lunedì 4 novembre 2013

Qualcosa è cambiato nel cuore di Istanbul


Ecco chi sono oggi i giovani e i meno giovani della rivoluzione Taksim

Paolo Giordano

"Corriere - La Lettura",  3 novembre 2013

Mancano pochi giorni al 29 ottobre e sulle strade principali di Istanbul, appesi in alto, a fili che formano uno zigzag interminabile, ondeggiano al vento centinaia di stendardi biforcuti con la stella solitaria e l’unghia sottilissima di luna su sfondo rosso, che fanno della bandiera turca una delle più poetiche al mondo. Il volto fiero di Atatürk domina dalla facciata di un palazzo la piazza Taksim. Il padre della patria attende di vedere i cortei, lo sguardo glaciale proteso verso l’infinito e l’espressione dolente e fiduciosa di sempre. La Festa della Repubblica verrà celebrata in pompa magna, come vuole l’orgoglio nazionalista del Paese e secondo l’inclinazione alla megalomania del governo in carica e del suo leader, Recep Tayyip Erdogan. Ma qualcosa è cambiato nello stomaco della città. 
«Sì, qualcosa è cambiato», afferma con convinzione S., una trentaduenne con la montatura degli occhiali sbarazzina e l’aria più newyorchese che turca. S. lavora nell’editoria, insieme al suo capo e unico collega che ora le siede accanto e con il quale giura di non avere una relazione sentimentale: «Dopo Gezi Park sappiamo che esiste una generazione con gli occhi sbarrati, che valuta ogni mossa del governo e d’ora in poi non lo lascerà libero di comportarsi come vuole». Poi, però, distoglie lo sguardo e ammette la propria debolezza: «Non sono andata a manifestare. La folla mi spaventa. Non solo i poliziotti, ma così tante persone radunate... può succedere di tutto». 
In occasione della ricorrenza del 29 ottobre, il premier turco inaugurerà l’ultima delle opere faraoniche di cui si è fatto promotore, il Marmaray, un tunnel scavato a sessanta metri di profondità sotto il Bosforo, dentro il quale viaggerà un treno della metropolitana, il passo successivo nel congiungimento di Asia ed Europa. «Non ci salirò mai» promette la ragazza dell’editoria e il suo collega e capo annuisce con la testa (se anche non condividono una relazione sentimentale e lei non ne desidera una, è evidente che lui non la pensa allo stesso modo). Insieme si lasciano andare a una fantasia: «Pensa se il primo ministro e il presidente restassero bloccati nel loro tunnel durante il viaggio inaugurale». «Vivi?» «Certo, vivi, per carità. Però chiusi là dentro per qualche mese, ad arrangiarsi». 
L’ironia, l’immaginazione divertita, il romanticismo e l’ingenuità sono stati il contrassegno della protesta di Gezi Park. A cominciare dal suo proposito iniziale: la salvaguardia di qualche decina di alberi nel centro città di Istanbul. Il 28 maggio scorso, quando il governo ha annunciato l’avvio dei lavori per il rinnovo del parco Gezi — rinnovo che prevedeva innanzitutto di radere al suolo i platani e il resto della vegetazione e di scavare una buca profonda per le fondamenta di Dio solo sa cosa, forse un centro commerciale —, una cinquantina di persone, per lo più appartenenti a gruppi ambientalisti, si sono riunite spontaneamente nell’area verde e si sono opposte all’ingresso delle ruspe. Il giorno dopo il numero è raddoppiato e la terza sera erano più di cinquecento, tanto che gli ambientalisti credevano che si trattasse dei ragazzi diretti al concerto di Rihanna. I dimostranti sono cresciuti nelle settimane successive in proporzione geometrica e il dissenso ha contagiato rapidamente le altre città, da Ankara a Smirne, da Antalya a Bursa.
La reazione veloce e non commensurata del governo — un governo che ha in cima alla sua agenda il riconoscimento della propria lungimiranza da parte dell’Occidente — ha sbalordito il mondo: dopo avere ordinato lo sgombero, la polizia ha attaccato i manifestanti con lanci massicci di gas lacrimogeno e con le pompe idranti. Nel cuore della neutralissima Turchia sono state innalzate barricate di ferraglia e per aria sono volati sassi e bottiglie molotov: oltre una settimana di guerriglia non preparata, non annunciata, che ha portato morti e feriti e alla quale sono seguite altre ricadute sporadiche. 
