martedì 17 dicembre 2013

Kandinsky


Dal folklore russo alla libertà totale delle linee:

il pioniere dell’astrattismo rappresentò il suo universo privato e reagì alla tragedia della guerra

Francesca Montorfano

“Corriere della Sera“, 17 dicembre 2013

La suggestione è fortissima. Ad accogliere i visitatori, nelle sale di Palazzo Reale, è un’esplosione inaspettata di forme e colori, di invenzioni, di motivi lirici e geometrici insieme che paiono muoversi liberamente, quasi fluttuare sul fondo nero dello spazio dipinto, trasmettendo il loro fluido energetico agli e spettatori, coinvolgendoli in un’esperienza unica, sorprendente. La stessa fascinazione che il giovane Kandinsky dovette provare entrando in quelle «case delle meraviglie», in quelle izbe contadine russe dove ogni parete, ogni arredo era decorato con immagini multicolori, facendolo sentire completamente avvolto dalla pittura. 
Ha inizio proprio dai grandi pannelli ricostruiti in occasione dell’apertura, nel 1977, del Centre Pompidou, sulla base dei guazzi ideati da Kandinsky per la decorazione del salone della Juryfreie Kunstausstellung (una mostra che si tenne a Berlino dal 1911 al 1930) questa importante monografica milanese curata da Angela Lampe con la collaborazione per l’Italia di Ada Masoero, ricca di oltre ottanta opere, dipinti a olio, acquerelli, litografie, disegni, provenienti dal prestigioso museo francese, a cui furono donati dalla moglie del pittore, Nina Kandinsky. «Una rassegna di straordinario interesse, che consentirà di seguire l’intera parabola artistica di Kandinsky, nato in Russia, diventato tedesco, morto cittadino francese. Che ripercorrerà quel suo viaggio durato una vita tra le grandi capitali culturali europee, evidenziando quegli stimoli, quegli incontri ed esperienze che in ogni paese hanno contribuito a plasmarne il linguaggio, completandosi e fecondandosi a vicenda, formando “l’accordo di base” della sua poetica — ha sottolineato Angela Lampe —. Sarà l’occasione per rileggerlo in modo nuovo, più organico e completo, dagli inizi della sua attività alle ultime opere, anche quelle meno conosciute, cogliendo la sua straordinaria capacità di rinnovarsi in ogni contesto». 
Ha già trent’anni Vassily quando decide di studiare pittura in Germania, dando inizio a quell’avventura che ne farà una figura di primissimo piano sulla scena dell’astrattismo. Ma anche a Monaco di Baviera come a Berlino o nel piccolo paese di Murnau mantiene i contatti con la madre patria, portando nelle sue opere l’eco delle fiabe medievali e del folklore russo, avvicinandosi alle esperienze simboliste nella ricerca di uno spiritualismo nuovo, di una dimensione più elevata dell’arte, intrecciando musica e pittura, suoni e colori. In un primo tempo affascinato da impostazioni ancora tardo impressioniste e dal decorativismo Jugendstil, Kandinsky inizia ora a dipingere paesaggi a campiture piatte, dai colori vivaci, antinaturalistici, vicini a quelli dei fauves e degli espressionisti. È’ l’inizio di quel percorso che lo porterà alla conquista della libertà più assoluta della linea e del colore, in un progressivo allontanamento dal reale, dalla rappresentazione del dato oggettivo, come in Improvvisazione III del 1907 o in Quadro con macchia rossa, che vede la forma ormai sciogliersi nel colore. Sono questi gli anni in cui insieme a Franz Marc e a Paul Klee dà vita all’avventura del «Cavaliere Azzurro» e scrive «Dello spirituale nell’arte», anni densi di sperimentazioni e di capolavori che traducono in immagini astratte il suo mondo interiore. 
Una fase della sua vita si sta tuttavia concludendo. Russo in terra tedesca, allo scoppiare della guerra Kandinsky deve ritornare in patria, da cui si allontanerà solo nel 1922, invitato da Walter Gropius a insegnare al Bauhaus. La sua pittura si fa adesso più intellettuale, più controllata e rigorosa, mentre la tematica dei colori fondamentali, da sempre al centro della sua indagine, viene studiata in relazione alle forme geometriche del triangolo, del quadrato e del cerchio, diventando l’elemento fondante delle sue opere, di «Giallo-Rosso-Blu» con il suo straordinario dinamismo grafico e i colori primari integrati dal verde, dall’arancione e dal viola, di «Accordo in rosa» o del celeberrimo «Sviluppo in bruno», dove fragili forme triangolari si muovono verso l’alto in uno spazio luminoso tra due masse scure. Ma, con l’arrivo dei nazisti, l’artista è costretto a emigrare di nuovo, a Parigi, ultima tappa del suo viaggio. E nella capitale francese, a contatto con le ricerche dei surrealisti il suo linguaggio si trasforma ancora mentre le sue composizioni si fanno più sciolte, più gaie e animate, lasciando entrare nuove forme biomorfe, schiarendo la tavolozza alla limpida luce parigina. E sarà il poetico «Azzurro cielo» del 1940, con la magia di quel caleidoscopio di forme e animaletti che galleggiano in un mondo sereno, la risposta del pittore alla tragedia di una nuova guerra. 


