venerdì 21 marzo 2014

Il conte sconfitto, decapitato per amore


Storia di Elisabetta I e Robert Devereux, quando la ragion di Stato batte i sentimenti

Pietro Citati

"Corriere della Sera", 21 marzo 2014

Nel 1587 Robert Devereux, conte di Essex, non aveva ancora diciannove anni. Era vivace, intenso, furioso; e poi cadeva preda di profondi eccessi di malinconia, che lo tenevano a letto per giorni interi. Passava da un estremo all’altro: amava ed odiava; era sia un servo devoto sia un feroce ribelle, spinto qua e là dal vento mutevole delle passioni e del caso. Era bello e seducente, schietto, elegante: aveva una vivacità da ragazzo, parole e sguardi di adorazione, il corpo slanciato, capelli di un biondo ramato, un capo che si inchinava dolcemente con un sorriso. Affascinò la regina, Elisabetta d’Inghilterra, che aveva cinquantatré anni e che si innamorò di lui. 
Elisabetta era una vecchia, tremenda sovrana in abiti fantastici, ancora alta ma ormai curva: aveva i capelli tinti di rosso sul pallido viso, denti lunghi che si stavano annerendo, il naso adunco e pronunciato, e occhi infossati e pronunciati nello stesso tempo – occhi feroci, nelle cui profondità di un azzurro cupo si nascondeva qualcosa di maniacale. Era un intricato groviglio di contraddizioni: ingenua e ipocrita, delicata e brutale, religiosa e lussuriosa, coltissima e rozza, lineare e sinuosa, assurda e ostinata, dubbiosa e incerta quando avrebbe dovuto essere decisa. Sapeva giocare con la vita alla pari: lottando, ridendo, ammirandola, osservando il dramma, gustando la stranezza delle circostanze, i rovesci improvvisi della fortuna, le continue sorprese. «Per molto variare la natura è bella», era uno dei suoi aforismi preferiti. 
Negli anni della maturità, pretendeva che i giovani che la circondavano esprimessero i colori di una passione romantica: gli affari di stato venivano condotti in mezzo a un fandango di sospiri, estasi e proteste. Elisabetta assorbiva avidamente l’adorazione raffinata dei suoi amanti e la trasformava in un affare redditizio. Spesso litigava con Essex, che scompariva dalla corte improvvisamente imbronciato, senza una parola di preavviso. Allora, il vuoto scendeva su Elisabetta, incapace di nascondere la propria agitazione. Poi, con altrettanta rapidità, il conte tornava a corte, per essere ricoperto da rimproveri pieni di sdegno e da sonore bestemmie. Nuovi, brevi litigi e deliziose riconciliazioni. Erano ore di felicità e di pace, e fra i gioielli e i tendaggi dorati la sovrana sembrava rifulgere di una gloria quasi giovanile. 
                                                                                
