giovedì 12 dicembre 2013

Eroi. Perché il mondo ha bisogno di quegli uomini speciali


La figura di Nelson Mandela riporta d’attualità
 la questione dell’influenza delle singole personalità sul corso degli eventi storici

Marco Revelli

“La Repubblica”, 12 dicembre 2013

Le loro biografie narrano delle discese agli inferi prima dell’ascesa al cielo, 
delle cadute nella polvere prima della salita agli altari
Personaggi che con le loro straordinarie virtù individuali mostrano l’estensione dei vizi collettivi. E finiscono così per rappresentare l’infelicità pubblica

«Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi…». Anzi, per usare l’espressione originale, «Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi». È la frase che Bertold Brecht, nella Vita di Galileo, fa dire al grande scienziato – uno dei padri della nostra modernità – , subito dopo l’umiliante abiura di fronte al Tribunale dell’Inquisizione, in risposta all’“ingenua” osservazione del suo interlocutore, Andrea Sarti, il quale, deluso, aveva definito «sventurata la terra che non produce eroi». E non è una semplice autodifesa. È, in fondo, una delle più ficcanti rivelazioni della natura nuova dell’“eroe moderno”. Il quale, a differenza dell’eroe antico, o dell’eroe “classico” che con l’assurgere all’eternità della gloria rivelava un pieno della storia, ne mostra invece un vuoto. Non un punto alto (di apoteosi), ma un punto basso (di caduta). Portando alla luce una doppia infelicità. O una doppia miseria.
Un’infelicità storica, in primo luogo, come rivela il senso più esplicito dell’osservazione (un po’ banale) di Andrea, che intendeva alludere, evidentemente, a una condizione quasi disperata se solo un “eroe” – una figura straordinaria – può «riscattare l’umanità umiliata ». E in effetti, disperata doveva essere la condizione del popolo nero del Sudafrica, se fu necessaria la forza morale e fisica di un Mandela per trarlo dal pozzo in cui giaceva. Così come disperata doveva essere la condizione della Roma papalina cinquecentesca, se fu necessario il rogo di Giordano Bruno – quello che, contrariamente a Galileo, non abiurò – per dare il segno di una rivoluzione mentale. E, per venire alla nostra storia nazionale, ben infelice doveva essere la condizione nell’Italia pre-risorgimentale, se furono necessari uomini che offrirono le proprie sofferenze e la propria stessa vita in “sacrificio” per disincagliare la Storia che si era arrestata (tali sono gli eroi del nostro Pantheon, da Amatore Sciesa ai Martiri di Belfiore, dai fratelli Bandiera a Carlo Pisacane, fino a Mazzini e a Garibaldi, che se non morirono comunque patirono).
L’“eroe moderno”, prima di diventare tale, è stato un reietto. La sua biografia narra di unadiscesa agli inferi prima dell’accesso al cielo. Di una caduta nella polvere prima della salita agli altari, come se appunto la Storia pretendesse non solo le proprie vittime sacrificali per emendarsi dalla propria miseria, ma anche i simboli viventi della propria mutevole (ma alla fine in qualche caso trionfante) Giustizia. Sotto questo aspetto l’esempio di Nelson Mandela è perfetto: terrorista, proscritto, galeotto, prima di diventare materia di orazione funebre dei cosiddetti Grandi della Terra. Figura terribilmente “divisiva”, diremmo oggi, prima di unire nel proprio nome i rappresentanti di quelle stesse Cancellerie che fino a un ventennio prima l’avevano classificato tra i peggiori nemici pubblici.
Vi è poi, però, un secondo tipo di “infelicità” pubblica che l’eroe moderno è chiamato a rivelare. Un’infelicità – meglio una “miseria” – che potremmo definire morale perché quasi sempre queste figure dell’eccezionalità finiscono per mostrare – e misurare –, con le proprie virtù solitarie, l’estensione dei vizi collettivi. Sono uomini – e donne – che marciano “in direzione ostinata e contraria” (come canta De André) rispetto ai loro compatrioti. Questa è in fondo la sciagura delle terre che “hanno bisogno di eroi”: la mediocrità morale del conformismo di massa, resa visibile dalla testimonianza delle poche mosche bianche. Ed in ciò esemplare è la nostra vicenda nazionale. Pressoché tutti gli eroi nazionali novecenteschi appartengono alla striminzita schiera dei “pochi pazzi” che devono, in modo ricorrente, rimediare ai guasti dei “troppi savi”, come scrisse Francesco Ruffini, uno dei 12 professori che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo, salvando così almeno un brandello di dignità dell’Università italiana.
Si pensi, a questo proposito, a un titolo come L’intellettuale come eroe (di Marco Gervasoni), riferito a Piero Gobetti, interprete esemplare di questo ruolo rivelativo dell’“eccezione”. E a quel vero e proprio testamento precoce gobettiano che è l’Elogio della ghigliottina (1922) dove l’allora ventunenne torinese destinato alla morte in esilio scriveva: «siamo sinceri fino in fondo, io ho atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle nostre sofferenze rinascesse uno spirito». O si leggano, le pagine splendide di Un eroe borghese, l’onore reso da Corrado Stajano alla memoria dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il silenzioso servitore dello Stato chiamato a liquidare la banca di Michele Sindona e assassinato dalla mafia politica l’11 luglio del 1979. Apparteneva alla piccola schiera di quelli che continuano testardamente a tener fermo il proprio dovere in un contesto di diffusa e prevalente corruzione, servilismo, illegalità. Come, dopo di lui, faranno (e pagheranno nello stesso modo) i giudici Falcone e Borsellino o il generale Dalla Chiesa, per fare solo i casi più ricordati.