Con la poesia ha dato voce ai misteri più intimi delle tele

Roberta Scorranese

Tutta l’opera di Vassily Kandinsky è attraversata da un sentimento vivo, riconoscibile, palpabile: l’insoddisfazione. Mai sazio, prese i colori delle sue terre d’origine e ne fece astrazione: punti, linee, superficie. Ma non era ancora abbastanza: l’arte non riesce a riprodurre, diceva, «l’ora più bella delle giornate di Mosca». Non era solo una questione di stile o genere: la pittura, da sola, non era sufficiente a raccontare quel mondo che giocava a dadi con la guerra, con le rivolte sociali. 
E così, quando (esattamente cent’anni fa) Kandinsky scrisse la sua prima raccolta di poesie, la intitolò Suoni perché in lui la sinestesia non era soltanto una forma retorica: era una poetica precisa. Dipingere e scrivere versi, comporre musica o imbastire riflessioni teoriche, erano semplicemente la stessa cosa. 
Siamo nel 1913, l’anno in cui Luigi Russolo firmò il Manifesto Futurista dei Rumori ; l’anno in cui, per la prima volta, Marcel Duchamp utilizzò il termine «ready made» indicando la sua celebre ruota di bicicletta e lasciando sottintendere: questo oggetto non è solo un oggetto, è un oggetto . 
«Una rosa è una rosa è una rosa», scriveva in quell’anno Gertrude Stein nel poema Sacred Emily, traducendo in poesia (appunto) lo spirito di quell’epoca, quando a Vienna soggiornavano sia Hitler che Stalin e il mondo avvertiva di essere sull’orlo di «qualcosa». 
Ecco perché la poesia di Kandinsky non è solo poesia: è, insieme, suono, colore, gesto, linea, punto, superficie. «Sinistra, in alto nell’angolo, un puntolino/ destra, nell’angolo in basso, altro puntolino/ E al centro niente di niente (...)» recita un poema breve. Tre capoversi in cui troviamo un punto, un angolo, un centro e il nulla. Come nelle sue composizioni astratte, dove la materia si decompone in un’inafferrabile costellazione di segni, a volte opposti. 
Ma non solo nelle poesie. Anche nei suoi scritti più squisitamente teoretici (a cominciare dal famoso Lo spirituale nell’arte , terminato in Baviera nel 1910) Kandinsky si esprime in un linguaggio che di per sé è una dichiarazione di intenti: evocativo, poetico. Non è un vezzo: tra i suoi ispiratori, Kandinsky ha citato il pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti e ha stretto amicizia con i poeti simbolisti tedeschi Karl Wolfskehel e Stefan George. Accostando suoni e segni grafici, rumori e figure geometriche, non farà altro che ricreare quella stessa dinamica spirituale che è così presente nel suo lungo lavoro sulla tela. 
«Non volevo altro che creare sonorità», dirà a proposito delle sue raccolte di poesia. Che non si limiteranno alla parola scritta, ma che verranno accompagnate da xilografie (incisioni). Dieci anni prima, nel 1903, aveva realizzato una serie di «Poesie senza parole», piccoli poemi visivi in cui l’artista recuperava la tecnica dell’acquaforte. Il suono è fisico, le figure si ascoltano e i colori prendono forma. 
Ecco il «cuore» della scrittura di Kandinsky, alimentato da quelle stesse «corrispondenze» che attraversavano i versi di Baudelaire e da quelle visioni così precise di Rimbaud. Non è il mondo onirico dei Surrealisti, nè quello «sovversivo» dei Dadaisti. Nonostante questo, in alcune delle serate al Cabaret Voltaire di Zurigo, Hugo Ball scelse di leggere alcuni versi dell’artista che «cercava il suono». 


