domenica 23 febbraio 2014

Ma perdere la testa per una statua di marmo non è (solo) da uomini


Laura Bossi

“Corriere della Sera - La Lettura“, 23 febbraio 2014

Qualche giorno fa, la sera di San Valentino, una signora in visita alla Gipsoteca di Possagno (Treviso), al lume delle lanterne, fu colta da malore davanti a una Venere del Canova. I giornali parlarono di Sindrome di Stendhal . Il termine fu coniato da una psichiatra fiorentina in riferimento a quel passaggio di Roma, Napoli e Firenze in cui il poeta descrive l’attrazione vertiginosa che esercitano su di lui i monumenti della chiesa di Santa Croce, e il languore, quasi uno svenimento, che lo obbliga a uscire all’aria aperta. 
Secondo la psichiatra tale stato di confusione non è raro nei turisti moderni che si avvicinano senza alcuna precauzione alle opere d’arte. Tra i casi clinici citati dalla psicoanalista Graziella Magherini, un bavarese di età matura, tale Franz, è folgorato dal Bacco del Caravaggio. Prova un’eccitazione sessuale ambigua, si sente oppresso, traspira, ha l’impressione di essere sul punto di perdere i sensi. Bisogna portarlo in ospedale. Isabella, una giovane professoressa francese di educazione artistica, in visita agli Uffizi con i suoi allievi, è presa dall’impulso di voler lacerare i quadri; quei ritratti di personalità o autoritratti di artisti le sembrano «terribilmente reali». Secondo la psichiatra, in questo caso non è Eros, piuttosto Thanatos, a provocare una tale emozione. 
Ma è soprattutto la scultura con la sua presenza nello spazio e le sue proprietà tattili a esercitare uno strano fascino, o addirittura a suscitare una varietà singolare dell’amore sensuale. 
L’agalmatofilia (dal greco agalma, statua o immagine, e philia, amore) fu particolarmente cara ai Romantici. Il poeta Joseph von Eichendorff (La statua di marmo) racconta l’avventura di Florio, giovane gentiluomo in viaggio dalle parti di Lucca, che scopre, una notte, una statua marmorea di Venere presso uno stagno, come se la dea, appena uscita dalle acque, contemplasse l’immagine della propria bellezza. A Florio sembra addirittura che gli occhi della statua si aprano, le labbra si schiudano, e la vita con il suo fuoco divino animi le belle membra. 
Heinrich Heine, nelle Notti fiorentine, ci narra di un fanciullo che prova un turbamento inesplicabile alla vista di una bianca dea di marmo che giace nell’erba di un parco. La notte egli non riesce a trovare sonno e fantasticando sotto i raggi della luna si ripromette di baciare la statua sugli angoli della bocca, dove le pieghe delle labbra formano irresistibili fossette. Infine non resiste all’imperioso desiderio, si alza, raggiunge la bella addormentata nel giardino notturno e, come se stesse per commettere un delitto, bacia la dea con un fervore, una tenerezza, un delirio come non proverà mai più. 
L’amabile Antonio Baldini, in un dialogo con Mario Praz sull’amore delle statue pubblicato all’inizio degli anni Quaranta proprio dal «Corriere della Sera», ci rivela che il poeta neoclassico Ugo Foscolo fu turbato dal collo voluttuoso della Venere italica del Canova mentre nella sua deliziosa novella Paolina fatti in là, in cui racconta una visita notturna a Villa Borghese una notte d’estate, sempre Baldini ci dà una versione Biedermeier dell’agalmatofilia. La Galleria è rimasta aperta, il poeta percorre le sale silenziose, riconosce dapprima, nella penombra, l’ermafrodita che dorme sul suo letto sfatto, il piede preso nel lenzuolo. Carezza la sua capigliatura femminea, la guancia marcata dal vaiolo. Il corpo dell’adolescente ambiguo gli pare bruciante. Un po’ più lontano, vede la bella Paolina Bonaparte, seduta sul suo letto di marmo; cioè non propriamente seduta, ma rilevata sul fianco e appoggiata con il gomito sui cuscini, e si sarebbe detto che sorrida alla luna (sempre la luna!). 
Il poeta si siede su quel poco di materasso che Paolina gli lascia a disposizione, come un medico le appoggia l’orecchio sulla gelida schiena, poi le passa il braccio intorno al collo, e le mormora tra i ricci: «Paolina, fatti in là. Dammi ancora un po’ del tuo fresco giaciglio. Non ho, tu vedi, dove andare a dormire». Poi le prende la mano che tiene il pomo e sente distintamente «la grana dolcissima della pelle e la buccia invece liscia liscia della mela e le fossette delicate sul dorso della mano e l’attaccatura del picciuolo del frutto». 
Mario Praz sottolinea la parentela tra queste fantasie e quella più esplicita di Mérimée, che echeggia il tema di un racconto medievale: il giorno delle nozze un giovane imprudente si toglie l’anello per giocare al pallone, e lo infila al dito di un’antica statua di Venere. Ma quando cerca di riprenderlo, il dito si è ripiegato. La sera stessa, la dea sale le scale di casa sua e sotto gli occhi inorriditi della sposa, lo stringe in un abbraccio mortale. Dietro la nostalgia della donna ideale sorge il convitato di pietra del Don Giovanni, la statua del Commendatore. Aveva ragione il Gran Duca Cosimo III quando ordinò di trasportare la Venere de’ Medici dai giardini della Villa alla sua attuale sede di Firenze, perché pare che fosse «ben spesso con parole e con gesti de’ più scorretti abusata». Ma si dirà: l’agalmatofilia, che ci accompagna dall’antichità, sembra colpire solo gli uomini. Ed è vero che i casi femminili sono più rari, e spesso descritti con un’intenzione parodica. L’esempio più celebre è probabilmente il monologo di Molly Bloom nell’Ulisse di Joyce, in cui Molly si domanda perché tutti gli uomini non sono fatti come una bella statuetta di marmo comprata dal marito, così bianca, pulita, innocente che si vorrebbe baciarla dappertutto. 
Con simile ironia, Mario Praz racconta, ne La casa della vita, della sua florida cameriera Dirce infatuata di una statua d’Amore. Ricordiamo anche la scena del film di Luis Buñuel, L’âge d’or («L’età dell’oro»), in cui la protagonista succhia il piede di una statua di marmo, oppure la visita solitaria di Ingrid Bergman al Museo di Napoli nel Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, in cui si arresta affascinata davanti all’Ercole Farnese . Il desiderio eccitato dallo sguardo sarebbe forse un tratto specificamente maschile? Lo sguardo dell’artista creatore che come Pigmalione vuole animare la materia inanimata sarebbe uno sguardo sessuato? David Freedberg si interroga addirittura se lo sguardo nella cultura occidentale non sia uno sguardo maschile, che ricerca il possesso. 
Ma forse è più importante notare che l’oggetto dell’agalmatofilia è una dea, un idolo immobile dalla bellezza eterna, ideale, inaccessibile. L’agalmatofilia sarebbe dunque una ierogamia , un matrimonio sacro tra una divinità e l’uomo.

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