giovedì 26 settembre 2013

Pollock e gli altri: quegli «astratti» che cambiarono il corso dell'arte



Gli irascibili della tela

Francesca Montorfano

                                            “Corriere della Sera”, 24 settembre 2013

Sono vestiti in modo formale, «da banchieri», i diciotto artisti ritratti nel celeberrimo scatto di Nina Leen, pubblicato nel 1951 dalla rivista «Life». Ma sarà proprio quest'immagine, solo all'apparenza bonaria, ancor più della lettera inviata al direttore del Metropolitan Museum of Art, a esprimere la protesta del gruppo contro un'ingiustizia intollerabile, l'esclusione degli espressionisti astratti da una delle più importanti mostre sulla pittura americana contemporanea.
Definiti «irascibili» dall'«Herald Tribune», guardati con diffidenza da pubblico e critica che non ne comprendevano la portata innovativa, i diciotto — tra i quali Pollock, De Kooning, Rothko, Motherwell, Newman, Baziotes, Brooks, Hofmann, Still o Hedda Sterne, l'unica donna — avrebbero tuttavia dato vita a un fenomeno dalla forza prorompente, destinato a caratterizzare l'America del secondo dopoguerra e a influenzare l'arte moderna di tutto il mondo. Un linguaggio nuovo, libero, americano, che avrebbe segnato lo stacco definitivo dagli influssi delle avanguardie e dei movimenti novecenteschi europei, dall'eredità del Cubismo come dal dominio del Surrealismo. Che avrebbe sancito la consacrazione di New York a capitale artistica mondiale e aperto la strada a un impiego assolutamente rivoluzionario del segno, del gesto, del colore.
Le sperimentazioni e gli altissimi esiti pittorici di quella che venne definita la «Scuola di New York», o anche «Action Painting», sono oggi al centro della rassegna di Palazzo Reale — curata da Carter Foster con la collaborazione di Luca Beatrice — che vede riuniti quasi cinquanta lavori del gruppo, con capolavori assoluti quali il famoso «Number 27» di Pollock, cui è riservata un'intera sala, a delineare quel periodo della grande arte americana che dalla fine degli anni Trenta arriva alla metà dei Sessanta. «Si tratta di un evento di particolare rilevanza — dice Luca Beatrice — proprio perché tutte le opere provengono dal Whitney Museum, istituzione che più di ogni altra ha appoggiato il movimento, consentendone una lettura esauriente e sfaccettata, dando voce a quegli artisti che fecero fronte comune, uniti dalla stessa sensibilità verso un'arte in grado di rielaborare la realtà in forme astratte ed espressive, verso una pittura che potesse trasferire sulla tela le pulsioni e le energie psichiche più profonde attraverso l'enfatizzazione del gesto».
Il co-curatore aggiunge: «Protagonista di primo piano dell'evento sarà Jackson Pollock, l'artista che ha trasformato la pittura in body art, difficile e geniale, romantico e maledetto. Un personaggio dalle straordinarie capacità mediatiche, ma anche dalla forza autodistruttiva, che ha saputo incarnare il mito dell'eroe ribelle americano, come Marlon Brando, come il giovane Holden di Salinger, morendo al volante della sua auto, come soltanto un anno prima di lui aveva fatto James Dean». Numerosi i lavori di Pollock in mostra, dai disegni senza titolo degli anni 1933-39 che esplorano la trasformazione, quasi una regressione, da un sé ancora «civilizzato» a creatura selvaggia, primordiale, alle opere della maturità quando la pittura su cavalletto è ormai lontana e l'artista lavora a terra, sentendosi dentro la tela, diventata spazio infinito di libertà e di azione, versando direttamente il colore dal barattolo, lasciandolo sgocciolare con un pennello o un bastone (dripping), facendo corrispondere ogni movimento del corpo a un segno. Ma se Pollock è la figura chiave, gli altri sono comprimari.
Così Mark Rothko, che dell'astrazione ha dato originali soluzioni estetiche con le sue distese di colore a strati, in mostra con capolavori quali «Untitled» (Blue, Yellow, Green on Red) o Willem de Kooning, capace di passare dall'attenzione alla figura, seppur quasi indistinta come in «Woman Accabonac», a composizioni più astratte e gestuali, guardando in modo nuovo anche al paesaggio. Così Arshile Gorky, l'artista per le sue forme biomorfiche più legato al Surrealismo europeo; o Franz Kline, interessato alla città e ai suoi grattacieli che traduce in rigorose astrazioni bianche e nere; Bradley Walker Tomlin, con «Number 2» (1950) dove la linea pittorica è influenzata dalla calligrafia orientale; o Robert Motherwell con opere di grande rilievo, come «The Red Skirt», dove la figura appare quasi imprigionata in una costruzione geometrica.
Ma gli anni d'oro dell'Espressionismo americano sono ormai alla fine. A imporsi sullo scenario newyorkese sono adesso le composizioni piatte e smaltate di un giovane di Pittsburg, Andy Warhol, figlio di emigrati europei. Il Pop è nato.