Gli amori inquieti di un borghese noioso
Che alla fine scelse la «brava moglie»
Nina, più giovane di 34 anni, lo assecondava e si godeva la mondanità

Francesca Bonazzoli

Più sensibile alle nevrosi di un borghese esemplare che a quelle di un artista d’avanguardia, Kandinsky teneva lo studio in ordine e pulito come la sua persona sostenendo che «Sopportare la sporcizia nel proprio atelier dimostra il cattivo gusto di un pittore. Io potrei dipingere in smoking». 
Non s’interessava di politica e si vantava di non leggere i giornali; era religioso quanto basta per santificare le feste e fu sempre molto superstizioso. Alle feste del Bauhaus non ballava mai, ma si compiaceva dell’eleganza della giovane moglie. Era insomma un tipo piuttosto noioso, tranne che, inaspettatamente per tale personalità, nella vita sentimentale. Ebbe infatti due mogli e un’amante che visse con lui more uxorio prima del divorzio. E dire che la vicenda della scandalosa Anna Karenina era stata scritta solo dieci anni prima della nascita di Kandinsky, venuto al mondo nella Russia ancora zarista. 
La prima moglie si chiamava Anja Cimiakin ed era la figlia della zia presso cui Kandinsky andò ad abitare durante gli studi di scienze economiche e diritto a Mosca. Anja era colta e intelligente e frequentava l’Università come libera auditrice poiché le donne che seguivano i corsi regolari erano rare e considerate eccentriche. Sposò Kandinsky nel 1892 ed era pronta ad appoggiare la carriera del marito cui, nel 1896, fu offerto un incarico di professore. Senonché i progetti di Vassily erano nel frattempo cambiati: aveva deciso di trasferirsi a Monaco con l’intenzione di dedicarsi all’arte. 
A trent’anni, dopo dieci di studio del diritto, ritornava sui banchi di una scuola di pittura privata e poi si iscriveva all’Accademia nella classe di Franz von Stuck. Nel 1901, dopo aver terminato gli studi, fondò l’associazione Phalanx con lo scopo di offrire occasioni espositive ai giovani artisti e corsi anche per le donne. È così che entra in scena Gabriele Münter. La giovane allieva diventa la compagna dell’artista e pare che Anja abbia reagito dicendo a Kandinsky: «Sono sicura che non sarai felice con Gabriele. Comincia col vivere insieme a lei e se continui a credere che questa donna sia fatta per te, ti darò il divorzio». 
Anja lo concesse solo nel 1911, ma aveva visto bene. Nel frattempo Wassily e Gabriele, per salvare le apparenze della loro relazione more uxorio , viaggiarono molto e comprarono una casa nelle Alpi bavaresi, a Murnau dove Kandinsky gettò le fondamenta dell’almanacco Blaue Reiter, concepito come un veicolo di guarigione, esorcismo e salvezza, intraprese la via dell’astrattismo e scrisse il manifesto Lo spirituale nell’arte . La relazione con la volitiva Gabriele procurò però al pittore molte tensioni al punto che dovette farsi ricoverare in una clinica svizzera, ma lei si ostinava a non interrompere la relazione. Ci penserà la guerra: nel 1914, Kandinsky fu obbligato a lasciare la Germania entro 24 ore. La coppia partì portando con sé anche Anja, ma Gabriele non li seguì fino a Mosca e solo l’anno dopo rivide Vassily a Stoccolma, per l’ultima volta. Nella vita dell’artista stava per entrare un’altra donna: Nina von Andreevskij, aristocratica, giovanissima (16 anni lei, lui 50), finalmente perfetta per il borghese Kandinsky. «Una donna che ama davvero un uomo deve saper mandare avanti la casa e cucinare bene: deve scomparire davanti a lui ed essere disposta a fare molte concessioni per permettergli di sviluppare il suo lavoro senza problemi. È quello che ho fatto: ecco perché abbiamo formato una coppia felice», così Nina si descrisse nell’autobiografia. 
Si comportò da brava moglie, assecondando tutte le decisioni del marito, godendosi la vita mondana che lui le offriva, ma senza tramare, come faceva invece Alma Mahler. Si occupò di tutte le noie e le incombenze economiche e lui la ricompensò con l’appellativo di «il mio ministro degli Interni». 
Dopo la morte del marito visse altri trentasei anni a Parigi e fu uccisa nella tranquilla cittadina svizzera di Gstaad. Secondo Pontus Hulten, l’allora direttore del Beaubourg, forse le fu fatale una debolezza del suo animo russo: la passione per i gioielli, luccicanti e trasportabili in caso di fuga. Eventualità, questa, ben conosciuta da Nina e Kandinsky che, pur non essendo ebrei, avevano dovuto fuggire da un angolo all’altro dell’Europa devastata da guerre e rivoluzioni nel secolo appena trascorso. 