A ben guardare, pressoché tutti gli “eroi civili” della nostra storia repubblicana sono morti in solitudine. Anzi, sono morti di solitudine. Ed è questa la ragione per cui la “figura eroica” dovrebbe, presso di noi che ci portiamo addosso questo peso, più che stucchevoli esercizi di retorica, sollecitare penosi esami di coscienza.



La funzione sociale del mito nella tradizione classica
Vite sospese tra cielo e terra

Maurizio Bettini

A essi si dedicava un culto come agli dei. Erano legati ad attività come il combattimento, la medicina, l’atletica la divinazione. Sovrintendevano al passaggio di età degli adolescenti, rappresentavano mestieri e professioni

Quando parlavano di eroi, i Greci li inserivano in una scala discendente: prima venivano gli dèi, poi gli eroi, infine gli uomini. Li definivano anche “semidei”, proprio per sottolineare questa loro posizione né divina né umana: a volte erano figli di un dio e di una donna, altre volte erano semplicemente uomini (guerrieri, fondatori) che dopo la morte erano assurti al rango di eroi per una certa comunità. Ad essi si dedicava un culto, come agli dèi, anche se ricorrendo a rituali diversi da quelli usati per onorare la divinità. Ma qual era il ruolo esercitato dagli eroi? In genere avevano connessione con una sfera particolare della cultura: erano legati al combattimento e all’atletica, si occupavano di divinazione e di medicina, sovraintendevano ai passaggi d’età degli adolescenti; oppure avevano fondato città, rappresentavano mestieri e professioni, erano capostipiti di famiglie illustri. Questa era la funzione sociale degli eroi, per dir così. Ma che genere di personaggi erano?
Si potrebbe pensare che incarnassero un ideale di assoluta perfezione – erano eroi dei Greci, i creatori della “kalogathía”, l’unione fra bellezza e bontà: che altro avrebbero potuto essere se non splendidi esempi di virtù e bellezza? Così in effetti hanno voluto vederli generazioni di studiosi e cultori dell’Ellade, e così essi continuano ad apparire nella percezione comune. Eppure già Angelo Brelich, straordinario studioso, aveva dimostrato che le cose stavano diversamente. Proviamo a prendere il più celebre fra gli eroi greci, Eracle. Egli fu certo un civilizzatore, che con le sue leggendarie fatiche ripulì il mondo dai mostri che ancora lo infestavano: ma fu anche noto per essere un mangione, un ubriacone, un violentatore di donne, e infine un pazzo che, nella sua follia, distrusse la propria famiglia. E Teseo? Anche lui uccisore di mostri e fondatore di una città come Atene, anche lui però tutt’altro che irreprensibile: visto che abbandonò su un’isola deserta Arianna, la donna che tradendo patria e famiglia lo aveva fatto uscire dal labirinto. Per non parlare di Giasone, il quale non si fece scrupolo di abbandonare Medea (anche lei sua salvatrice) semplicemente per contrarre un matrimonio migliore; o di Issione, che tentò di violentare una dea, Era, o di Tieste che violentò direttamente la propria figlia. E questo per quanto riguarda la virtù. Se si passa al piano della bellezza, poi,si scopre che gli eroi greci non sono tutti belli come Achille, ma possono essere affetti da gravi difetti