Fin da subito i media locali sono stati opportunamente azzittiti, chi osava coprire l’evento veniva allontanato o addirittura arrestato con motivazioni esili, al punto che la Cnn turca, il secondo giorno di scontri, mandava in onda un documentario sui pinguini mentre gli occhi del pianeta erano fissi sulla lacerazione di Istanbul. I dimostranti hanno ribaltato lo slancio di autoritarismo con una leggerezza che gli scontri di piazza non conoscevano fino ad allora: hanno eletto a proprio simbolo la sagoma del pinguino della Cnn, coprendogli il viso con una maschera antigas, hanno coniato slogan irridenti ma per nulla offensivi — «Mi fate venire le lacrime agli occhi!», «Ne vuoi altri tre come me?» (riferendosi all’insistenza espansionistica del governo sulla necessità di generare almeno tre figli) — e hanno perfino ballato sotto il getto impetuoso degli idranti. Per molti si trattava della prima protesta della vita, specie per i più giovani, già bollati dalle generazioni precedenti come apolitici / disinteressati / globalizzati / figli del consumismo / bambocci / çapulcu ovvero vandali e che, al contrario, hanno dimostrato di possedere non solo un amor proprio, ma il gene specifico codificante la dissidenza, occupando una piazza e inscenando una protesta che ha ottenuto immediato risalto mondiale. 
Piccole sacche di malcontento che prima erano parcellizzate e invisibili le une alle altre — gruppi di ecologisti, associazioni per i diritti degli omosessuali, minoranze etniche, partiti di sinistra relegati ai margini, singole persone preoccupate e soprattutto ragazzi che si sentivano trattati con eccessiva degnazione — si sono unite per proteggere degli alberi, con la stessa delicatezza perentoria con cui le sorelle Lisbon abbracciavano l’olmo del loro cortile per evitarne l’abbattimento, nel film Il giardino delle vergini suicide . I dimostranti di Gezi Park si sono accorti, contandosi, che le cose non andavano bene come credevano (o forse andavano molto meglio), che qualcuno li aveva ingannati: gli era stato dato motivo di credere che ognuno di loro fosse il solo a sentirsi escluso dal grande miglioramento collettivo. Non era così. 
È quasi impossibile sintetizzare in un profilo unico un’umanità composita come quella che a maggio affollava piazza Taksim. Ma, se si provasse, verrebbe fuori una sorta di supergioventù dalla faccia pulitissima, attenta ai temi ecologici e insofferente verso il progresso — a meno che non abbia a che vedere con la tecnologia e i multimedia, perché in quel caso l’insofferenza si trasforma in beatificazione —, tollerante rispetto alle preferenze sessuali ma sessualmente tiepida; libera e giuliva eppure profondamente seriosa, a suo modo perfino ortodossa, vicina per certi aspetti al movimento hippy, ma senza i fronzoli né le utopie né i gravi conflitti con i padri, tipici di quegli anni. Il conflitto generazionale, quando compare, viene affrontato in modo assai diverso, con il sorriso, come se al posto di dare sfogo al risentimento, i figli indicassero gentilmente ai genitori la via della casa di riposo. Una presa in giro bonaria, insomma. È all’incirca ciò che è successo quando Erdogan ha bollato «quella cosa chiamata social media» come «la più grande minaccia della società», o forse, in quel caso, ha fatto tutto da solo. «Pensavamo che i ragazzi della tua età non avessero dentro nulla», mi confessa un’insegnante di italiano, «pensavo che mia figlia di 29 anni non avesse dentro nulla, e invece ha partecipato a tutta la protesta. Al mattino andava al lavoro e si portava dietro la borsa per restare fuori il pomeriggio e la sera. Un giorno sono andata anch’io. C’erano molte madri come me». 
Istanbul rappresenta da sempre uno spartiacque. Si divide a metà fra l’Europa e l’Asia, in un ipotetico baricentro del mondo emerso, e si divide a metà fra il passato e il presente, perché attraversando i cinquecento metri del ponte di Galata si transita in pochi minuti dal modernismo esasperato di Beyoglu all’immutabilità ostile, quasi medievale di Sultanahmet. Ma non è questo l’unico motivo per il quale ho cercato le tracce della trasformazione proprio qui. Istanbul rappresenta anche uno spartiacque personale, perché l’ho conosciuta durante l’ultimo viaggio della mia prima esistenza, quando mi trovavo già con entrambi i piedi nella seconda — era l’estate del 2008. Dentro l’hammam dove andai a sudare, mentre l’energumeno del massaggiatore mi schiaffeggiava contro il marmo come uno straccio bagnato, strofinandomi malamente con un guanto ruvido, pensavo che non capivo niente di ciò che mi stava accadendo e che avevo paura del futuro, ma che uno strato della mia pelle sarebbe comunque rimasto lì per sempre. 
