domenica 2 febbraio 2014

Il nostro bisogno di mostri


Creature fantastiche e deformi popolano l’immaginario 
dall’età antica fino a quella contemporanea
Perché è nella natura dell’uomo credere in esseri che incutono paura e rispetto
Queste entità sono versioni più grandi o più piccole 
di quello che la natura ha ideato o sono dettagli mescolati

Dichiariamo di essere razionalisti eppure temiamo i vampiri o gli omuncoli verdi provenienti dallo spazio

Alberto Manguel

“La Repubblica“, 2 febbraio 2014

Il Royal Tyrell Museum, famoso per la sua collezione di dinosauri, si trova al centro delle Badlands canadesi. Quasi certamente, però, la sua esposizione più singolare non è quella dei colossali scheletri di animali che se ne andavano in giro quando gli esseri umani non esistevano ancora, ma quella che esibisce ingrandite le fattezze di minuscoli animali marini detti plankton, non destinati, 300 milioni di anni fa, a sopravvivere più di pochi brevi istanti nell’immensa scala temporale della preistoria. Mentre fluttuano in un deprimente mare di plexiglass — con i loro corpi trasparenti bianchi, dai contorni luminosi molto più grandi rispetto alla realtà — questi abbozzi mancati di creature viventi a un occhio poco abituato paiono tentativi da incubo storti e asimmetrici, riusciti a metà, di raffigurare esseri che avrebbero potuto esistere, come se un artista avesse scarabocchiato forme a occhi chiusi e poi, dopo essersi accorto del risultato, le avesse cancellate per sempre. Queste apparizioni mai evolute del tutto sono tra i mostri più terrificanti mai visti, al confronto dei quali il centauro e il basilisco sono animali più che inoffensivi e ordinari. La vita sulla Terra inizia con i mostri, non con le forme comuni di vita alle quali siamo abituati.
L’esposizione al Palazzo Massimo di Roma «Mostri, creature fantastiche della paura e del mito» (a cura di Rita Paris ed Elisabetta Setari) è un salutare monito sull’attuale presenza di mostri nel nostro mondo. La parola mostro, come è risaputo, deriva dal verbo latino mostrare, far vedere, indicare con un dito. Mostro è il prodigio, il bizzarro, l’insolito, l’imprevisto, ciò che si vede di rado o mai.
Per descrivere qualcosa di mostruosamente inverosimile, Orazio parla di cigni neri, senza sapere che in quello stesso momento stormi di cigni neri oscuravano i cieli d’Australia. Esiste sempre la possibilità, per quanto piccola, che ciò che noi definiamo mostro proprio in questo momento sia appostato in qualche oscuro punto dell’universo.
Tenuto conto che non possediamo l’inventiva della Natura che, come ci dice Dante, «d’elefanti e di balene / non si pente», i nostri mostri sono versioni più grandi o più piccole di ciò che la Natura ha già ideato, oppure semplici mescolanze di dettagli che si possono vedere qua e là in qualsiasi zoo. Pesce o uccello o leone congiunto a una donna; cavallo o toro o serpe congiunto a un uomo; stalloni e serpenti in grado di volare, creazioni teologiche con molte braccia come Shiva o con una triplice personalità come la Trinità, cani a tre teste o individui senza: i nostri bestiari immaginari sono poco più che varianti del cadavre exquis, il gioco inventato dai surrealisti che consisteva nel disegnare, su un pezzo di carta ripiegato più volte, una sezione di corpo senza poter vedere quanto disegnato dai giocatori precedenti. I risultati sono spesso bizzarri o divertenti, ma di rado stupiscono più di una giraffa o di un ornitorinco. Come dice Dio a Giobbe con un pizzico di spavalderia nella voce: «Sei tu a dare ali attraenti ai pavoni? O ali e piume allo struzzo?» (Giobbe, 39:13).
