domenica 29 dicembre 2013

Poeti e contabili: gli scienziati


La ricetta di Wilson: la ricerca? Lavorate 60 ore a settimana
E vi serve tanta fantasia, non 140 di quoziente d’intelligenza

Telmo Pievani

“Corriere della Sera“, 29 dicembre 2013

Un nonno scienziato, davanti al camino, parla con due ricercatori alle prime armi. Il focolare fa luccicare le medaglie al valore scientifico appuntate sul suo petto. Ha deciso di raccontare al ragazzo e alla ragazza tutto ciò che bisogna sapere per avere successo in campo scientifico, in venti brevi lettere. La situazione è a forte rischio di noia e di retorica, ma non se la penna è quella del due volte Premio Pulitzer Edward O. Wilson, l’entomologo di Harvard che ci ha insegnato che cos’è la biodiversità e come si sono sviluppate le straordinarie società delle 16 mila specie conosciute di formiche (Lettere a un giovane scienziato, Raffaello Cortina Editore). 
Per rimanere creativi nella scienza servono prima una passione incrollabile, poi una buona formazione e infine risolutezza e dedizione al lavoro (in quest’ordine). Ingredienti essenziali sono l’audacia e la tenacia, perché ancora non sappiamo tante cose, e chissà quante non sappiamo di non sapere. La matematica è importante ma non basta: è un linguaggio che apre molte porte, tuttavia contano anche la raccolta minuziosa di dati reali, la creatività, le intuizioni, e persino i sogni. Anche se non sei un genio dei numeri e non hai un quoziente di intelligenza superiore a 140, puoi essere un ottimo scienziato, conclude Wilson. La fantasia è al centro del metodo scientifico, perché aiuta a formare concetti e a farsi un’immagine inedita del problema che si sta affrontando. La biologia poi è la scienza delle cause molteplici: richiede metodo e intuito insieme, nonché un certo fiuto per i dettagli e per gli schemi di connessione fra indizi apparentemente insignificanti. 
Sono l’immaginazione e il senso di opportunità a suggerire di non impegnarsi in campi già dissodati da altri, di evitare i settori già pieni di star della scienza, di premi e di risultati, e di esplorare invece territori sconosciuti, poco coltivati da altri. Sogna moltissimo quindi, il giovane scienziato, non smette mai di sognare, e sceglie i modelli giusti. Il processo creativo nella scienza è anche un «silenzioso colloquio interiore». La tecnologia, pure, è fantastica e bisogna servirsene, ma non innamorarsene a tal punto da farla diventare un fine in sé. Wilson è scettico sulle linee di ricerca condotte da centinaia o migliaia di ricercatori, come quelle attuali in fisica sperimentale o nell’analisi dei genomi. La sua immagine dello scienziato innovativo è tutto sommato ancora romantica: un esploratore alla ricerca del suo Graal, un introverso visionario che lavora da solo o in piccoli gruppi collaborativi. 
Nell’elargire questi consigli — talvolta di buon senso, talvolta in nostalgica controtendenza — l’ottuagenario entomologo immune a ogni falsa modestia non resiste alla tentazione di enucleare principi universali su come fare scienza, spesso un po’ speculativi, se non semplicemente banali. Alcuni poi valgono solo nei dintorni di Harvard, tipo: evita gli impegni amministrativi di dipartimento; se l’istituzione dove ti trovi non incoraggia abbastanza la ricerca, spostati altrove. La scienza non è una modalità di conoscenza fra le altre — ripete Wilson — ma «la fonte della civiltà moderna», l’unico sapere davvero universale: come tale, l’epica impresa richiede almeno sessanta ore di lavoro settimanali (e niente riposi prolungati, «i veri scienziati non vanno in vacanza»). In questo monachesimo, lo scienziato ideale di Wilson «pensa come un poeta e solo in un secondo tempo lavora come un contabile». Ogni risposta trovata genera molte nuove domande. 
Di lettera in lettera, si capisce come il mite vegliardo con sessant’anni di ricerche alle spalle sia riuscito a far scoppiare una tempesta di proteste, a metà degli anni Settanta, per aver detto che la natura umana è un insieme di istinti geneticamente definiti e che il nostro comportamento è stato interamente plasmato dalla selezione naturale. Qui però sostiene che il genio non è tanto questione di intelligenza innata, quanto di immaginazione visiva, intraprendenza ed etica del lavoro. Questo nonno scienziato ha saputo anche cambiare idea, fino a ottant’anni, rinnegando antichi convincimenti (e prendendosi così i rimbrotti degli esegeti di inesistenti ortodossie, come Richard Dawkins, che si sono sentiti traditi dal maestro). Non stare mai fermo è il suo modo di fare scienza, da quando cominciò a studiare le infinite «piccole creature che fanno funzionare il mondo». A riprova che l’età mentale non è un dato anagrafico. 

Indagini
Le «Lettere a un giovane scienziato» di Edward O. Wilson sono edite da Raffaello Cortina nella collana «Scienza e idee» diretta da Giulio Giorello (traduzione di Isabella C. Blum, pp. 226). Vincitore di due Pulitzer, 84 anni, Wilson è docente emerito di Biologia a Harvard.

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