sabato 5 ottobre 2013

Cézanne e gli italiani


Al Complesso del Vittoriano di Roma vanno in scena le opere del grande francese e quelle dei nostri maestri che nella prima metà del ’900 furono influenzati dal suo stile


Lea Mattarella


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La Repubblica
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,  5 ottobre 2013

ROMA Parigi 1907. Paul Cézanne è morto da un anno e il Salon d’Automne gli dedica, finalmente, una grande retrospettiva. Tra i visitatori, oltre a Rainer Maria Rilke che, rapito, la va a vedere tutti i giorni, c’è il pittore Ardengo Soffici. Questo è l’antefatto alla mostra Cézanne e gli artisti italiani del ’900 aperta al Complesso del Vittoriano da oggi e fino al 2 febbraio, curata da Maria Teresa Benedetti e organizzata da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia (catalogo Skira). Succede infatti che al rientro in Italia Soffici scriva un lungo articolo sul pittore francese in cui lo definisce «pazzo e primitivo... al modo scontroso dei mistici cristiani, di Jacopone da Todi e di Giotto». E l’Italia lo scopre facendone la guida per il grande salto verso l’arte moderna e internazionale. «Cézanne è una specie di Caronte – spiega la Benedetti – gli italiani lo seguono e ne traggono molte suggestioni interpretandolo in maniera sempre diversa».
In mostra di questi artisti traghettati ce ne sono 18, da Sironi a Severini, da Donghi a Trombadori, in una divisione tematica che offre la possibilità di andare a scoprire i segreti di un’influenza potente e duratura. E così il percorso tra Paesaggi, Nudi, Nature morte e Ritratti diventa un’affascinante viaggio alla scoperta del maestro di Aix-en- Provence visto con gli occhi degli altri, artisti come lui. Pronti a nutrirsi della sua pennellata, della sua volumetria, dei suoi temi. Si tratta quindi di una mostra in cui, oltre alla bellezza delle opere, c’è la forza di un’idea. Di un’ipotesi che viene confermata in maniera convincente attraverso i confronti tra i quadri. Anche quando questi sono lontani per tematiche. Straordinaria è, ad esempio, la felicità cromatica che unisce un capolavoro di Cézanne come il Paesaggio blu con il Ritratto del Maestro Busoni, un pezzo da novanta di Umberto Boccioni: gli ocra, i verdi, i blu vibranti hanno la stessa consistenza, come fossero passadanno da un quadro all’altro. Li dipingono entrambi sul finire delle loro vite: il primo tra il 1904 e il 1906, l’altro nel 1916. In mezzo, per l’italiano, c’è l’avventura futurista dalla quale si sta allontanando proprio attraverso una meditazione su Cézanne. Purtroppo non sappiamo quali altre possibilità avrebbe aperto a Boccioni questa riflessione. Morirà infatti proprio nel 1916 a 34 anni. Pochi ma sufficienti a fare di lui un gigante della pittura, com’è evidente in queste sale dove sono raccolti altri quadri dal fascino misterioso in cui le tracce del dinamismo futurista sono evidenti nella libertà della pennellata e della luce:Silvia, il Ritratto della Signora Cragnolini Fanna, la Natura morta di terraglie, posate e fruttas ono tappe fondamentali di un cézannismo che diventa linguaggio individuale, unico e irripetibile. Il confronto con Victor Chocquet, Il Giardiniere Vallier, le superbe mature morte Frutta e Buffet l’idea del livello elevato dell’incontro.
Se Boccioni torna a Cézanne nell’ultima fase della sua esistenza, Giorgio Morandi lo guarda fin dalla formazione. Già Cesare Brandi aveva notato come, con il suo “prezioso intuito”, questi «avesse saputo trar profitto da umili, casuali riproduzioni (chéoriginali non poté certo averli visti) del maestro di Aix». In mostra, a ribadire il contatto, oltre ad alcune incantate Nature morte e ai suoi solidi e austeri paesaggi, ci sono le Bagnanti del 1915 che hanno la medesima struttura di quelle dipinte da Cézanne e conservate a Firenze nella collezione Fabbri. Com’è noto il tema è molto amato dall’artista francese. Con i suoi e le sue Bagnanti egli cerca l’armonia tra l’uomo e il paesaggio, desiderando «rifare Poussin sulla natura». Qualche tempo prima, in un questionario, alla domanda su quale fosse il suo profumo preferito aveva risposto «l’odore del campi» e aveva affermato che il modo più piacevole per distendersi per lui fosse il nuoto. Ecco le due cose unite in questa parete dominata dal verde dove Cézanne cerca di ricostruire un’alleanza panica tra corpi e vegetazione. Viene in mente anche la sua biografia, i ricordi di giovinezza quando, con quello che per anni sarà il suo amico e sostenitore Émile Zola, andava a fare il bagno nel fiume Arc a sud di Aix. Quanta nostalgia di quel periodo lì deve esserci in questo quadro che raffigura giovani uomini in felice comunione con la natura datato al 1892, cioè quando il sodalizio con lo scrittore era terminato da circa sei anni? E qui si può vedere quanto queste figure di spalle siano state da suggestione per gli italiani: eccole in un’opera densa di ritualità come iNeofitidi Corrado Cagli, ne La Famiglia di Franco Gentilini, nel Nudo di Felice Carena. E se per Casorati il gruppo di nudi si raccoglie in un interno nella magia di un bizzarro Concerto costruito seguendo il ritmo astratto di vuoti e pieni del pittore francese, c’è anche chi trasferisce sulla tela la sua ricerca di verità attraverso la deformazione. È Fausto Pirandello, potentissimo in quella macchina fantastica che è la costruzione de Il bagno e nella folla carica di espressività che occupa la sua Spiaggia.
Ci sono altre tappe fondamentali per la penetrazioni di Cézanne in Italia: la Prima mostra del-l’Impressionismo francese e di Medardo Rosso aperta a Firenze nel 1910 in cui i suoi quadri sono quattro, la II mostra della Secessione, a Roma nel 1914, dove è presente con 12 acquerelli e la Biennale del 1920 viene con l’allestimento di una personale nel padiglione francese, resa possibile dalla presenza di Cézanne nelle collezioni fiorentine Fabbri e Loeser. Quello che colpisce di questo viaggio tra l’artista francese e i grandi italiani che lo hanno ammirato e interpretato, è la doppia lettura della sua influenza. Se da una parte Cézanne è stato l’iniziatore dell’avanguardia aprendo la strada alla scomposizione cubista, è vero anche che a lui si deve il recupero di masse e volumi che l’Impressionismo aveva reso evanescenti, la sostanza di una costruzione pittorica capace di ridare solidità alla natura (diceva che bisognava trattarla «secondo il cilindro, la sfera, il cono »), di una luce pronta a scolpire le forme. Soffici lo collega a Giotto ed è in quest’ottica che viene recuperato da Carlo Carrà, anche lui nella fase successiva al Futurismo. I suoi dipinti che aspirano a penetrare la natura per coglierne l’essenza sono sicuramente figli della pennellata robusta del francese. E dello spirito quasi religioso che Cézanne ha saputo conferire al paesaggio.