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Nel 1599, incaricato di domare la ribellione dell’Irlanda, il conte di Essex svelò la sua incapacità di condottiero. Era disperato, e scrisse a Elisabetta una lettera meravigliosa. «Da una mente che trae piacere dalla sofferenza, da uno spirito devastato da pene, preoccupazioni e dispiaceri, da un cuore fatto a pezzi dalla passione, da un uomo che odia se stesso e tutte le cose che lo mantengono in vita, qual servizio può attendersi ancora Vostra Maestà?». Essex lasciò l’Irlanda. Arrivò nelle stanze di Elisabetta sporco e in disordine, vestito in modo trascurato e con gli stivali da cavallerizzo. Quando spalancò la porta, là, a un passo da lui, c’era Elisabetta tra le sue dame: in vestaglia, senza trucco, con ciocche di capelli grigi che le ricadevano sul viso, e gli occhi più che mai sporgenti. Elisabetta fu sorpresa e felice. Poi ebbe paura. 
Alle undici di sera il conte di Essex ricevette un messaggio da Elisabetta: gli veniva ordinato di non lasciare le sue stanze. Fu condotto prigioniero a Yorkhouse, sotto la custodia di lord Egerton. La sua prigione durò un anno, durante il quale nessun intimo ebbe il permesso di vederlo; e poi venne confinato in casa propria, con la medesima rigidezza. Il 5 luglio 1600 fu processato. Alla fine Essex lesse ad alta voce una umiliante confessione di inadempienza. Scrisse alla regina: «Ora che ho ascoltato la voce della giustizia legale, desidero umilmente udire la vostra vera e naturale voce di grazia». Passava dal dolore e dal pentimento all’ira e alla ribellione: mentre i suoi familiari e seguaci macchinavano progetti folli; assalire la corte, sollevare Londra, fuggire nel Galles, dove alzare la bandiera della rivolta. 
La regina avrebbe potuto perdonare Essex. Ma l’ira, che da tanto e tanto tempo covava dentro di lei, divampò trionfalmente. La decapitazione fu fissata per il 25 febbraio 1601, malgrado qualche impercettibile tentennamento. Il conte, che non aveva ancora compiuto trentatré anni, espresse solo un desiderio: non essere ucciso in pubblico. Alto, magnifico, a capo scoperto, con i capelli biondi sulle spalle, stette in piedi per l’ultima volta davanti al mondo. Poi si inginocchiò. Il boia alzò la scure e la tirò giù di schianto. Il corpo del condannato sussultò, ma il boia dovette alzare e abbassare la scure altre due volte, prima che la testa fosse mozzata e il sangue fuoriuscisse. Allora il boia si chinò, afferrò la testa per i capelli, gridando: «Dio salvi la regina». 
Dopo la morte di Essex il sistema nervoso di Elisabetta cominciò a cedere. Si fece più rude e capricciosa che mai. Passava le giornate in assoluto silenzio, in preda alla malinconia. Non toccava quasi cibo: si nutriva soltanto di brodo di cicoria e di crostini. Teneva sempre accanto a sé una spada, che impugnava e infilzava con impeto negli arazzi, mentre camminava avanti e indietro in preda a una delle sue crisi di nervi. Talvolta si chiudeva in una camera oscura, dove si abbandonava a scoppi di pianto. Il grande regno durò ancora due anni. La mattina del 24 marzo 1603 Elisabetta si addormentò, sfuggendo per l’ultima volta e per sempre all’assedio dei suoi cortigiani. 
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Ho cercato di riassumere decorosamente il bellissimo libro di Lytton Strachey, Elisabetta e il conte di Essex, pubblicato nel 1928 (Castelvecchi, traduzione di Maria Teresa Calboli). Strachey aveva a disposizione un materiale vastissimo: storici, diaristi, epistolari, documenti segreti, l’alone dei versi di Shakespeare, il soccorso della sua intelligenza modernissima. Ma dissimulò la propria cultura: i personaggi principali, i bellissimi personaggi minori, tra i quali vorrei ricordare almeno Francis Bacon e Filippo II di Spagna, i grandi avvenimenti del tempo, assunsero la leggerezza di un aereo e squisito ricamo, abbandonando il terreno grave della storia per entrare nel terreno senza tempo della letteratura. Tutto ciò che era accaduto nella realtà e nei cuori alla fine del sedicesimo secolo, lo vediamo, come vediamo tutto ciò che quindici secoli prima aveva affascinato Plutarco. Lytton Strachey approfittò persino delle difficoltà del suo compito: quella materia sembrava remota e incomprensibile allo spirito di un uomo del ventesimo secolo; e questo tocco di distanza rese più avventuroso, preciso e ironico il suo racconto. 
Qualsiasi cosa abbia scritto Virginia Woolf sui libri che leggeva, mi sembra straordinaria. Per una volta, devo fare un’eccezione. Virginia Woolf scrisse che Elisabetta e il conte di Essex era un «fiasco»: un libro fiacco e superficiale, dove tutto era inventato. In realtà il libro di Strachey, in ogni pagina, descriva un evento, un sentimento o un vestito, ha il sapore stesso della verità. Tutto ciò che racconta è accaduto nello specchio infallibile della letteratura. Credo che Virginia Woolf provasse un’avversione di principio verso l’arte della biografia. Ma non aveva nessuna importanza che i libri di André Maurois e di Emil Ludwig, che uscirono negli stessi anni, fossero mediocri e volgari. I libri di Lytton Strachey avevano un’origine antichissima e sublime: le vite di Plutarco, che posseggono una profondità, una ricchezza, una fantasia, un colore come le massime pagine di prosa della letteratura greca classica.

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