Schönberg, le note e le parole: storia di un’amicizia bruciata

Enrico Girardi

Finisce male, perché non appena inizia a sentirsi guardato a vista, come ebreo, Arnold Schönberg affila armi dialettiche che dire pungenti è poco. E spara nel mucchio, spara all’impazzata, anche contro nemici che tali sono solo nella sua immaginazione. E così compromette definitivamente, se non una vera amicizia, un rapporto di collaborazione con Vassily Kandinsky, che era iniziato nel migliore dei modi e che avrebbe potuto produrre ulteriori e significativi esiti. 
Si stenta a crederlo ma il destinatario/bersaglio di due lettere dure, ostili, che il compositore viennese scrive nel 1923 è proprio il pittore: «Se Lei accetta di porgere i miei saluti al mio ex amico Kandinsky — gli dice congedandosi —, Le affiderei molto volentieri l’espressione della più viva cordialità». E in un altro passo: «Della [Sua] benevolenza nei miei confronti non saprei che fare, neppure se volessi scriverla su una lavagnetta come un mendicante cieco e agganciarmela sul petto in modo che tutti possano leggerla. Un Kandinsky non dovrebbe rifletterci sopra? Può un Kandinsky condividere le opinioni degli altri (dei tedeschi, ndr ) piuttosto che le mie?». D’altra parte non sarebbe corretto interpretare la durezza di Schönberg senza tener conto che pochi mesi prima era stato invitato a sloggiare, perché ebreo, dalla località di villeggiatura dove si era ritirato a comporre. Da quel momento, chi non si schierava a difesa degli ebrei, per lui diventava un nemico. Kandinsky non meno degli altri. Che i due però fossero destinati ad avere a che fare l’uno con l’altro, era nelle cose. Mentre il pittore esponeva le sue rivoluzionare teorie pittoriche e l’estetica che vi soggiaceva, il musicista andava elaborando il metodo di scrittura atonale. Entrambi inoltre avevano subito il fascino del simbolismo e dello spiritualismo. Entrambi conoscevano e avevano apprezzato il lavoro e il pensiero di Aleksandr Skrjabin, il musicista che aveva associato le note ai colori secondo un vocabolario emotivo tutto suo. 
E mentre Koussevitzky, ammiratore entusiastico di Skrjabin, ne dirigeva le composizioni a Vienna, presente Schönberg, Kandinsky ne divulgava le teorie a Monaco presso la sua cerchia di artisti. Tra questi, Thomas von Hartmann che insieme al «maestro» tentò la fusione suono-colore nel dramma «Der gelbe Klang» (Il suono giallo), da cui Schönberg rimase affascinato. Così, nel 1912, quando uscì l’Almanacco del gruppo, chiamatosi nel frattempo «Der blaue Reiter» (Il cavaliere azzurro), Schönberg, più giovane di Kandinsky di 8 anni e pittore a sua volta, fu invitato a collaborare. L’Almanacco conteneva pure un saggio di Hartmann sull’anarchia in musica e un articolo sul Prometeo di Skrjabin. Insomma, il tema del rapporto tra suono e colore era nell’aria. In più di una occasione, Schönberg espose le proprie tele con i pittori della cerchia, ricevendo da Kandinsky elogi e l’esortazione a continuare nella pittura. 
Di tutto ciò l’eco più tangibile è infine nel lavoro di teatro musicale «Die glückliche Hand» («La mano felice»), un atto unico che Schönberg compose negli anni 1910-13 su libretto proprio e che è pervaso da una vena simbolista-espressionistica ancor più marcata che nella precedente «Erwartung». 
Qui, per la prima volta nella musica occidentale, i colori sono scritti sulla partitura, sopra le note. La partitura reca cioè indicazioni sui colori che, attraverso l’uso delle luci, devono dominare ogni scena: il nero per la notte e la morte, il giallo per la lotta e l’attività, il blu per la felicità, il verde per la distruzione e l’annientamento. 
Ma come era iniziata quell’amicizia poi rinnegata? Con un scambio di libri: omaggiato di una copia di Dello spirituale nell’arte, il musicista aveva ringraziando inviandogli il suo rivoluzionario Trattato d’armonia