fisici. Ve ne sono di giganteschi, e fin qui niente di strano, ma anche di nani. Lo stesso Eracle a volte è rappresentato alto “come un dito”. C’erano poi eroi zoppi, come Edipo, il “piede gonfio” che per giunta aveva i capelli rossi, un tratto fisico poco apprezzato dai Greci. Altri sono invece caratterizzati dall’avere membra di animali – come Cecrope, per metà serpente – oppure dal soffrire di sessualità smodata o di impotenza, così come sono esistiti eroi balbuzienti, gobbi, senza testa, perfino con il cuore peloso. Troppo spesso lontani da quei canoni di perfezione a cui spontaneamente vorremmo riferirli, gli eroi greci costituiscono una vera e propria sfida alla nostra comprensione.
Impossibile negare, infatti, che a dispetto di un’inarrestabile tendenza alla violenza – e nonostante le proprie deformità fisiche o morali – gli eroi costituiscono una presenza fondamentale all’interno della cultura greca. Essi non sono soltanto i meravigliosi personaggi dei racconti mitologici, ma stavano alle base della pratica religiosa, e quindi della vita sociale, di moltissime comunità, che attorno al proprio eroe si raccoglievano per onorarlo e chiederne la protezione. Perché dunque rappresentarlo a quel modo? Che cosa staranno a “significare” quei connotati mitici di violenza, prevaricazione, deformità? Per trovare una risposta a questa domanda occorre evitare di concentrarsi su questo o quel tratto dell’eroe, per osservare piuttosto il complesso della sua carriera. Che è marcata sì dall’omicidio o da altre azioni riprovevoli, ma anche da prove di carattere sovrumano, che egli supera accrescendo così i propri meriti e la propria gloria - salvo restarne a volte schiacciato, suscitando all’opposto dolore e compassione. Soprattutto però è sulla conclusione della sua carriera che deve cadere il nostro sguardo: una fine tragica, attraverso la quale si realizza l’effettivo passaggio alla condizione “eroica”. Ci accorgeremo così che personaggi come Eracle o Edipo ci mettono di fronte a un’esperienza ambigua e complessa, marcata da gloria e dolore, grandezza e miseria: proprio come avviene in qualsiasi vicenda umana che abbia i caratteri dell’eccezionalità. O almeno, questo sembrano aver pensato i Greci.


Eroi

 W. H. Auden

L’eroe è un individuo eccezionale che possiede un’autorità sull’uomo comune. Quest’autorità può essere di tre generi: etica, estetica e religiosa. L’eroe etico è colui che in ogni momento riesce a capire più degli altri. L’eroe estetico è l’uomo cui la fortuna ha concesso doni eccezionali. L’eroe religioso si dedica a qualcosa che per lui è la verità assoluta. L’eroe si riconosce in base all’interesse che suscita nello spettatore o nel lettore. Uno studio comparativo dei diversi tipi di individuo che scrittori di vari periodi hanno scelto come eroe offre spesso degli utili indizi sugli atteggiamenti e le preoccupazioni di ciascuna epoca. Perché l’interesse dell’uomo si focalizza sempre, consciamente o inconsciamente, su ciò che gli sembra il problema più importante e ancora irrisolto. L’eroe e la sua storia sono al tempo stesso una formulazione e una soluzione del problema.

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