venerdì 28 giugno 2013

Il pensiero politico di Machiavelli


Le conseguenze etiche e l’attualità de «Il Principe» a 500 anni di distanza

Michele Ciliberto

"L’Unità",  27 giugno 2013

Va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento
La relazione del professor Ciliberto ieri all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino Un dibattito sulla figura del pensatore fiorentino all’interno del ciclo di incontri «Tra Rinascimento e Riformazione»

MACHIAVELLI ELABORA UN SISTEMA TEORICO COMPATTO INCENTRATO SUL RAPPORTO ORGANICO TRA ANTROPOLOGIA E POLITICA; sul conflitto come principio dinamico, in questo contesto dell’agire politico; sulla funzione della legge; su una visione tragica, in ogni caso, dell’uomo, della natura e anche della politica.
Ho dunque voluto insistere sulla questione dei «limiti» attraverso cui si sviluppa la riflessione di Machiavelli per abbozzarne una interpretazione differente da quella consegnata in genere alle genealogie moderne; ma questo non toglie, ovviamente, che Machiavelli abbia una considerazione massima per la politica come forza e che se essa non si configura come tale è destinata all’insuccesso radicale. Per il Segretario fiorentino si può essere un politico di grande qualità ma essere travolti dagli avversari e dalla storia se non si dispone di una forza, cioè di armi adatte ai propri obiettivi. In questo senso è veramente esemplare la valutazione che Machiavelli da su Girolamo Savonarola, un grande personaggio ai suoi occhi, autore oltre che delle grandi prediche in San Marco anche di un testo fondamentale, ispirato a una polemica violentissima contro il tiranno, come il Trattato sul governo di Firenze.
I giudizi di Machiavelli su Savonarola sono una sorta di radiografia della sua concezione della politica, oltre che del rapporto tra politica e religione. I documenti su cui intendo concentrarmi sono essenzialmente tre: la lettera, famosa, a Ricciardo Becchi, del 1498; il giudizio su Savonarola nel I libro dei Discorsi; la valutazione sulla ragione della sconfitta del frate espressa nel III libro dello stesso testo. Tutte queste posizioni hanno in comune un punto: sono di carattere strettamente politico e riguardano il modo con cui il frate utilizza la sua forza in un momento a lui favorevole e la maniera con cui viene sconfitto in una situazione che invece gli è avversa secondo quella relazione tra virtù e fortuna alla quale si è sopra fatto riferimento. Nel primo caso Machiavelli dimostra come Savonarola utilizzando in modo spregiudicato il testo biblico, e paragonandosi implicitamente a Mosé, cerchi di guadagnarsi il popolo fiorentino quello colto e quello rozzo aizzandoli contro un nemico che sarebbe pronto, nelle sue parole, a farsi loro tiranno, ma mirando solamente a salvaguardare il proprio potere, e facendolo con successo «colorando» le proprie bugie come meglio gli conveniva.
Nel secondo caso si serve di Savonarola per mostrare la potenza della religione come forza – e sottolineo il termine: forza – genuinamente politica. Sarebbe interessante insistere su questo punto ma la stessa insistenza di Machiavelli poche pagine prima sulla figura di Numa come fondatore della potenza di Roma più dello stesso Romolo e proprio per il modo in cui aveva saputo usare la religione, è probabile che fosse stata generata proprio dal’aver visto all’opera Savonarola, concepito qui e sempre, anzitutto come grande politico.
Nel terzo caso invece Machiavelli si interroga sulle ragioni della fine di Savonarola pur continuando a riconoscergli, ed è questo l’importante, qualità di grande politico, privo però della forza necessaria per farsi valere. È spietato, ma paradigmatico e perfino didattico il paragone che in queste pagine Machiavelli stabilisce fra Savonarola e Pier Soderini: il primo grande politico privo di forza; il secondo pieno di forza ma incapace di usarla. Paragone che ci consente di scavare ulteriormente nell’argomento perché dimostra, anzi conferma, come per Machiavelli la forza a sé presa, cioè infondata, non sia in grado di conseguire successi se non è animata da una vigorosa azione politica la quale può essere tale solo quando sgorghi da una radice più profonda nella quale si intrecciano elementi civili, culturali ed anche religiosi.
Come è noto queste posizioni di Machiavelli hanno rappresentato nella cultura italiana, variamente articolate, un vero e proprio paradigma: sono state riprese, per fare qualche nome, da Giordano Bruno o da Pietro Giannone mentre sono state invece radicalmente rifiutate da Fra’ Paolo Sarpi che sostiene una concezione della politica, della religione e dei loro rapporto polarmente estranea a quella di Machiavelli.
C’è però un dato, che emerge invece in modo particolare dal rapporto con Bruno e che conferma la estraneità di Machiavelli alle tematiche ermetiche e magiche. Giordano Bruno nello Spaccio della bestia trionfante riprende molti temi di Machiavelli, come ormai è diventato ordinario sottolineare, ma li situa in un contesto in cui la magia ha un valore decisivo. Per Bruno il politico è un cacciatore d’anima, un vincolatore, un sapiente: appunto un mago; e così del resto Bruno interpretava sé stesso. Machiavelli invece espunge ogni considerazione di questo tipo dalla sua analisi della politica, della potenza, che invece è sviluppata secondo criteri rigorosamente naturalistici, di ascendenza sostanzialmente lucreziana.
A differenza di Bruno che pure riprende a larghe mani Lucrezio ma lo complica alla luce di problematiche neoplatoniche e neopitagoriche aprendosi la strada a una concezione della natura in cui la dimensione magica, sia pure concepita in termini naturali, assume valore centrale. Questa differenza non toglie, però anzi conferma la centralità del paradigma machiavelliano nella storia italiana che lo stesso Bruno svolga una concezione della religione in cui gli elementi civili di matrice machiavelliana hanno un valore essenziale.
Alla luce di quanto si è cercato finora di dire si vede come sia complessa la concezione machiavelliana della politica e come essa abbia connotati caratteristici della cultura rinascimentale, come del resto dimostra ampiamente il paradigma biologico-qualitativo che caratterizza la sua concezione del sorgere, dello svolgersi e del finire delle civiltà. Tanto più colpisce come lungo secoli moderni Machiavelli sia stato progressivamente espropriato dei suoi aspetti fondamentali e sia stato decifrato secondo criteri che appartengono al pensiero politico moderno di Bodin, di Hobbes, ma non a quello propriamente rinascimentale.
Per quanto possa apparire paradossale è stato proprio Antonio Gramsci a sottolineare con energia che l’effettivo fondatore della concezione moderna dello stato va individuato in Bodin e nei libri della repubblica, e non in Machiavelli. Osservazione ineccepibile; eppure lungo i secoli moderni la lezione di Machiavelli, confondendosi con l’esperienza della ragione di stato, è venuta diluendosi progressivamente nel machiavellismo con una perdita radicale della sua originalità e novità.
Fenomeni che si sono particolarmente accentuati soprattutto nei momenti di crisi politica e statuale quando la sua lezione è sembrata imporsi con imprevedibile forza ed attualità. Machiavelli non ha però niente in comune con il machiavellismo e neppure con l’ideologia della ragion di Stato. Quello che a noi tocca oggi fare è confrontarsi con la sua opera per quello che essa è stata ed ha voluto essere senza deformare i suoi lineamenti alla luce di vicende che con la sua esperienza umana e intellettuale hanno poco da spartire.
Ma per fare questo, ed è la mia ultima notazione, va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento e che ora va rimessa in discussione fin dalle fondamenta. Simul stabunt, simul cadent.

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