La geometria è l’anima della realtà
Il genio di ieri visto con gli occhi di un pittore di oggi

 Marco Tirelli

Dagli impasti spessi di colore e i toni cupi degli esordi alle pennellate di luce leggere, rarefatte, con le quali negli ultimi anni osservava Mont Sainte-Victoire: Paul Cézanne ha sempre cercato la struttura delle cose. Si può dire che ciò che maggiormente lo interessava era l’ossatura, lo scheletro delle forme. Che fossero gli oggetti disposti sui tavoli e tra i drappi delle nature morte, l’ovale di sua moglie nelle decine di ritratti che le dedicò, i profili dei paesaggi mediterranei o i corpi delle mitiche bagnanti, lo spirito che lo muoveva nell’approccio alla natura era fatto di sintesi ed essenzialità. Ripenso alla celebre frase in quella lettera dell’aprile 1904 da Aix-en-Provence al pittore Émile Bernard nella quale Cézanne lo consigliava di «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto o di un piano si diriga verso un punto centrale». Ecco, un artista come lui, legato agli impressionisti sin dalla prima mostra del 1874 e alla pittura en-plein-air fatta di tocchi e di luce, nella geometria vedeva un aspetto strutturale e costruttivo. La riduzione a relazioni geometriche del mondo era, per Cézanne, strumentale all’edificazione delle forme, un po’ come nel Rinascimento fu la prospettiva, anche se, questa, nata su intenti tecnico- rappresentativi, ha portato in certi artisti a connotazioni metafisiche.
Per Cézanne, invece, non vi è mai stato, mi pare, un intento metafisico e trascendente, ma la geometria era strumento per trovare una simmetria tra la realtà e la sua rappresentazione. «Voglio dire – e qui prendo le parole di un’altra lettera del 1904, ma di luglio, sempre a Bernard – che in un’arancia, in una mela, in una palla, in una testa, c’è un punto culminante; e questo punto è sempre – malgrado il terribile effetto di luce ed ombra, sensazioni di colore – il più vicino al nostro occhio; i bordi degli oggetti fuggono verso un centro posto sul nostro orizzonte». La lettura geometrica del mondo era per lui un modo di mettere ordine alla visione, il suo era un “occhio razionale” che cercava l’ordine oggettivo delle cose. Di Cézanne io ho sempre condiviso l’aspetto riduzionista, di distillazione, di essenza per le cose, anche se nella mia pittura lo sguardo ha ben poco a che fare con l’oggetto in sé. Il corpo nudo della realtà lo si può solo vestire di nuovi panni e maschere, ma non lo si può separare da questi: la realtà è la relazione, la somma del nostro sguardo e la cosa stessa. Non esiste uno sguardo oggettivo. Non sono le apparenze ad ingannarci, ma siamo noi ad ingannare loro.
C’è un altro aspetto che amo molto di Cézanne. «Ho lavorato tutta la vita – scrive Cézanne in una lettera del 1896 a Joachim Gasquet – per arrivare a guadagnarmi il pane, ma credevo che si potesse fare della buona pittura senza attirare l’attenzione sulla propria vita privata. Certo, un artista desidera elevarsi intellettualmente il più possibile, ma l’uomo deve rimanere nell’ombra». Parole sante. Penso invece ad oggi, alla mitologia che viene creata ad arte dal mercato intorno alla figura dell’artista. Il pittore deve scomparire, deve rimanere solo l’opera.

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