In città è «Autunno americano» Con Warhol, la scienza e il teatro
La mostra dedicata a Pollock e al gruppo degli «Irascibili» apre la rassegna milanese «Autunno americano» che prosegue con un altro appuntamento a Palazzo Reale: «Warhol. Dalla collezione di Peter Brant», esposizione dedicata al simbolo della Pop Art, dal 24 ottobre al 2 marzo (coprodotta da Comune di Milano, 24ORE Cultura — Gruppo 24ORE e Arthemisia Group, sito: warholmilano.it). Seguita, dal 14 novembre al 2 febbraio, alla Sala Verri (via Zebedia), dalla mostra fotografica «L'America di Lewis Hine». Ma la rassegna prevede anche concerti, spettacoli teatrali, danza, cinema, retrospettive, incontri letterari in diversi luoghi della città. «Autunno americano» è un progetto del Comune di Milano, con il sostegno di Costa crociere, con la partnership di 24ORE Cultura — Gruppo 24ORE e Arthemisia Group. Info su www.autunnoamericano.it. 



Lee era forte, Jackson fragile Il loro amore disperato fece ingelosire la ricca Peggy
La Guggenheim non sopportava l'ascendente di lei

Francesca Bonazzoli

Sebbene non compaia nella celebre foto degli «Irascibili» pubblicata su «Life» nel 1951, dove l'unica donna del gruppo è Hedda Sterne, la vera protagonista della storia dell'Espressionismo americano fu Lee Krasner, pseudonimo maschile che celava l'identità di Lenore Krasner, penultima di sette fratelli, nata nel 1908 in una famiglia di ebrei ortodossi. Per la sua mancata presenza nella foto, Lee non perdonò mai, ma proprio mai, il collega Barnett Newman che si era fatto passare Pollock al telefono per chiedergli di posare, senza dire nulla a lei.
La Krasner e Pollock si erano sposati nel 1945, ma il loro primo incontro risaliva al 1936, in occasione di una festa organizzata dal sindacato degli artisti: lei era una bravissima ballerina, disinvolta e sicura di sé; Pollock, timido e goffo, le pestò i piedi e la storia finì lì.
In comune avevano invece l'impegno in attività politiche di sinistra, sebbene la Krasner diffidasse del comunismo di Stalin e rimproverasse a Pollock di aver probabilmente nascosto nel suo studio Alfaro Siqueiros quando la polizia di New York cercava il pittore messicano, stalinista integralista, coinvolto nell'orribile omicidio di Trotsky a Mexico City.
Più attiva di Pollock, la Krasner rivestiva un ruolo di primo piano nel WPA, il Works Progress Administration, un programma governativo che aiutava gli artisti durante la Grande depressione; si impegnava anche nel gruppo degli American Abstract Artists e entrambi i grandi critici dell'Espressionismo astratto, Clement Greenberg e Harold Rosenberg, furono da lei guidati nel mondo dell'arte, senza dimostrarle in seguito alcuna riconoscenza. Greenberg, in particolare, non scrisse mai una parola sulla sua arte, dimostrando così quanto fossero radicati i pregiudizi contro le donne forti, autonome e coraggiose. Lee appariva aggressiva perché diceva sempre quello che pensava, poteva bere e fumare molto, imprecare, posare nuda, ma senza mai arrivare al punto tragico di non ritorno.
