domenica 26 maggio 2013

Nel labirinto della vita di Kierkegaard


Franco Marcoaldi

"La Repubblica",  26 maggio 2013

Nessuno come Søren Aabye Kierkegaard è riuscito a mascherare il segreto della propria esistenza tra le pieghe di una scrittura capace di sviare di continuo il lettore grazie all’uso di pseudonimi con i quali l’autore si trova poi a polemizzare, prendendone ironicamente le distanze. Quello che Kierkegaard mette in scena è un teatro dell’anima dove regnano finzione, paradosso, inganno, e lo stesso discorso filosofico finisce per celarsi nella divagazione fantastica: teatrale o romanzesca che sia.
Per contro, è difficile pensare a un’opera teorica così immediatamente inscritta nella carne («la conoscenza deve diventare parte viva di me»). Di più: proprio lui, che fa di tutto per soffocare sul nascere le curiosità voyeuristiche sul suo conto, sarà il primo a dire: «un giorno non solo i miei scritti, ma appunto la mia vita, l’intrigante segreto di tutto il macchinario, saranno studiati e ristudiati».
Di fronte a tale vertiginoso enigma, ha deciso di affondare a piene mani Joakim Garff, che è uscito da questo tremendo corpo a corpo con quasi settecento pagine di una biografia (tradotta da Castelvecchi) minuziosa e affascinante, capace di combinare empatia e distacco critico; riuscendo così, con appassionata intelligenza, a restituirci una personalità e una scrittura tra le più alte e labirintiche del pensiero moderno occidentale.
Ogni passaggio vitale di Kierkegaard viene riesaminato e inserito nel contesto storico-sociale circostante. A partire dalla figura ingombrante del padre, Michael, ricchissimo commerciante: uomo di rara severità e parsimonia, la cui tetra rigidità marchierà a fuoco il piccolo Søren, paralizzandolo ed esaltandolo al medesimo tempo. Di qui la furia con cui il giovane teologo attacca frontalmente «l’ordine costituito» del cristianesimo; di qui, anche, l’idea di peccato, che certo graverà sul rapporto con Regine, l’amore mancato di una vita. Dovendo scegliere tra la figura del “marito” e quella dello “scrittore”, il filosofo danese non ha dubbio alcuno. E Garff rincara la dose, aggiungendo: «Kierkegaard era già in partenza sposato con Dio». Delle tre età delle vita (estetica, etica, religiosa), la terza supera di slancio le precedenti solo grazie ad una fede che vive «in forza dell’assurdo» e della sofferenza, al di là di ogni razionalità.
Magro, le spalle curve, il bastone di canna sempre in pugno, il filosofo-poeta passeggia per le strade di Copenaghen e mena fendenti a destra e a manca (celebre la sua stroncatura di Andersen); per converso, patisce con una ipersensibilità che rasenta la paranoia attacchi devastanti, critiche feroci. Capace di passare con estrema disinvoltura «dall’incantevole al demoniaco, dal sentimentale al cinismo rabbioso», Søren sottopone la sua esistenza a una perenne trasfigurazione letteraria. Percepisce se stesso come un semplice “suggeritore”, un ventriloquo che dà vita a quella «sola moltitudine», direbbe Pessoa, di cui è impastato l’animo umano.
La perspicacia psicologica (si pensi alle riflessioni sull’angoscia) lo rende un precursore del discorso freudiano; l’attacco alla mollezza cristiana prelude alle bordate di Nietzsche; i sommovimenti storici gli offrono il destro per sbalorditive profezie sugli effetti della società livellatrice di massa, con il trionfo dei «noleggiatori di opinioni» e della chiacchiera universale.
Senza contare — da ultimo — lo scardinamento del sistema hegeliano operato in parallelo a Schopenhauer. Ma c’è qualcosa d’altro che lo avvicina al filosofo di Danzica, pure tanto diverso da lui: l’assoluta centralità dello stile. Nessuna idea filosofica può ambire al successo se il filosofo che la elabora non è al contempo uno scrittore, uno strenuo cultore dello stile. Che in Kierkegaard si presenta, per tornare a Garff, nella forma di una personalissima «gaia scienza, una sorta di anti intellettualismo intellettuale, sotto la cui pressa parodica i concetti si incrinano e si spaccano».

SAK di Joakim Garff, Castelvecchi, Traduzione di Simonella Davini e Andrea Scaramuccia, pagg. 1855

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