfigurare i tratti somatici in ibridi mostruosi fra bestie e umani. 
Per trovare altrettanta visionarietà negativa bisogna arrivare all’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, tela del pittore belga James Ensor, dove un Cristo quasi invisibile arriva dietro un corteo agghiacciante di soldatini, clown, teschi e maschere borghesi. Che questa fosse l’autentica percezione di Ensor della folla (e non un mero divertissement artistico) è dimostrato anche dall’autoritratto dipinto nel 1936 dove il pittore circonda il proprio volto di maschere ghignanti che tutt’intorno gli tolgono spazio e aria. 
Non che le rappresentazioni della folla berlinese di George Grosz fossero meno spietate, ma nel suo caso si trattava di un giudizio su una precisa società di un dato momento storico, quello della repubblica di Weimar, e non tanto di un omnicomprensivo orrore dell’umanità come quello manifestato da Bosch o Ensor. 
Agli antipodi di tali malesseri, c’è la folla «sana» e portatrice di nuovi valori per l’umanità glorificata da Pellizza da Volpedo nel suo Quarto Stato: un inno epico del proletariato che si risveglia e marcia compatto per i propri diritti, incuneandosi come una freccia dentro il vecchio mondo, così come frecce rosse verso il cielo si alzano le bandiere comuniste durante i funerali di massa di Togliatti dipinti da Renato Guttuso. 
In mezzo fra queste due sensibilità, si colloca tutta la pittura impressionista dove la folla dei teatri, dei giardini pubblici, delle strade si Parigi, sembra non avere altro da fare che esibirsi e spensieratamente ammirarsi. È una folla svagata, senza pensieri, perfetta per fare da comparsa nella pittura borghese da salotto. 
Un posto a parte occupano poi le scene di battaglia, dove la folla è rappresentata dalla massa compatta degli eserciti. Una delle immagini più spettacolari l’ha dipinta Albrecht Altdorfer nella Battaglia di Alessandro e Dario a Isso dove gli uomini, piccoli come automi mossi da un destino più grande, sono parte integrante di un immenso paesaggio misterioso e apocalittico. E folle coreografiche sono anche gli eserciti che si affrontano nelle battaglia di Paolo Uccello o di Jacques-Louis David: balletti di pesi e contrappesi, pieni e vuoti, volumi e superfici. Insomma, una questione di testa, non di pancia. Che dire, dunque, per concludere? Che la folla è una specie di barometro della psiche dell’artista: dimmi come la dipingi e ti dirò chi sei. 


«Un melting pot degli spazi contro la solitudine urbana»
Lévy: necessario l’equilibrio tra luoghi pubblici e privati

Maria Serena Natale

Città sottili, continue, nascoste, sistemi complessi di segni e desideri. La geografia immaginifica e parallela delle Città invisibili di Calvino si sviluppa su coordinate ideali che con la grazia del paradosso si adattano al corpo simbolico delle metropoli, spazi da reinventare, arricchire e svuotare di senso in quel doppio movimento di espansione e contrazione che annulla le distanze, ma esaspera le differenze. 
Addentrarsi nei territori urbani del XXI secolo è anche perdersi nell’instabilità di linguaggi e regole da rinegoziare tra individui in relazione, chiamati a scegliere tra l’anonimato della folla e la forza politica della comunità impegnata in un’opera di costruzione. La co-produzione dello spazio pubblico inteso come bene comune, questo sforzo condiviso d’invenzione che definisce l’identità urbana, è al centro delle ricerche di Jacques Lévy, geografo esperto di teoria dello spazio delle città, professore ordinario all’École polytechnique fédérale di Losanna. Sabato a Lugano Lévy introdurrà il suo film «Urbanité/s», suggestioni calviniane, psicologia sociale e proposte teoriche della sociologia contemporanea fuse in un esperimento visivo che è insieme diario di viaggio e strumento d’indagine sui nuovi codici metropolitani dalla Cina all’America. 
Professor Lévy, in che modo la folla come soggetto storico-politico s’inserisce nell’orizzonte dell’Urbanité? 
«Gli ultimi due secoli hanno visto il progressivo ribaltamento di un assetto millenario che opponeva la debolezza dell’individuo alla forza del gruppo, l’anomia come crisi degli equilibri comunitari tradizionali descritta da Hannah Arendt. Finché, nell’era delle masse e dei totalitarismi ovvero nel momento di massima potenza delle folle, il soggetto ha acquisito coscienza di sé come intenzionalità. Oggi dobbiamo pensare la folla non come astrazione ma come sistema di corpi nello spazio pubblico, secondo l’intuizione di Norbert Elias di una società degli individui animata dalla tensione dialogica individuo/collettività». 
Tensione che nella trama relazionale di metropoli mai pacificate sfocia in conflitto… 
«Gli abitanti delle città contemporanee si percepiscono come attori in rapporto tra loro e con una dimensione presente in ogni interazione, la società come un tutto: in questo schema io-tu-società occorre cercare insieme le soluzioni dei micro-conflitti. Ecco perché una delle sfide per i governi oggi è trasferire più potere ai cittadini. Il risultato può essere una creatività condivisa a partire dalle capacità di raggruppamento individuate dal sociologo francese Isaac Joseph, oppure una conflittualità permanente. Lo scenario più pericoloso per la coesione sociale è la fuga urbana , l’autoreclusione in distretti omogenei che escludono l’alterità mentre lo spazio comune è considerato fonte di rischio. Ricchi con ricchi e poveri con poveri». 
Distanza fisica che approfondisce l’isolamento emotivo? 
«Senz’altro. Il sociologo tedesco Ferdinand Tönnies diceva che, senza gruppo, l’individuo è per sempre solo. La separazione tra spazio pubblico e privato è funzionale a un sistema di protezione dell’individualità che con l’anonimato della dimensione pubblica bilancia la forza di legami e diritti propri di quella privata». 
Solitudine condizione costitutiva della metropoli. Come restituire allo spazio urbano l’originaria funzione di luogo d’incontro e condivisione? 
«Con politiche coerenti che mescolino segmenti sociali, per esempio portando scuole d’eccellenza e istituzioni culturali nei sobborghi poveri in modo da renderli attraenti per le classi abbienti. Accade in alcune città degli Stati Uniti o nella colombiana Medellín, il modello comincia ad essere assorbito in Europa. Si parte dall’educazione, bene comune per eccellenza».

Nessun commento:

Posta un commento