Tuttavia, alcuni mostri immaginati dai nostri progenitori sono a tal punto validi da resistere nel tempo. Il centauro e la sirena, il drago e il grifone, la gorgone e il satiro si aggirano ancora nel nostro mondo. Il Medio Evo conferì loro il medesimo valore simbolico delle creature che noi chiamiamo reali. Nei bestiari medievali leggiamo che l’allodola è capace di decidere del destino di un malato: resta nella stanza se egli morrà o vola via dalla finestra portandosi appresso la sua malattia se egli sopravvivrà. E alla pagina seguente, apprendiamo che l’unicorno brado può essere catturato soltanto attirandolo nel grembo di una giovane fanciulla, dove cadrà amorevolmente addormentato. Non si fa alcuna distinzione tra la creatura osservata e quella immaginata: fanno entrambe parte della fauna della mente. «I mostri sono buoni per pensare», dice Maurizio Bettini nello splendido catalogo che accompagna la mostra. A tal punto è connaturato all’uomo credere nei mostri che, osservando tre lamantini nei pressi della foce dell’Orinoco, Cristoforo Colombo scrisse nel suo diario di bordo di aver visto tre sirene nuotare in mare, e aggiunse, con meticolosa precisione, che «non sono così belle come si dice che siano». I nostri mostri esistono perché noi vogliamo che esistano. Forse, esistono perché abbiamo bisogno che esistano.
Chi sono i nostri mostri oggi? Coloro che non riusciamo a tollerare di annoverare nel genere umano, coloro contro i quali puntiamo il dito (mostrare) per accusarli di quelli che riteniamo essere atti “disumani”. Hitler, Stalin, Pinochet, Bashar al-Assad, serial killer e stupratori sono stati tutti chiamati “mostri” perché hanno commesso azioni che ci piacerebbe immaginare che nessun essere umano sia in grado di commettere. Gli antichi erano più saggi. Le loro divinità e i loro mostri avevano qualità e difetti sovrannaturali, ma anche difetti e qualità umane: Polifemo era tonto, Cerbero era avido, i centauri erano saggi, le sirene seducenti, Pegaso si vantava della sua velocità e il Minotauro della sua forza. Questi mostri sono indimenticabili perché, come noi uomini, riescono a provare orgoglio e odio e lussuria, e anche invidia e stanchezza. «La mostruosità di queste creature», dice Mariarosaria Barbera nel saggio introduttivo del catalogo, «nel repertorio vastissimo dell’arte antica, presenta quasi sempre elementi di nobiltà e di eleganza, per il legame con la sfera culturale e le imprese mitologiche, alle quali comunque partecipano». Sono nobili ed eleganti, dunque, perché oltre alla paura incutono rispetto come creature qualsiasi di questa Terra, che provano desideri come noi e soffrono come noi. Cocteau ipotizzò che la Sfinge fosse andata da sé incontro alla propria fine, poiché fu lei stessa a sussurrare la risposta dell’enigma a Edipo, della quale si era innamorata.
A differenza dell’epoca dei nostri antenati, la nostra è ingenua e scettica al tempo stesso. Dichiariamo di essere razionalisti e rigorosi, eppure crediamo in omuncoli verdi provenienti dallo spazio (e la compagnia di assicurazione St. Lawrence Insurance di Altomonte, in Florida, offre una polizza in caso di rapimento da parte di alieni), nell’Abominevole Uomo delle Nevi, nel Mostro di Lochness (e vi sono gite organizzate per i turisti affinché possano avvistarlo), nei vampiri (ancora nel febbraio 2004 in Romania vari membri della famiglia Petre temettero che un loro parente defunto fosse diventato un vampiro, così scavarono, ne riportarono in superficie il cadavere, strapparono via il cuore, lo bruciarono e sciolsero le ceneri ottenute nell’acqua per berlo). Gli antichi conferivano qualità sacre ai loro mostri e si ritenevano responsabili della loro esistenza: il Minotauro era nato a causa della lussuria di Pasifae, e le sirene esistettero per impedire che gli uomini varcassero limiti proibiti. Come ha chiaramente mostrato Paul Veyne, «è ovvio che credevano nei loro miti!». Credettero veramente che fossero veri? «La verità», risponde Veyne, «è la pellicola di autosoddisfazione gregaria che ci separa dalla volontà di potere». Oggi noi crediamo nei mostri, ma non vogliamo esserne responsabili. Per noi la loro esistenza non è più una questione di verità, bensì di distacco dalla verità, di rifiuto ad ammettere che siamo capaci – tutti noi, ognuno di noi – di commettere le azioni più straordinarie e i delitti più abietti.
(Traduzione di Anna Bissanti)


