domenica 23 marzo 2014

Meraviglie della fisica. La felice fatica di capire il mondo


Le tracce di onde gravitazionali captate oggi, intuite da Einstein 98 anni fa, confermano che la scienza è un'attività visionaria. 
Carlo Rovelli lo dimostra in maniera esemplare


Franco Lorenzoni

"Il Sole 24 Ore - Domenica", 23 marzo 2014

Questa settimana la fisica ci ha regalato due grandi emozioni. La prima riguarda la profondità dello spaziotempo, in fondo a cui sono state scoperte tracce di segnali più antichi di qualunque cosa ascoltata fin'ora, la seconda la profondità della mente umana. È nella mente di Albert Einstein, infatti, che quasi un secolo fa sorse la "visione" di quelle onde gravitazionali che ci raccontano qualcosa sull'origine dell'Universo. Ci sono poi voluti 98 anni di calcoli ed esperimenti, condotti da centinaia di scienziati di tutto il mondo, per potere verificare la verdicità di quella visione, che peraltro non è ancora certa.
A chi desiderasse entrare dentro la metafora di quei primi vagiti dell'Universo, captati da un gruppo di scienziati nel cielo del Polo Sud, consiglio di leggere l'ultimo libro di Carlo Rovelli, fisico teorico che i lettori di queste pagine conoscono bene. La realtà non è come ci appare delinea infatti un'ambiziosa sintesi dell'evoluzione della fisica. E ciò che rende appassionante la lettura è la fatica, richiesta al lettore non esperto, di entrare in un mondo che si presenta diverso da come lo pensiamo abitualmente. 
È un libro da regalare subito a un diciottenne che si domandi cosa studiare e da consigliare vivamente a chi insegna, non solo materie scientifiche. Tratta infatti di un tema cruciale: lo sforzo necessario per tentare di capire il mondo e la bellezza di questo sforzo. 
Non è facile, infatti, immaginare il Cosmo come un mollusco che si curva di continuo visto da dentro (la metafora è di Einstein). Non è facile intendere e accettare che l'Universo sia finito pur non avendo confini e scoprire che, se osiamo viaggiare attorno a un buco nero e riusciamo a non caderci dentro, al ritorno ci troveremo in un futuro lontano. Ancora più difficile è arrivare alla conclusione a cui più tiene Rovelli, che sostiene che il tempo non esista, o meglio esista solo nel nostro attraversare il mondo, non nel minimo tessuto granulare che compone l'Universo, né nell'insieme dei cento miliardi di galassie che oggi riusciamo a vedere e a contare. 
L'invito è a «ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo, rivederla a fondo. Come era successo con Anassimandro, che aveva compreso come la Terra voli nello spazio … o con Einstein, che aveva capito come lo spaziotempo si curvi e si schiacci e che il tempo passi diversamente in luoghi diversi». Per introdurci a questo ripensamento radicale Rovelli parte da lontano, dal viaggio che Leucippo fece dalla libera Mileto di Talete e Anassimandro fino a Abdera, dove eresse, con il suo allievo Democrito, «la vasta catterdale dell'atomismo antico». 
Parte da lì perché è su quelle coste che nacque un modo di cercare risposte «nella natura stessa delle cose», accantonando miti, spiriti e dei, che Rovelli aveva già narrato in un altro bel libro dedicato alla rivoluzione di Anassimandro: Che cos'è la Scienza (Mondadori Università, 2012, pagg. 224). Ed è in quell'aurora della scienza che che si scopre «uno stile di pensiero nuovo, dove l'allievo non è più vincolato a rispettare e a condividere le idee del Maestro».
Attraversando i secoli da Archimede a Galileo, da Copernico a Newton, a Faraday a Dirac, Rovelli cerca di avvicinare il lettore all'idea che si è fatto del suo lavoro. «Alcuni filosofi della scienza riducono la scienza alle sue previsioni numeriche. Secondo me non hanno capito nulla perché confondono gli strumenti con l'obbiettivo. … L'obiettivo della ricerca scientifica non è fare previsioni: è comprendere come funziona il mondo. Prima di essere tecnica, la scienza è visionaria. Le predizioni verificabili sono l'arma affilata che ci permette di dire quando abbiamo capito male». «Teorie come la relatività generale e la mecanica quantistica, che inizialmente lasciavano molti perplessi, si sono conquistate credibilità via via che tutte le loro previsioni, anche le più inaspettate, e apparentemente strampalate, venivano confermate da esperimenti e osservazioni».
Presentare la scienza come attività visionaria è cosa a cui Rovelli tiene molto e le pagine più intriganti sono forse quelle in cui affiora il complesso legame tra le visioni della fisica e le architetture cristalline della matematica. Esemplare a questo proposito il racconto dell'incontro tra Faraday e Maxwell. Il primo «la fisica la vede con gli occhi della mente, e con gli occhi della mente crea mondi». Ma il giovane «poveraccio londinese senza educazione formale, che diventa il più grande sperimentatore e il più grande visionario della fisica dell'Ottocento», ha bisogno delle equazioni del ricco aristocratico scozzese Maxwell, uno dei più grandi matematici del secolo. «Pur separati da un'abissale distanza di stile intellettuale, oltre che di origine sociale, riusciranno a intendersi e, insieme, unendo due forme di genio, apriranno la strada alla fisica moderna».