Kandinsky che liberò il colore dalla realtà

Fabrizio D’Amico

“La Repubblica“, 17 dicembre 2013

Ogni incontro con l’opera di Vassily Kandinsky – come quello della mostra che apre oggi a Milano (al Palazzo Reale, a cura di Angela Lampe e Ada Masoero, fino al 27 aprile 2014) con un centinaio di opere in arrivo dal Centre Pompidou di Parigi – è denso di una sorta di rassicurante emozione; e appaga, come pochissimi altri incontri con la pittura moderna sanno fare, il nostro bisogno di possedere una certezza, il nostro desiderio d’assoluto. Ed è del tutto comprensibile e quasi ovvio che questo sentimento di pienezza discenda da uno degli uomini che all’arte visiva hanno donato per primi quella dimensione astratta, libera dal vincolo dell’imitazione, nella quale s’è per lo più riconosciuta, nel XX secolo, la possibilità di toccare – appunto – un termine assoluto.
È molto più singolare il fatto che a donarci quel sentimento d’appagamento, di confidenza, di fiducia sia stato l’artista che ha dubitato a lungo, e per tutta la sua stagione più alta, della verità di quel termine che aveva saputo raggiungere. Fu lo stesso Kandinsky, infatti, che, scovata per primo la gioia insita nella nuova libertà, avrebbe scritto (con intuizione se possibile ancora più profonda) che fra “grande astrazione” e“grande realismo” non poteva correre una gerarchia, ma solo, a orientare infine la scelta, doveva intervenire “il desiderio interiore dell’artista”.
Parole che ci vengono proprio da colui che aveva indirizzato infine il suo “desiderio” verso una totale indipendenza dal referente di natura: quando, dopo aver a lungo cercato la sua immagine in unterritorio di confine tra una forma interamente astratta e un’altra densa ancora di memorie figurali, aveva scelto infine per sé la definitiva «possibilità di non vedere negli oggetti soltanto la loro pura e dura materialità, ma anche ciò che è meno corporeo». I suoi spazi, da allora in poi – almeno per tutti gli anni Dieci, che sono i suoimaggiori – vorticanti, battuti da un vento che travolge ogni sintassi conosciuta, folgorati da un colore acceso, gioioso, imprudente (che fa adesso tesoro di Matisse assai più delle conquiste del primo espressionismo tedesco, da cui pure proveniva), sono un momento indimenticabile nella vicenda delle avanguardie d’inizio secolo: per quella capacità che egli ebbe di dar figura a quel groppo unito di sensi e di pensieri, di sogno e di urgenze esistenziali, che chiamò “lo spirituale dell’arte”, e che è il modo in cui tutte le ragioni della vita, e non solo le più nitidamente oggettivabili, si danno compresenti nell’immagine.
Arrivò con singolare ritardo a quel suo modo perfetto: nato nel 1866, era stato allievo e poi docente nella facoltà di Legge dell’università di Mosca prima d’essere folgorato, nel 1896, ad una mostra impressionista, da un quadro di Covoni di Monet, in cui – dirà – gli sembrò di scorgere la scomparsa dell’oggetto raffigurato, annegato nella luce. È il primo incontro determinante con la pittura, e Kandinsky ha allora già trent’anni. Il decennio che segue è ancora un laboratorio, nel quale egli cerca anziché trovare: si trasferisce a Monaco, dove studia pittura con Franz von Stuck, espone nell’ambito di un’associazione da lui stesso fondata, incontra e si lega a Gabriele Münter, che gli sarà a