È un luogo dell’orrore ma anche di fascinazione

In tali figure incarniamo le pulsioni più scabrose e meno 
riconducibili a un’idea di civiltà. 
Rappresentano qualcosa che abita in noi, ma che è eccessivo

 Massimo Recalcati

Le immagini del mostruoso hanno da sempre popolato la fantasia umana e le sue narrazioni: dai graffiti preistorici alle ultime immagini cinematografiche, dai miti alle ultime produzioni letterarie. La tesi che Freud sostiene è che in tutte queste rappresentazioni gli esseri umani provano a dare voce e corpo al mostro che li abita. Quale mostro? Le spinte pulsionali più scabrose e più irriducibili al programma della Civiltà: la pulsione aggressiva e la pulsione sessuale, l’avidità sconfinata della pulsione che per raggiungere il suo fine rifiuta ogni limite imposto dalle leggi della Cultura.
L’apparizione del lupo cattivo, del cane nero, dell’animale feroce, dell’orco spietato, del drago con la lingua di fuoco, popolano regolarmente l’universo immaginario dei bambini che in questo modo provano a prendere contatto con le loro dinamiche pulsionali più perturbanti. Anche nell’adolescenza la presenza del mostruoso ricorre con costanza. Con le trasformazioni della pubertà l’adolescente fa l’esperienza inquietante che ciò che minaccia la propria identità viene dal proprio corpo. Il corpo pulsionale sgomita, emerge come una lava vulcanica che destabilizza l’immagine dell’Io che l’infanzia ha forgiato. È il problema che attraversa il disagio della giovinezza: come dare una forma al corpo informe della pulsione sessuale? Come dare diritto di cittadinanza al mostro che portiamo dentro di noi? Conosciamo la diffusione tra gli adolescenti di quei fenomeni che la psicopatologia ordina come dismorfofobici e che riguardano l’alterazione della percezione della propria immagine corporea riflessa nello specchio. In questi fenomeni l’immagine si deforma, appare straniera, il soggetto non vi si può più riconoscere. La sua deformazione mostruosa denuncia il sisma della pubertà come ingovernabile: cosa sto diventando? Chi sono? In quale mostro mi sto trasformando? Una mia giovane paziente bulimica alla fine di ogni abbuffata si sentiva simile a Hulk, il celebre mostro verde di Marwell risultato di un esperimento scientifico finito male. Metamorfosi atroce dell’immagine che troviamo anche in moltissime altre sequenze cinematografiche dove il corpo, parassitato al suo interno, diventa teatro di trasformazioni drammatiche.
Il mostruoso non è solo il luogo dell’orrore, ma anche quello di una fascinazione misteriosa perché incarna qualcosa che pur abitando in noi stessi ci eccede, diventando un oggetto, al tempo stesso, d’angoscia e di curiosità. La figura narrativa e cinematografica di Harry Potter ha ottenuto un successo planetario tra i ragazzini proprio perché il suo essere continuamente alle prese con mostri, demoni, magie e incantesimi rivela lo statuto ambivalente del mostruoso, sorgente di terrore ma anche di una vera e propria passione euristica.
Questo carattere tutto interno, “inconscio” direbbe Freud, del mostruoso ci viene rivelato, in un contrappunto sottile, da uno storico film di David Lynch com’è Elephant man.
Il protagonista è un essere umano deturpato nel volto da masse tumorali abnormi e costretto a ricoprirsi con un sacco per non diventare oggetto di angoscia. Nondimeno al di sotto di questa orribile immagine non c’è affatto un mostro, ma una persona dolce e sfortunata che rimpiange con tenerezza l’amore della propria madre, come per indicare la non coincidenza tra l’interno e l’esterno. Lo sappiamo per esperienza: al di là di un cattivo e farsesco lombrosianesimo i volti d’angelo non sempre rivelano un’anima altrettanto angelica. Per questa ragione il vero mostro nel film di Lynch non è il povero “Elephant man”, ma colui che sfrutta cinicamente quella mostruosità facendone uno spettacolo da circo e gli spettatori che pagano il biglietto per contemplarla divertiti. Accadde anche con l’anarchico Valpreda nel tempo della strategia della tensione: il mostro in prima pagina sembrava offrire un trattamento rassicurante dell’orrore della strage, la quale però non fu affatto concepita da chi era fuori dal sistema, ma da servizi deviati interni al sistema stesso. È questo tutto il peso specifico della tesi freudiana: l’angoscia per il mostruoso – l’attentato terrorista – riaccende le opzioni fobiche dei bambini impauriti dalla presenza misteriosa del loro corpo pulsionale. C’è bisogno di una sua evacuazione immediata: il mostro non sono Io, ma è sempre l’Altro (il cane nero, la strega, l’Orco, l’ebreo, il gay, l’anarchico terrorista). Questo significa che i “veri” mostri (Hitler, Stalin o il padre-padrone incestuoso che prostituisce e abusa sessualmente delle proprie figlie rappresentato dal film greco di Alexandros Avranas, Miss Violence),
sono coloro che non vogliono in nessun modo incontrare il mostro che sono. Paranoia e perversione: per evitare l’incontro con il mostro il perverso si elegge ad Io ideale, realizzando con tenacia e perseveranza il suo disegno di costituirsi come un Egoarca; il paranoico ricerca invece l’impuro con il quale identificare il mostro per scagliarvi contro il proprio odio infinito. In questo senso Gesù aveva anticipato Freud: guardare la pagliuzza nell’occhio del nemico ripara dal dover constatare la trave che ci acceca.

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