martedì 11 giugno 2013

Il mio Dostoevskij

San Pietroburgo, Museo Dostoevskij
Tornano i saggi dello scrittore francese sulle opere del grande autore russo

André Gide

"La Repubblica",  10 giugno 2013

Dostoevskij, «il solo che mi abbia insegnato qualcosa di psicologia », diceva Nietzsche. La sua fortuna tra noi è pur stata singolare. De Vogüé che presentava la letteratura russa alla Francia, circa vent’anni fa, sembrava terrificato dall’enormità di questo mostro. Egli si scusava, prevenendo garbatamente l’incomprensione del primo pubblico; grazie a lui, si guardava con affetto a Turgenev: si ammirava con fiducia Puškin e Gogol: si apriva un largo credito per Tolstoj: ma Dostoevskij... decisamente, era troppo russo: de Vogüé gridava al pericolo. Tutt’al più acconsentiva a dirigere le curiosità dei primi lettori sui due o tre volumi dell’opera che egli reputava più accessibili e dove lo spirito si poteva con maggiore indolenza ritrovare; ma con questo stesso gesto egli scartava, ahimè, i più significativi, i più ardui, senza dubbio, ma, possiamo pure osar dirlo, oggi, i più belli. Questa prudenza era, certi penseranno, necessaria, come forse era stato necessario abituare il pubblico alla Sinfonia Pastorale, acclimatarlo lentamente, prima di servirgli la Sinfonia corale. Se fu cosa buona ritardare e limitare le prime curiosità a Povera gente, a La casa dei morti, a Delitto e castigo, è ora tempo che il lettore affronti le grandi opere: l’Idiota, i Demoni, e, sopra tutto, I fratelli Karamazov.
Questo romanzo è l’ultima opera di Dostoevskij. Doveva essere il primo di una serie. Dostoevskij aveva allora cinquantanove anni; egli scriveva: «Constato spesso con dolore che non ho espresso, letteralmente, la ventesima parte di quello che avrei voluto, e, forse anche, potuto esprimere. Quello che mi salva è la speranza abituale che un giorno Dio mi manderà tanta forza e ispirazione, che mi esprimerò più completamente: in breve, che potrò esporre tutto quello che racchiudo nel mio cuore e nella mia fantasia ».
Era uno di quei rari geni che avanzano, d’opera in opera, per una sorta di progressione continua, fino a che la morte non li venga bruscamente a interrompere. Nessun ripiegamento in quella sua focosa vecchiaia, non più che in quella di Rembrandt o di Beethoven, al quale mi piace paragonarlo: un sicuro e violento approfondirsi del suo pensiero.
Senza alcuna compiacenza verso di sé, continuamente insoddisfatto, esigente fino all’impossibile, — e tuttavia pienamente cosciente del suo valore, — prima di abbordare i Karamazov un segreto trasalimento di gioia l’avverte: tiene, finalmente, un soggetto della sua statura, della statura del suo genio. «Mi è raramente capitato», scrive, «di aver da dire qualcosa di più nuovo, di più completo e originale». E questo libro fu quello che accompagnò Tolstoj sul suo letto di morte.
Spaventati dalla sua lunghezza, i primi traduttori non ci diedero, di questo incomparabile libro, che una versione mutilata: col pretesto di un’unità esteriore, capitoli interi, qua e là, furono amputati — e bastarono a formare un volume supplementare apparso sotto il titolo: I precoci.
Per precauzione, il nome di Karamazov vi fu mutato in quello di Chestomazov, in modo di metter fuori strada del tutto il lettore. Questa traduzione era d’altronde assai buona in tutto quello che acconsentiva a tradurre, e io continuo a preferirla a quella che ci fu in seguito data. Forse certuni, rifacendosi all’epoca in cui essa apparve, crederanno che il pubblico non fosse ancor maturo per sopportare una traduzione integrale di un capolavoro tanto rigoglioso: non le rimprovererò dunque che di non confessarsi incompleta.