Pollock, invece, eternamente a disagio, sentendosi «come un mollusco senza conchiglia», cercava rifugio nell'alcol e nel misticismo. I suoi attacchi di rabbia erano violenti, esasperati, e quando passavano, si trasformavano in mutismo. Prigioniero dell'alcolismo, nel 1937 Pollock aveva preso la decisione di ricoverarsi nel reparto psichiatrico dell'ospedale di New York e con l'aiuto di un analista junghiano cominciò a esorcizzare i suoi demoni attraverso la pittura, integrandoli con simboli, maschere e totem degli indiani d'America che lo avevano affascinato sin da bambino e per la cui cultura sciamanica nutriva una venerazione.
La Krasner, invece, era attratta dalla cultura europea, leggeva Baudelaire e Rimbaud, e adorava il razionalismo di Mondrian. L'amore scoppiò quando John Graham, un mercante bielorusso come lei, organizzò una mostra cui dovevano partecipare entrambi i futuri sposi. Lei si recò nello studio di Pollock e tutto il fascino della raffinatezza decadente dei Fiori del male scomparve davanti all'intensità e alla forza vitale dei lavori di lui.
Da quel momento Lee fu sempre la prima critica di Pollock, che andava sempre a chiederle se un lavoro fosse o no finito. Lo stesso succedeva al contrario, ma senza che l'uno intimidisse l'altra e viceversa.
Il loro stretto rapporto, piuttosto, suscitava la gelosia degli altri, prima fra tutte quella di Peggy Guggenheim che adorava Pollock e gli aveva organizzato la prima mostra personale, nel 1943, garantendo all'artista uno stipendio mensile per quattro anni. Ebrea ricca e raffinata, Peggy odiava Lee, brusca e autoritaria quanto lei, ma senza i soldi e viaggi in Europa che autorizzavano l'ereditiera a sentirsi superiore. La verità è che Lee aveva dato regolarità alla vita di Pollock e l'aveva salvato dall'alcolismo grazie alle cure del suo medico omeopatico. Quando nel 1951 Pollock ricominciò a bere dopo le riprese del fotografo Hans Namuth che lo aveva filmato mentre dipingeva, Lee lo incoraggiò a tornare all'analisi junghiana, ma Pollock non le diede ascolto e preferì la terapia più radicale raccomandatagli da Greenberg. Il risultato fu disastroso, con Pollock che continuava a bere e in più rappresentava la moglie come una vecchia strega. Ci si mise anche l'infatuazione per una studentessa d'arte che aveva la metà dei suoi anni.
A quel punto la Krasner per la prima volta si fece da parte e partì per un viaggio in Europa. Quando tornò, fu per mettere una firma sul certificato di morte del marito finito a folle velocità contro un albero dopo una notte passata a bere. La pittura di Lee divenne cupa e piena di mostri, ma da quando trasferì il suo studio nel grande granaio dove per dieci anni aveva lavorato il marito, prese anche un ritmo e un respiro più ampi. In quello spazio ci passò 34 anni, ma quando anche lei morì, il granaio fu ripulito dalle sue cose e vi fu ricostruito lo studio di Pollock.

Ritratto (fatale) dell'artista sul grande schermo
Per Pollock il film fu l'inizio della fine
Picasso invece trasfigurò la cinepresa

