mercoledì 15 maggio 2013

Incontri mancati. Quando Dostoevskij non conobbe Dickens


In una biografia dello scrittore inglese compare un evento 
"inventato" con ricchezza di dettagli.

Nadia Fusini

"La Repubblica", 14 maggio 2013

Gente allegra, gli inglesi. Famoso lo humour britannico. Riconosciuto nel mondo, ammirato quale esempio d'intelligenza urbana, raffinata ironia. Wit è parola intraducibile, che assegna alla cultura inglese un primato dello spirito. Esiste però un'altra parola, già nel suono più dura: hoax, che allude a uno scherzo che è anche mistificazione, imbroglio. Noi diremmo una "bufala". O con parola più antica, una beffa.
È questo il caso di una burla di cui dà conto con animata esattezza Eric Naiman, studioso di letteratura russa, in particolare di Nabokov, nel TLS del 12 aprile. Accade che Claire Tomalin, stimata biografa di Jane Austen, di Katherine Mansfield, di Mary Wollstonecraft, nella sua vita di Dickens del 2011 dia contezza di un incontro avvenuto a Londra nel 1862 tra il suo biografato e Dostoevskij.
A volte la realtà supera la fantasia e capitano davvero cose che fantastichiamo e grande è la soddisfazione! Niente, in quell'episodio, poteva mettere in dubbio la fiducia dei lettori. Le cose sarebbero andate così: essendo nel 1862 Dostoevskij a Londra per una settimana va a trovare Dickens nel suo studio a Wellington Street, dietro Covent Garden. Chiacchierano (anche se a pensarci bene, non si sa in che lingua) confidenzialmente (anche se in verità, nessuno dei due risulta particolarmente incline al tono confessionale nella conversazione), quando d'un tratto Dickens viene fuori con una confessione tanto intima, quanto sconcertante. Dice, più o meno alla lettera: «Ci sono due uomini in me, uno che prova tutto ciò che un uomo dovrebbe provare, e l'altro che prova l'opposto. Da quest'ultimo nascono i miei personaggi malvagi, mentre dal primo, che prova ciò che un uomo dovrebbe, mi faccio guidare nella vita quotidiana».
Straordinaria apertura all'altro da parte di uno scrittore niente affatto versato nelle pieghe psicologiche, che pure qui rivela interiori complessità anticipando tormenti di una doppiezza alla Oscar Wilde. Ma ancora più straordinaria è la risposta di Dostoevskij, il quale a quel "ci sono due uomini dentro di me" di Dickens, ribatte: «Solo due?». Reazione perfetta da parte dell'"inventore della polifonia", secondo la famosa definizione del suo lettore più profondo, Michail Bachtin.
Di fronte a un così succoso risultato, perché non credere al contatto? Sennonché, vuoi in ossequio a un'idea di verità lapalissiana, o in scacco a un'immaginazione credulona, studiosi di area slava si mettono a studiare e sul web cominciano ad accumularsi sospetti... A questo punto si richiede a Claire Tomalin di denunciare da dove abbia preso conoscenza dell'incontro; lei torna ai suoi appunti e rivela di aver letto dell'episodio in un articolo uscito su The Dickensian, la rivista dell'associazione di affiliati dediti alla suprema missione di diffondere il verbo dickensiano. D'accordo, nelle sue pagine si confondono eruditi e fan profani, entusiasti e ammiratori. Tra questi, una certa Stephanie Harvey offriva la notizia- bomba. In modo all'apparenza veritiero e genuino, senza strilli, con un titolo senza pretese - "I cattivi in Dickens: una confessione e un'ipotesi" - più che sull'incontro in sé, l'articolo insisteva sul modo in cui nascono i personaggi malvagi dello scrittore; intendeva, insomma, mettere in luce in quale intimo recesso dell'animo di Dickens riposasse la sua conoscenza del male. Illuminante, a tale proposito, risultava la battuta fulminante dello scrittore russo che più di ogni altro ha scrutato nel sottosuolo. Quanto alla fonte del dialogo si rimandava a una lettera scritta da Dostoevskji a un amico anni e anni dopo l'incontro.
Perché non crederle? Claire Tomalin ci casca. A occhi più prudenti, però, la lettera non risulterà pubblicata nell'edizione ufficiale dell'epistolario... Perché? Perché non esiste. È inventata.
Esibendo virtù insospettate di detective, Naiman si avventura nella ricerca di chi sia Stephanie Harvey, e scopriamo che neanche lei esiste... E ci ritroviamo presi in un gioco alla Pessoa, in una danza di eteronimi e ortonimi, che apre il campo a una caccia imbarazzante e caotica, dove il tono creativo del gioco vira verso sinistre vendette. Risuona in primo piano il fine di smascherare la fessaggine degli specialisti - compito in sé non troppo nobile, ma su cui potremmo concordare, non fosse il suo scopo puramente disfattista, losco. Perché la verità è che nella ridda di eteronimi si nasconde un accademico insoddisfatto, un bugiardo, un truffaldino, un falsario che svergogna l'accademia e la imbroglia per puro risentimento e la colpisce al cuore nella sua "buona fede", che dissacra. E con essa la pietra angolare del patto dello studioso con il suo lettore. Ricordo che la parola trust, ovvero fede, fiducia, credibilità, esprime una virtù primaria di quella cultura.
Dunque, dovremo rassegnarci: Dickens e Dostoevskji nella realtà non si sono incontrati. Rimane che l'incontro avrebbe potuto avere luogo. Rimane che v'è un genere di autobiografia congetturale ormai piuttosto alla moda: in gran parte su supposizioni fantasiose è costruita la vita di Shakespeare ricreata da Stephen Greenblat nel 2005. Senza contare che spesso negli incontri reali domina il silenzio.
Come nella famosa passeggiata di Paul Celan con Heidegger tra i sentieri della Foresta Nera il 25 luglio del 1967. I due che si erano cercati e scritti per anni ora per la prima e unica volta insieme, rimangono in totale silenzio. Nascerà però qualche giorno dopo, il 1° agosto, la poesia Todtnauberg. Lo stesso silenzio avvolge l'incontro di tra Maria Zambrano e Simone Weil avvenuto trent'anni prima a Madrid, a casa del poeta Rafael Alberti. Accolte dalla moglie Maria Teresa, le due filosofe, discepole una di Alain, l'altra di Ortega, rimasero sedute sul divano in silenzio per mezz'ora.
Più recentemente, nel 1976, all'Opéra-Comique di Parigi, alla prima del Romeo e Giulietta di Carmelo Bene, quando Jacques Lacan entusiasta gli si presenta in camerino, l'attore esausto e sudato sussurra un riverente «Bonsoir, maître»; al che l'altro risponde: «Jacques Lacan, pas maître». Immobili, non transitano verso altri convenevoli, affidando al silenzio il compito di custodire la reciproca ammirazione.
Più di un secolo prima, nell'aprile 1842, sempre col silenzio Schumann s'era difeso dall'irruente passione retorica di Wagner, giudicandolo arrogante e confuso. E soprattutto troppo rumoroso.

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