Tutti coloro che interpello a proposito di Gezi Park mi assicurano di essere stati fra i manifestanti della prima ora, fra i trenta valorosi, ormai leggendari come i trecento spartani delle Termopili o i Mille garibaldini. La maggior parte di loro mente. Senza dubbio, tuttavia, al parco c’erano gli esponenti della Piattaforma Taksim che incontro il venerdì mattina nella pasticceria leziosa del Pera Hotel. Avevo chiesto di intervistare un portavoce del gruppo, invece si presentano in tre: un architetto, un giornalista in pensione e il proprietario di un’agenzia di viaggi che nella stagione opportuna produce olio d’oliva — nessuno ha meno di cinquant’anni. Si conoscono da molto tempo, ma non sembra che siano esattamente amici, piuttosto che abbiano covato insieme un ideale segreto, una resistenza: assomigliano a tre partigiani dal cuore indurito. 
È curioso che siano loro a rappresentare la protesta che è stata venduta al mondo come il risveglio delle nuove generazioni, come la Grande Rivolta dei Social Network. Glielo faccio notare, sperando di non risultare offensivo, ma a quanto pare lo sono. «Anche noi ci aspettavamo di trovare qualcuno di più vecchio», ribatte il giornalista pensionato, «ci avevano detto che sarebbe venuto uno scrittore». E comunque, puntualizza poco dopo, tutti loro sono attivi sia su Twitter che su Facebook. «Non solo un centro commerciale. Volevano costruire una moschea», racconta l’architetto. «Ho fotografato di nascosto il cerchio che avevano tracciato a terra, là dove sarebbe sorta la costruzione. Piazza Taksim rappresenta la cultura laica di questo Paese. Volevano inserire una moschea proprio lì per creare una polarità pericolosa». Snocciolano le ragioni della protesta, quelle che ben presto hanno sopravanzato la volontà di proteggere gli alberi: l’urbanizzazione selvaggia incoraggiata dal governo, che mira ad attirare capitali stranieri e a spingere la povertà sempre più ai margini; il ritorno implicito eppure evidente alla supremazia religiosa, per esempio tramite la restrizione della vendita di alcolici — una misura alquanto goffa, come mi renderò conto la sera stessa, camminando nella calca del mercato del pesce, dove ogni dieci passi è pronta una postazione per gli shot di rum e di vodka —; e poi ancora la questione curda, sempre sotterrata e mai veramente risolta. 
«Un gruppo di esperti si riunisce ogni anno, proprio qui davanti, per discutere dei cambiamenti da apportare alla città. L’anno scorso abbiamo consegnato al premier un plico con delle proposte. Lui, dopo essere decollato con l’elicottero, ha stracciato i fogli e lasciato cadere i pezzetti». S’interrompono l’un l’altro, si parlano addosso. Il giornalista in pensione, che è anche il più timido, non trova il modo di inserirsi, si vede che soffre. Anche fra tre irriducibili sessantottini turchi s’instaurano delle dinamiche curiose di sopraffazione. Domando loro cosa succederà adesso, se l’evoluzione naturale non sarebbe di convertirsi in un movimento politico, per non disperdere le energie accumulate. «Esiste un partito che avrà Gezi Park nel nome, ma non andrà lontano. In questa protesta nessuno rappresenta nessuno». 
