sabato 15 giugno 2013

Da Proust a Picasso, il tempo dell’arte secondo Bonito Oliva


Antonio Gnoli

"La Repubblica",  14 giugno 2013

Si ha l’impressione che il tempo — quel concetto che almeno da Agostino in poi ha impegnato molta filosofia — non sia più al servizio delle nostre vite. Se guardiamo a quell’asse su cui si è formato il pensiero occidentale moderno si nota che la tensione tra presente, passato e futuro è andata per lo più in frantumi. Avete una qualche idea di che cosa faremo non dico fra qualche anno ma fra qualche mese? Sappiamo ancora leggere quello che ci accade? Solo occasionalmente si chiariscono le ragioni dei fallimenti che ci hanno portato a eleggere il tempo come il momento più alto della crisi che stiamo vivendo. Ma di quale tempo parliamo? C’è un punto che, soprattutto il pensiero novecentesco, ha ritenuto essere il vero motivo di svolta: ossia la percezione che il tempo non può ridursi alla sua misurabilità esterna. Già Henri Bergson aveva parlato del tempo come durata consegnando un problema affascinante, ma anche irto di complicazioni, alla riflessione dell’arte, della psicologia, della filosofia, della musica e della letteratura. Ma se ci sottraiamo ai meccanismi esterni — diciamo pure a una concezione lineare della temporalità — che cosa resta? Freud mise in piedi spiegazioni attinenti all’inconscio; Husserl nel 1905 si dedicò al tema della coscienza interiore; Proust evocò con la sua Recherche l’idea di un tempo ritrovato; Joyce mise potentemente in campo la sensazione che un flusso di coscienza dilatasse e stravolgesse le nostre tradizionali percezioni; perfino il mondo dell’arte non si sottrasse a questo nuovo imperativo cogliendo nelle proprie scomposizioni (si pensi a Picasso o ai surrealisti) anche una precisa trasformazione della concezione temporale. Il “tempo interiore” è il tema che Achille Bonito Oliva ha scelto come guida al secondo volume dell’Enciclopedia delle arti contemporanee (Electa). Un libro, che segue quello dedicato al “tempo comico” e che si avvale di un denso saggio introduttivo di Franco Rella e di interessanti contributi alle singole discipline: musica, architettura, arti visive, cinema, new media, teatro, fotografia, letteratura. Chiude il libro un intervento di Bonito Oliva sulle forme temporali nell’arte. Il ricorso che egli fa al tema del labirinto, della ripetizione e perfino della morte rinvia a un confronto con l’elaborazione iniziale svolta da Rella. Il richiamo a un’idea del tempo come esperienza estranea alla misura degli orologi, e sempre più lontana da quello che sembra essere l’inesorabile ritmo del prima e del dopo, è la cornice ideologica per un approfondimento dell’operato dell’artista nelle attuali condizioni.
Giusto un secolo fa — lo ricorda Rella — De Chirico dipinse Viaggio sconvolgente, un quadro che appartiene alla serie dedicata alla figura mitica di Arianna, eletta per la circostanza a signora del labirinto. Probabilmente influenzato dalla lettura di Ecce Homo di Nietzsche l’Arianna di De Chirico è la dimostrazione visiva che non esiste più linearità (come salvezza o realizzazione) e dunque che nessuna via di uscita è possibile dal labirinto, o meglio ancora dalla città. Improvvisamente lo spazio del moderno — in particolare la metropoli con le sue variegate e funzionali esigenze, interpretate al proprio meglio nel XIX secolo — conflagra, perde i suoi tratti razionali e ordinati per dilatare in modo imprevedibile sui bordi (per dirla con Eliot) di una città irriconoscibile. Quell’avversario temibile del tempo lineare che è stato Walter Benjamin comprese che la metropoli andava in qualche modo ripensata a partire da un’idea di tempo che tenesse conto di questo mutamento radicale. Il fordismo, con la sua ferrea disciplina del tempo di lavoro, misurabile nell’automaticità e ripetizione dei gesti, — così ben rappresentato da Chaplin in Tempi moderni — non fu solo il ripensamento dei criteri razionali della fabbrica, ma anche e soprattutto dello spazio metropolitano. Di un luogo che aveva perso centralità. Fu a questa “catastrofe” che Benjamin, con le sue enigmatiche categorie teologiche, ricorse per spiegare il più generale disastro della storia, le cui macerie sarebbero sotto i nostri occhi.
Le rovine, cui egli alluse, non sono tuttavia solo quelle prodotte dal moderno capitalismo, al cui tempo oggettivo contrappose il tempo improduttivo del flâneur, ma anche quelle prodotte da un passato che avendo perso la fluida capacità di donare senso al mondo, si riversò sul presente con la forza di un terremoto. Niente sarebbe stato più come prima. È su questo paesaggio che l’arte, come ci dice Bonito Oliva, ha disegnato le sue strategie a volte contraddittorie, altre ancora paradossali. Con questa precisazione: se prima l’artista era nel labirinto, ora è il labirinto. Nessuna strategia dell’esitazione, alla quale sembra richiamarsi il critico, è più praticabile. Nessun ricorso all’incertezza, e all’errare è possibile. Più che nel postmoderno siamo di nuovo rituffati nel post-antico.

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