lungo compagna e con la quale si reca infine a Parigi nel 1906, trattenendovisi un anno e conoscendovi tra gli altri Picasso e Matisse. Sono questi il luogo e l’anno decisivi: a far gemelle le due strade di Monaco e Parigi sta allora un concetto, quello di “sintesi”, che, d’eredità simbolista, è il pensiero cruciale che traversa e assilla l’arte deltempo: “sintesi” che dalla Brücke(prima formazione espressionista tedesca), a Jawlensky (già compagno di Kandinsky) e Marc, a lui stesso, si identificherà di fatto con una “semplificazione” della realtà da riprodurre sulla tela. Ridurre la realtà «a una sensazione dell’essenza delle cose», secondo quanto scriverà nel 1911 Gabriele Münter, diviene allora il suo obiettivo; toglierle la sua scorza di casuali accidenti, i suoi orpelli di canonica bellezza, e renderla, insieme, più nuda e più ricca di verità profonde, che lo sguardo non riesce a riconoscere nel mondo delle cose, e cerca altrove. Vive adesso fra Monaco e Murnau, una campagna dove Gabriele ha acquistato una casa, e lì dipinge piccoli quadri dove il paesaggio s’incanta di cento, accesi colori: «prati di azzurro stoviglia, giallo limone, rosa caramella; casette di zolfo con le finestre turchine; laghi blu di Prussia; montagne violette picchiettate di nero; cieli verdi e gialli come banane; boschi azzurri e staccionate arancioni», ha scritto su queste stesse pagine, tanti anni fa, Giuliano Briganti. La mostra d’oggi a Milano muove di qui: da questa eccitazione felice che, se non era proprio accademia – dopo Gauguin, i Fauves e gli espressionisti della Brücke – non era certo avanguardia. Ma Kandinsky, che aveva allora compiuto i quarant’anni, incubava altro: e subito dopo fece il passo che sarebbe stato decisivo per sé e per la pittura occidentale. Oggi esposto, Improvvisazione IIIè un gran quadro del 1909 in cui tutto sembra arrestarsi per miracolo in un bilico slittante fra racconto, lontane memorie di favole russe e autonomia del colore, che è infine il vero demone dell’immagine. Poco dopo la composizione “dimentica” del tutto la realtà di natura, e si fa integralmente astratta: è il 1911, l’anno in cui Kandinsky fonda con Marc il “Cavaliere azzurro” («entrambi amavamo l’azzurro, Marc i cavalli, io i cavalieri. Così il nome venne da sé»), conosce Paul Klee, e ascolta a Monaco la musica di Schönberg, con il quale inizia un lungo e profittevole rapporto d’amicizia. Nel ’14 rientra in Russia, e prosegue la sua stagione ove domina lo “spirituale”, fintanto che nel ’17, sorprendentemente, torna ad affacciarsi per breve tempo una figuratività fauve.
Poi l’incontro con il costruttivismo, benché foriero di dissapori con i suoi protagonisti, orienta Kandinsky a una maggiore geometrizzazione delle sue forme, nelle quali dai primi anni Venti (quando è chiamato da Gropius ad insegnare al Bauhaus) predominano la linea diritta, il cerchio, il triangolo, con influenze talvolta marcate di Klee. Con il pittore svizzero i rapporti rimangono intensi, almeno fin quando Klee non lascia il Bauhaus, mentre Kandinsky vi rimane sino alla chiusura della scuola imposta dal nazismo nel ’33. Kandinsky si trasferisce allora Parigi, dove vive circondato da un solido prestigio ma di fatto sempre più isolato. Muore nel ’42, quando la guerra è ancora in corso. L’attende una fama universale.

