sabato 25 maggio 2013

Wilhelm Furtwängler


Il maestro custode della cultura tedesca e quel rapporto ambiguo con il nazismo

Matteo Persivale

"Corriere della Sera",  22 maggio 2013

«La questione dell'interpretazione è, allo stesso tempo, complessa e semplice. Come in tutti i casi nei quali l'amore gioca un ruolo fondamentale. Fare musica — come compositore o come interprete — è soprattutto un atto d'amore». Così parlò — «Also sprach», come avrebbe preferito lui, uomo dalle sentenze oracolari — Wilhelm Furtwängler, direttore musicale dei Berliner Philharmoniker dal 1922 al 1945 e dal 1952 fino alla morte (avvenuta due anni dopo).
La fama di intellettuale raffinatissimo cresciuto fin da tenera età a contatto con artisti e filosofi e storici, il meglio della cultura tedesca tra Ottocento e Novecento nel salotto di casa (era figlio di Adolf, il sommo archeologo), le filippiche a alta voce contro i direttori (generalmente si riferiva a von Karajan) che secondo lui non conoscevano l'Idealismo tedesco abbastanza bene da poter dirigere Beethoven. Tutta la mitologia nata intorno a Furtwängler: quell'apparentemente gelido maestro autore di interpretazioni tra le più «calde» e dall'impatto emotivo più sconvolgente. Le scelte di tempi inconsuete, il suono orchestrale inimitabile, la capacità analitica. Ma se la magia del Furtwängler direttore ha un che di inafferrabile, è sfuggente anche la scelta centrale della sua vita e della sua carriera.
Quella di restare in Germania dopo il 1933, sotto il Reich: perché al contrario di grandi colleghi come Erich Kleiber (che andò in Sudamerica, dove suo figlio Karl divenne Carlos), Furtwängler scelse di restare. Senza tessera del partito, certo. Presentando certificati medici fasulli per essere esentato dagli eventi di partito. Non facendo, di regola, il saluto nazista. Evitando di aggiungere alle lettere il post scriptum «Heil Hitler». Non amato dai vertici del partito (dei quali lui, per nascita e cultura prima ancora che per questioni politiche o etiche, disprezzava la volgarità). Ma scelse di restare fino all'ultimo, finendo processato dopo la guerra nella sua Germania denazificata, assolto dopo un'inchiesta umiliante che ha dato vita a una piéce e un film appassionanti (Taking Sides del drammaturgo Ron Harwood: il film si chiama A torto o a ragione, la piéce in Italia è stata portata in scena da Luca Zingaretti col titolo La torre d'avorio).
Perché la questione irrisolta è proprio che uno dei dati incontrovertibili — il maestro protesse musicisti ebrei — è anche l'accusa più pesante: da che cosa voleva proteggerli, se davvero non aveva idea delle mostruosità hitleriane? Perché accettò di conferire il suo immenso prestigio al regime? Perché diresse concerti nelle fabbriche belliche sotto una gigantesca svastica, per i gerarchi? I suoi difensori — subito dopo la guerra, Menuhin e Schönberg; in anni recenti, Barenboim e Gergiev — sostennero e sostengono che il quarto direttore della storia dei Berliner (prima di lui soltanto i più grandi, nel Valhalla: von Brenner, von Bülow, e Nikisch) non voleva lasciare l'orchestra in mani indegne, a un pupazzo del Führer.
Chi in quegli anni, per sua fortuna, non c'era, ammira il coraggio luminoso della scelta di Kleiber padre (e di Toscanini che lasciò l'Italia), ma sa anche che condannare è sempre più facile che cercare di capire, ha una via d'uscita. Ascoltare una delle ultime esecuzioni del maestro, malato e prossimo all'addio. Lucerna, 22 agosto 1954. La Nona di Beethoven, con la Philharmonia. A chi ama Beethoven, generalmente basta dire «la Nona di Lucerna», non c'è bisogno di nominare il compositore, né il direttore, l'orchestra o la data. La Nona di Lucerna. Immortale. Senza bisogno di processi. O di scegliere da che parte stare.

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