Quattro anni fa apparve la nuova traduzione di Bienstock e Nau. Offriva il grande vantaggio di presentare, in un volume più serrato, l’economia generale del libro: voglio dire che rimetteva al loro posto le parti che i primi traduttori avevano prima eliminato; ma, per una sistematica condensazione, e stavo per dire congelazione di ognicapitolo, essi spogliavano i dialoghi del loro balbettio e del loro patetico fremito; saltavano un terzo delle frasi, spesso interi paragrafi, e tra i più significativi. Il risultato è netto, crudo, senz’ombra, come sarebbe un’incisione su zinco, o, meglio, un disegno a tratteggio ricavato da un profondo ritratto di Rembrandt. Quale non è dunque la virtù di questo libro per restare, nonostante tante degradazioni, ammirevole! Libro che poté aspettare pazientemente la sua ora, come pazientemente hanno atteso la loro quelli di Stendhal: libro del quale finalmente l’ora sembra giunta.
In Germania, le traduzioni di Dostoevskij si succedono, e ognuna di esse si avvantaggia sulla precedente per scrupolosa esattezza e per vigore. L’Inghilterra, più restia e lenta a smuoversi, prende cura di non restare indietro. Nel New Age del 23 marzo scorso, Arnold Bennett, annunciando la traduzione di Mrs Constance-Garnett, si augura che tutti i romanzieri e novellisti inglesi possano mettersi alla scuola «delle più possenti opere di immaginazione che mai siano state scritte»; e riferendosi in particolare dei Fratelli Karamazov dice: «Lì, la passione raggiunge la sua più elevata potenza. Questo libro ci presenta una dozzina di figure assolutamente colossali».
Chi potrà dire se queste “colossali figure” si siano mai rivolte, nella stessa Russia, a nessuno tanto quanto a noi, direttamente, e se, prima d’oggi, la loro voce è potuta sembrare più urgente? Ivan, Dmitrij, Alioscia, i tre fratelli, così differenti e pure consanguinei, che perseguita e inquieta ovunque la miserevole ombra di Smerdjakov, loro servitore e fratellastro. L’intellettuale Ivan, l’appassionato Dmitrij, Alioscia il mistico, sembrano da soli dividersi il mondo morale che vergognosamente diserta il loro vecchio padre: e io so che essi esercitano già su varie persone un indiscreto fascino: la loro voce non ci sembra già più straniera; che dico? Noi li sentiamo dialogare dentro di noi.
E tuttavia nessun intempestivo simbolismo, nella costruzione di quest’opera: si sa che un volgare fatto di cronaca, una “causa” tenebrosa, che ebbe la funzione di rischiarare la sottile sagacità dello psicologo, servì come primo pretesto per questo libro. Nulla è più costantemente vivo di queste significative figure: mai un solo istante esse sfuggono alla loro pressante realtà. Si tratta di sapere, oggi che vengono portate sul teatro (e di tutte le creazioni dell’immaginazione o di tutti gli eroi della storia, non ce ne sono che meritino di più di salirvi), si tratta di sapere se noi riconosceremo le loro sconcertanti voci attraverso le intonazioni concertate degli attori. Si tratta di sapere se l’autore dell’adattamento saprà presentarci, senza troppo snaturarli, gli avvenimenti necessari all’intreccio in cui si mettono a fronte questi personaggi. Ritengo che egli sia molto intelligente e abile: ha capito, ne sono certo, che per rispondere alle esigenze della scena non basta ritagliare, secondo il metodo ordinario, e servire, così come sono, gli episodi più notevoli del romanzo; bisogna ricollegare il libro alle sue origini, ricomporlo e ridurlo, disporre i suoi elementi in vista di una diversa prospettiva.
Si tratta infine di sapere se acconsentiranno a guardarli con sufficiente attenzione quelli tra gli spettatori che non siano già penetrati nell’intimità di questa opera. Senza dubbio non avranno quella «straordinaria presunzione, quella fenomenale ignoranza», che Dostoevskij deplorava d’incontrare tra gli intellettuali russi. Si augurava, allora, di «arrestarli sulla via della negazione, oppure, almeno, di farli riflettere, farli dubitare». E quanto io scrivo qui non ha altro scopo.

Dostoevskij di André Gide (Medusa, pagg. 160, Prefazione di Colasanti)

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