Quadri e teoria
Quando l’artista sapeva scrivere

I manifesti delle avanguardie che hanno segnato l’inizio del Novecento

Giuseppe Dierna

Con l’inizio degli anni Dieci del Novecento si affaccia in pittura un nuovo tipo di artista che denuncia ormai come limitativo il semplice agire con tavolozza e pennelli. Serve la teoria. Si comincia col Manifesto dei pittori futuristi (seguito, da lì a poco, dal loro Manifesto tecnico), ma è l’uscita nel 1911 dello Spirituale nell’arte di Vassily Kandinsky a segnare il discrimine. Quello che vi si prospetta non sono infatti solo notazioni tecniche o provocatorie, ma un più ampio discorso che vede le arti tutte legate assieme: un’intera filosofia. E l’anno successivo l’ulteriore mossa: due pittori, lo stesso Kandinsky e Franz Marc, danno alle stampe a Monaco l’almanacco Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), dove chiamano a collaborare ancora artisti figurativi: i russi Nikolaj Kulbin e David Burljuk (futuro firmatario dei primi manifesti futuristi russi), e August Macke, e Arnold Schönberg, all’epoca ancora pittore di taglio espressionista.
Kandinsky spiegherà le ragioni di quel gesto: «Marc e io c’eravamo buttati nella pittura, ma la pittura da sola non ci bastava. Ebbi allora l’idea di un libro sintetico che […] dimostrasse che il problema dell’arte non è un problema di forme ma di contenuto spirituale». L’artista diventa critico e divulgatore, organizzatore culturale (sono infatti i due redattori ad approntare le due mostre delCavaliere azzurro). E a marcare l’affermarsi di una diversa concezione, quando a Matisse fu chiesto di collaborare all’almanacco con un breve articolo, egli rifiuta: «Per scrivere — afferma — bisogna essere scrittori».
Altra visione.
Avviene così un fatto bizzarro.
Proprio nel momento in cui si sostiene — col pennello — la più totale autonomia del fatto pittorico, negando il soggetto e aspirando alla pura astrazione, alcuni pittori sentono l’ineludibile bisogno di accompagnare le loro pratiche con annotazioni teoriche esplicative che — come in Kandinsky — arrivano fino all’elaborazione di complesse teorie.
Si scrive con intenti diversi. Per sistematizzare gli spostamenti della propria concezione artistica, come farà ancora Kandinsky col successivo Punto e linea nel piano (pubblicato nel ‘26 nella collana dei «Libri del Bauhaus», accanto ai volumi di Paul Klee), e come il raggista Michail Larionov (presente, con Natalija Goncarova, alla Seconda mostra delCavaliere azzurro)che — ormai in Russia — difende nell’opuscoloRaggismo quella sua idea di una pittura che scaturisca «dall’intersezione dei raggi riflessi da oggetti diversi».
Per Malevic, altro reduce di quella Seconda mostra, è invece come se, giunto colQuadrato neroal grado zero della pittura («mi sono trasformato nello zero delle forme», scrive a Pietroburgo nel ‘15), lui dovesse in qualche modo riempire di teoria quel vuoto, anche se la linearità dell’esposizione non sembra affatto il fine a cui mira. Scriverà più tardi: «sembra provato che col pennello non si riesce ad ottenere ciò che invece si può con la penna».
E, accanto a quest’ansia di precisazione teorica, c’è nei vari Kandinsky, Chagall e Malevic anche un desiderio di immettere il loro sapere nei rinnovati canali della didattica. Li ritroviamo così a insegnare nelle scuole d’arte ristrutturate dopo il ‘18 all’ombra del Commissario alla cultura A. Lunacarsky.
Kandinsky stilerà anche il Programma per l’Istituto di Cultura Artistica di Mosca, che — benché non approvato per «eccesso di spiritualismo» (l’Istituto sta entrando nel dominio costruttivistico di Rodcenko) — giungerà nelle mani di Walter Gropius che sta mettendo su a Weimar il suo Bauhaus, dove il pittore passerà subito a insegnare.

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