Leggendo queste pagine, che ci portano così vicino al senso più profondo di due discipline che si studiano a scuola, mi domando a quanti ragazzi sia data la possibilità di cogliere la bellezza di questi linguaggi, creati dall'ingegno umano per intendere la natura. Se gli iscritti alle facoltà scientifiche si sono drasticamente ridotti negli ultimi decenni non sarà anche perché troppo raramente la scuola riesce a fare assaporare il gusto dello scoprire, intrecciando l'insegnamento della fisica e della matematica con la loro appassionante evoluzione nella storia? Solo se si sente la scienza come cosa viva, come ricerca aperta che continua, si può trovare il senso che giustifichi lo sforzo a cimentarsi con linguaggi e procedimenti tanto difficili.
Carlo Rovelli ha passato la vita cercando di comprendere i segreti dello spazio quantistico e ci confida quanto segua «con attenzione, inquietudine e speranza l'affinarsi continuo delle nostre capacità di osservazione, misura e calcolo», e aspetti «il momento in cui la Natura ci dirà se avevamo ragione, o no».
Ma mentre attende e continua a ricercare, si interroga sulle tante connessioni di cui hanno bisogno gli scienziati per immaginare altri modi di vedere il mondo. «Non so se il giovane Einstein avesse incontrato il Paradiso durante i suoi bighellonaggi intellettuali italiani, e se la fantasia sfrenata del nostro sommo poeta abbia avuto una influenza diretta sulla sua intuizione che l'universo possa essere finito e senza bordo. Ma che ci sia stata o no influenza diretta credo che questo esempio mostri come la grande Scienza e la grande Poesia siano entrambe similmente visionarie, e talvolta possano arrivare alle stesse intuizioni. La nostra cultura, che tiene Scienza e Poesia separate, è sciocca, perché si rende miope alla complessità e bellezza del mondo, rivelate da entrambe».
«Certo, la tre-sfera di Dante è solo una vaga intuizione dentro a un sogno. La tre-sfera di Einstein prende forma matematica e Einstein la inserisce nelle sue equazioni. L'effetto è molto diverso. Dante arriva a commuoverci profondamente, toccando la sorgente delle nostre emozioni. Einstein apre una strada che ci porta alla sorgente del nostro Universo. Ma sono l'uno e l'altro tra i voli più belli e significativi che sa fare il pensiero».
«Ci vuole un percorso di apprendistato per comprendere la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica con la quale leggere completamente l'equazione di Einstein. Ci vogliono impegno e fatica, ma meno di quelli necessari per arrivare a percepire tutta la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven. In un caso e nell'altro, lo sforzo, una volta fatto, vale la pena: scienza e arte ci insegnano qualcosa di nuovo sul mondo dandoci occhi nuovi per guardarlo, per capirne lo spessore, la profondità, la bellezza. La grande fisica, come la grande musica: parla direttamnente al cuore e apre gli occhi alla bellezza, alla profondità, alla semplicità della natura delle cose». 
In piccole note al margine Rovelli ci informa che i numerosi apporti di scienziati italiani alle scoperte della fisica più avanzata provengono da ricerche svolte in università straniere. È una constatazione triste, che ci dice quanto sia necessario e urgente investire in Italia, per riconnettere e dare respiro alla relazione tra educazione, cultura e ricerca.
Il libro di Carlo Rovelli è tante cose. Si può leggere come romanzo di formazione di uno scienziato, come lettera a un giovane che voglia entrare nel mondo della scienza, come storia della litigiosa ed efficace convivenza di matematica e fisica, come cronaca colta della singolar tenzone tra looppisti e stringhisti, giocata rincorrendo l'ultima particella, o come un inno alla capacità visionaria di alcuni uomini che hanno cambiato alla radice il modo di vedere il mondo, allargando sempre più i nostri orizzonti. 
Nella prima pagina l'autore confessa di amare la fisica perché apre finestre e si allontana dai tanti saperi che girano e rigirano sempre e solo intorno all'uomo. Forse è anche per questo che elude, nella sua narrazione, le interrogazioni che le applicazioni della fisica hanno posto e pongono agli scienziati. Cioè il rapporto tra scienza e potere e, più in particolare, tra ricerca fisica, armamenti e controllo dell'energia e del territorio. Ma per questo ci vorrebbe un altro libro, che aspettiamo. 

Nessun commento:

Posta un commento