Non è difficile capire perché i disordini sono accaduti proprio qui, in Turchia, a Istanbul, nel quartiere di Beyoglu. Camminando in mezzo e contro la folla lungo l’Istiklal Caddesi, la via pedonale che collega la stazione della funicolare per Galata a piazza Taksim, ti accorgi che essa corre attraverso la città e la taglia in due come un filo di benzina. È sufficiente una scintilla per incendiare tutto. Ciò che risulta meno comprensibile — e assai meno accettabile — è il motivo per il quale non accade lo stesso da noi. Non sono io a osare il paragone con l’Italia, viene fuori da ognuna delle persone con cui parlo, accompagnato da un risolino (un italiano che viaggia all’estero negli ultimi anni deve innanzitutto abituarsi a questo continuo sogghignare). Ma neppure si può fingere che delle assonanze non esistano: una situazione politica da lungo tempo stagnante e avvitata su se stessa; una generazione di ormai adulti che continuano a essere trattati come bambini; una sinistra che «ha le sue colpe, perché ha voluto imporre se stessa come struttura intermedia fra la gente e le istituzioni, allontanandola sempre di più» (lo dice il produttore d’olio); la costruzione di un ponte controverso e dispendioso, il terzo che dovrebbe solcare il Bosforo; il timore latente e giustificato di tornare a essere inghiottiti dal bigottismo religioso, ma soprattutto l’egemonia sostanziale di una figura — per la Turchia quella di Recep Tayyip Erdogan — dalla quale il Paese stenta a emanciparsi, come attanagliato dal terrore di ritrovarsi orfano di quel carisma, una figura ingombrante che con il passare del tempo viene attorniata sempre più strettamente dai propri antichi fantasmi — per Erdogan, il colpo di Stato del 28 febbraio 1997 — e trascina nel proprio destino l’intero Stato, come Macbeth impazzito. 
Le analogie mi tormentano per tutto il tempo che rimango a Istanbul. Possibile che i giovani turchi siano sottoposti a una frustrazione maggiore della nostra, che il loro desiderio di emanciparsi sia più ostacolato di quello dei coetanei italiani? Possibile che la personalità che tiene in pugno il loro Paese da dieci anni sia più antipatica e squallida di quella che ha tenuto (e tiene ancora) in pugno il nostro da venti? Possibile che l’abbattimento di una manciata di alberi a Gezi Park meriti più sdegno della rimozione in cui è affondata una città intera, L’Aquila, a quattro anni dal terremoto che l’ha sbriciolata? Può darsi. O magari è solo che noi usiamo male i nostri smartphone, li adoperiamo soprattutto per blaterare e intontirci. Oppure è molto più complicato di così: ogni nazione possiede la propria soglia del dolore e la nostra è diventata pericolosamente alta, tanto alta da lasciare che la malattia infetti ogni organo prima che proviamo anche solo a contrastarla. Le circostanze dimostrano, mi sembra, che, a dispetto del nostro pittoresco sbraitare, siamo un popolo di incassatori formidabili. 
A dirla tutta, i platani di Gezi non sono né molto antichi né granché maestosi, con qualche eccezione. Ma sono alberi, gli unici nel raggio di chilometri e contengono la speranza di cui ci parlava Jean Giono. Soprattutto sono simboli, simboli del rilascio di ossigeno e di qualcosa che può restare uguale mentre tutto intorno cambia. Entrando nel parco si sperimenta un silenzio improvviso. Piazza Taksim è ampia, il vociare della gente sull’Istiklal e il frastuono dei cantieri disseminati intorno si disperdono facilmente. Riesco a sentire il fruscio di un sacchetto di plastica che si contorce al vento. È domenica mattina, le bancarelle vendono castagne arrostite sbucciate per metà e spremute di melograno, che hanno il colore e il sapore del vino acido. Un vietnamita capellone siede a gambe incrociate sul prato, si esercita nel far scivolare una sfera di vetro da una mano all’altra e poi su, lungo le braccia. Una donna anziana un po’ svitata strimpella una chitarra. I netturbini spazzano con metodo le foglie secche e i mozziconi di sigaretta. C’è un uomo che piange rannicchiato su una panchina, indossa una giacca elegante, ma gli si scorgono i calzini di spugna bianchi, guarda ripetutamente qualcosa sul telefono e ogni volta si dispera. 
Il piano di rinnovo del parco è stato ritirato, gli alberi sono salvi per il momento e non vi è segno dei disordini della primavera, soltanto tre ragazzi che, appartati in un angolo, registrano un videomessaggio. Mi avvicino per ascoltare. Uno di loro sta leggendo un comunicato da un foglio, in un inglese incerto racconta della repressione della polizia e, proprio mentre sta dicendo di un quattordicenne che si trova ancora in coma per via dei gas lacrimogeni, gli scappa da ridere. La batteria della videocamera si scarica prima che abbia terminato. «È per la televisione estone» mi spiegano, quasi scusandosi, «si capiva qualcosa?». «Sì» gli rispondo. Si capiva molto bene.

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