Alberto Pezzotta

Nell'autunno 1950 il fotografo Hans Namuth convince Jackson Pollock a farsi riprendere in un documentario. Namuth si è conquistato la fiducia dell'artista, e gli scatti che mostrano le sue tecniche poco ortodosse lo renderanno famoso in tutto il mondo. Passare alle immagini in movimento sembra inevitabile. Dopo un esperimento bianco e nero, Namuth decide di usare il colore. Ma il film che ne risulterà, «Jackson Pollock 51», avrà conseguenze devastanti.
All'inizio del film, Pollock, che mostra molti più anni dei suoi trentotto anagrafici, si infila un paio di vecchie scarpe macchiate prima di iniziare a spruzzare vernice su un'enorme tela stesa in mezzo ai campi. Vengono in mente le scarpe dipinte da van Gogh, e per un attimo si materializza l'immagine dell'artista tormentato, mentre la voce narrante di Pollock suona stanca e distaccata. È solo un'ombra passeggera? L'artista in azione in mezzo alla natura che vediamo subito dopo non sembra un maledetto: evoca anzi risonanze sciamaniche. Ma c'è il trucco.
Pollock di solito non dipingeva all'aria aperta, ma nel suo fienile: solo che lì non c'era abbastanza luce. Finite le riprese, Pollock distrugge la propria opera: ha avvertito qualcosa di falso. Ma Namuth insiste: il weekend successivo spinge l'amico a dipingere su una grande lastra di vetro, accovacciandosi al di sotto con la sua macchina da presa. Le immagini sono di grande suggestione, con Pollock che lascia gocciolare il colore verso l'obiettivo. Ma poi l'artista si arrabbia, cancella tutto, e inizia una nuova composizione-collage. Alla fine Pollock rientra a casa e, sotto gli occhi allibiti della moglie Lee Krasner, si versa un bicchiere di bourbon, insulta Namuth e dà fuori di matto. Non toccava alcol da due anni. E da allora riprende la china autodistruttiva che nel 1956 lo porta a schiantarsi sulla sua Oldsmobile.
Che cosa è successo? Pollock si è sentito espropriato della sua anima, come un nativo americano restio a lasciarsi fotografare? O intuisce di avere esaurito l'ispirazione? Di fatto, dopo quell'opera su vetro (l'unica da lui mai realizzata, ora alla National Gallery of Canada col titolo «No. 29») abbandona il dripping. E il film di Namuth? Cattura la verità di un artista che crea, o è solo una messa in scena? Ed è il destino di ogni film che cerca di cogliere un artista al lavoro?
Già nel 1949 il belga Paul Haesaerts aveva ripreso Picasso che dipingeva su lastre di vetro. Nel 1956 Henri-Georges Clouzot perfeziona la tecnica nel celebre «Il mistero Picasso», mostrando i disegni che si materializzano su tele trasparenti. All'inizio dice che se è impossibile sapere che cosa passava per la testa di Rimbaud e di Mozart, il cinema consente di vedere il pittore che «come un cieco va a tentoni nell'oscurità della tela bianca». Alla fine, però, Picasso cancella la sua opera e dichiara: «È molto brutto, strappo tutto». Ma non c'è senso di tragedia. Anche perché Picasso, che aveva un ego molto più solido di quello di Pollock, davanti alla macchina da presa non prova alcun disagio: in braghe e a torso nudo, sembra farsi beffe del regista e degli spettatori. Inoltre era abituato a lavorare sotto lo sguardo altrui: nel 1937 aveva lasciato che Dora Maar documentasse la nascita di «Guernica»; nel 1954 aveva ammesso in studio Luciano Emmer.
Se abbondano i film biografici sugli artisti (Ed Harris ne ha girato uno su Pollock, molto discusso), sono molto più rari quelli in cui un regista si confronta con un artista al lavoro. Nel 1975 Jack Hazan dedicò a David Hockney «A Bigger Splash». Il più bello è «El sol del membrillo» (1992): dove lo spagnolo Victor Erice, un autore dalla fama cinefila inversamente proporzionale al numero delle sue opere, segue Antonio López García mentre dipinge un albero di mele cotogne nel suo giardino. Ma il pittore, maestro del realismo, è troppo perfezionista: la natura non lo aspetta, e malgrado gli stratagemmi, i frutti cadono prima che abbia potuto immortalarli. La tela, incompiuta, finisce in un ripostiglio. Il cinema, qui, ha mostrato il fallimento, senza inganni: e in ciò ha avuto successo.

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