venerdì 13 dicembre 2013

Quelli che bruciano i libri. L’Ungheria brucia i poeti del ’900



Luigi Manconi

“l’Unità “, 13 dicembre 2013

Ci salveranno i poeti? Il dubbio è ricorrente nella storia della cultura, ma proprio per il paradosso che richiama (la fragilità della poesia/l’enormità del mondo) finisce con l’attraversare anche la vicenda sociale e politica dei nostri giorni. La conferma più inequivocabile viene dal fatto che oggi, in Europa, c’è chi brucia i libri dei poeti e che, a gettare l’allarme, siano proprio due poeti.
È successo appena qualche giorno fa, quando Edith Bruck e Nelo Risi mi hanno scritto per raccontare quanto segue.
Miklós Radnóti, uno dei più grandi poeti ungheresi del ’900, fu ucciso il 10 novembre del 1944 mentre, insieme ad altri 3000 prigionieri, veniva ricondotto in Ungheria dalla Serbia. Nato da una famiglia ebrea a Budapest, dopo gli studi in filosofia si era dedicato alla poesia, collocandosi fra i principali esponenti di una corrente letteraria di ispirazione popolare, formatasi in Ungheria negli anni 30. Dopo la morte, il suo corpo fu gettato in una fossa comune vicino al villaggio di Abda, nei pressi di Gyor. Qualche tempo dopo, tra i brandelli della sua giacca fu ritrovato un taccuino con le ultime poesie e alcuni fra i suoi versi più belli. Nello stesso taccuino furono trovate anche le istruzioni, scritte in varie lingue, da seguire nel caso di ritrovamento: consegnare al professor Gyula Ortutay. Tra i versi più intensi di Radnóti c’è la quarta strofa della poesia Razglednicák (Cartoline), nella quale il poeta descrive la fucilazione di un uomo e immagina la propria stessa morte. Sono tra i versi più emozionanti della letteratura della Shoah.
Qualche settimana fa, nell’anniversario della sua morte, che corrisponde a quello della Notte dei cristalli (tra il 9 e il 10 novembre del 1938), i suoi libri sono stati bruciati. Una settimana dopo, la notizia che la sua statua è stata distrutta. Si tratta di uno dei tanti, tantissimi segnali del clima che sembra dominare l’Ungheria contemporanea: xenofobia e manifestazioni di esplicito razzismo, persecuzione delle minoranze e antisemitismo, sciovinismo e omofobia.
Si potrebbe, in uno spericolato sforzo di ottimismo, provare a ridimensionare tutto ciò, attribuendolo all’iniziativa di gruppi minoritari, fatalmente irrobustiti dalla crisi economica e intenti a raccogliere tutta la paccottiglia delle peggiori ideologie del ’900. Ma, a preoccupare, c’è il fatto che quel clima cupo e avvelenato risulta potentemente incentivato da un apparato normativo e da politiche pubbliche che blandiscono e assecondano le pulsioni più torve. Ed è su questo che l’Europa democratica stenta a far sentire la propria voce, a battersi a viso aperto sul piano culturale, a condurre una serrata critica sociale, politica e ideologica.
Nel cuore del continente covano sentimenti e strategie che si rifanno ai totalitarismi del secolo scorso e ne vogliono rinnovare i programmi. Sono il primo a pensare che non accadrà, ma questo non è un motivo sufficiente per rassicurarci: il fatto che sia irrealizzabile in Europa un regime a qualsiasi titolo neo-nazista non significa che categorie e stereotipi, strumenti e armamentario che furono del nazismo non possano riproporsi qua e là, essere recepiti da norme e politiche, contaminare atteggiamenti e comportamenti. E tutto ciò, se pure fosse solo tutto ciò, sarebbe un autentico disastro (sempre che già così non sia). Da questo punto di vista, l’Ungheria è una minaccia per l’Ungheria ed è una minaccia per l’Europa. In altri termini, è un incubo annunciato da segni e sogni minacciosi che già gravano sulle nostre vite affaticate e sui nostri sistemi democratici sottoposti a dure prove. Dunque, l’infamia neonazista che, a distanza di quasi settant’anni, si incanaglisce ancora sulla memoria e sull’opera di Radnóti sembra rispondere alla domanda iniziale.
Sì, forse i poeti non salveranno il mondo, ma è certo che le loro opere fanno ancora paura. Tocca a noi che non abbiamo la fortuna di essere poeti, saper leggere i loro messaggi e saper ascoltare le loro grida di allarme. E saper cogliere anche le manifestazioni più minute, ma non per questo meno meschine e preoccupanti, del degrado in atto: compreso quanto è accaduto a Savona, dove un gruppo di cosiddetti «Forconi» ha intimato la chiusura di una libreria minacciando, in caso contrario, di «bruciare i libri».





Frammento

(Töredék - 1944)

Ho vissuto su questa terra in un'epoca 
quando l'uomo è diventato talmente vile
che di notte uccideva per puro piacere
e non solo al comando,
e mentre credeva in falsi miti, agitandosi,
sua vita fu intrecciata da deliri selvaggi.

Ho vissuto su questa terra in un'epoca 
quando fare la spia era un merito;
quando l'eroe era il traditore, il ladro, l'assassino,
e chi taceva magari
o era solo restio ad entusiasmarsi, 
era odiato, come l'appestato.

Ho vissuto su questa terra in un'epoca 
quando chi ha aveva osato protestare
si doveva nascondere,
mordendosi i pugni di vergogna.
Il Paese impazzì: ubriaco di sangue e luridume 
sghignava sul suo destino terribile.

Ho vissuto su questa terra in un'epoca 
quando per il bambino sua madre
era una maledizione,
era felice ad abortire la gestante, 
e, avendo il veleno spumeggiante sulla tavola,
i vivi invidiavano i morti nella tomba.

Ho vissuto su questa terra in un'epoca 
quando anche il poeta taceva
in attesa di poter parlare ancora,
perché una maledizione degna 
non potrebbe pronunciare nessun profeta
solo il sapiente delle parole terrificanti, Isaia.

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