martedì 21 maggio 2013

All’Inferno e ritorno



"Domenicale del Sole 24 ore", 19 maggio 2013

Rileggere l’Inferno di Dante, se lo si è già letto e studiato un po’, porta via grosso modo una domenica, mattina e pomeriggio, con un’ora di pausa pranzo e mezz’ora per la passeggiata. Alla fine sono un po’ più di 14.000 versi, e nella domenicalità è compreso anche il diritto di non inseguire proprio tutti i dettagli nelle note e di non mandare a memoria vita morte e miracoli (è il caso di dirlo) di tutti i personaggi che Dante incontra o cita: se passa subito di mente chi era Puccio Sciancato de’ Galigai, pazienza. È una domenica ben spesa: il libro è pieno di bellezze che uno si ricordava benissimo, e che è un piacere ritrovare, mentre alcune se l’era dimenticate, o non ci aveva mai fatto veramente attenzione, e la lettura d’un fiato le fa venire a galla. Qualche esempio più avanti.
Prima, per essere sinceri, bisogna anche ammettere che il rilettore ogni tanto si annoia un po’.
È una frase che indispone quando viene detta parlando di un film degli anni Cinquanta, figuriamoci quando si parla della Commedia, ma sì, certi passi sono un po’ lenti, anche in quel prodigio gore di fuoco sangue mostri che è l’Inferno. Cioè: data la velocità massima di Inferno X, Farinata degli Uberti che dà sulla voce a Dante-personaggio, senza neanche che Dante-poeta dica disse: «O tosco che, per la città del foco…» e poi sciorina in cento parole mezzo secolo di storia fiorentina, e poi viene interrotto dall’ombra di Cavalcante – data questa concitazione, questo intreccio di destini, bisogna anche dire che in altri punti le cose vanno diversamente, e il rilettore è tentato di tirare via veloce, o addirittura di saltare. Poniamo: tutta l’incredibile capacità che Dante aveva di vedere, di sentire la materialità delle cose, e tanto meglio quanto più minute (come il socchiudere gli occhi del sarto quando infila il filo nella cruna), diventa quasi mania quando spende quaranta versi per descrivere la fatica che lui e Virgilio fanno nello scendere in Malebolge (XXIV 25-66). E, nello stesso canto, diciotto versi di similitudine per dire che Dante-personaggio passa dalla paura al sollievo vedendo Virgilio rasserenato («lo villanello a cui la roba manca / si leva…») sono ovviamente uno splendido virtuosismo, l’impronta del genio, ma sono anche un po’ un’esagerazione. E si ha un bell’insistere sulla modernità di Dante, sul realismo di Dante: a rileggerlo di fila sembra tutto più medievale di come ci si ricordava, tutto pieno di simboli araldici da interpretare con in mano il libro delle equivalenze: la lupa la lonza il leone vogliono dire avidità lussuria superbia; i sette muri della città sono simbolo forse delle arti liberali, il fiume che si calpesta «come terra dura» (chi se lo ricordava?) vuol dire forse il fermo amore per la conoscenza, Gerione è l’immagine della frode. Nel quarto canto le allegorie si ammucchiano, s’ingorgano, o forse sono solo stereotipi che sembrano ‘stare per’ qualcos’altro, ma insomma non sembra neanche Dante, sembra uno di quei romanzi di fate e cavalieri, col loro mobilio di castelli fiumiciattoli giardini incantati: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello. / Questo passammo come terra dura; / per sette porte intrai con questi savi: / giungemmo in prato di fresca verdura».
Ciò premesso, i piaceri non mancano, e sono soprattutto piaceri che derivano dal vedere come Dante ha risolto gli infiniti problemi che si trovava di fronte.
Intanto, i personaggi. Dante poteva popolare la sua visione di figure simboliche, come avevano fatto gli autori del Roman de la Rose, e invece l’ha popolata di gente in carne e ossa, che per una sfacciata licenza poetica si tiene la carne e le ossa anche nell’aldilà. Poteva mettere in scena le donne e gli uomini di cui aveva imparato i nomi nei libri, come farà Petrarca nei Trionfi. Dante fa anche questo. Ma fa soprattutto un’altra cosa, molto più originale: mette in scena donne e uomini prelevati dalla cronaca contemporanea, gente che ha fatto in tempo a conoscere, o di cui ha sentito parlare da qualcuno che l’ha conosciuta. Dopodiché mescola antichi e moderni, li fa stare gomito a gomito per l’eternità nel suo aldilà immaginario. Salvo che nell’Inferno sembra esserci una regola in più, e la regola è che Dantevede personaggi che appartengono un po’ a tutte le epoche, dall’antica Roma all’Egitto, ai tempi della Bibbia, ma ha un dialogo soltanto con personaggi che appartengono alla sua epoca. Vede – poniamo – Semiramide, ma parla con Francesca.
Risolto il problema di inventio relativo all’assortimento dei personaggi, e risolto nel più eclettico dei modi – tanti, e di epoche e paesi diversi –, restava il problema della dispositio: come presentare tutta questa gente senza ripetere ogni volta la stessa formula, cioè senza annoiare? Ecco alcuni dei modi scelti da Dante. Ritardamento: Dante introduce un nuovo personaggio ma non dice se non dopo molti versi di chi si tratta. Sorpresa: il nuovo personaggio entra in scena all’improvviso, senza essere annunciato (è il caso di Farinata). Formula epigrafica, anzi da epitaffio: il personaggio si presenta da sé, senza che l’autore commenti (è il caso di Pia dei Tolomei). Catalogo: quando Dante, anziché parlare coi trapassati, si limita a pronunciarne o a farne pronunciare il nome. Eccetera. A volte il procedimento è un po’ meccanico. Nel canto XVII Virgilio manda semplicemente Dante a farsi un giro per la bolgia, mentre lui – come si fa con un taxista – prende accordi con Gerione. Dante va e incontra uno Scrovegni, che a sua volta gli predice la dannazione di due usurai ancora viventi; dopodiché Dante torna indietro e Gerione è pronto a partire. Un po’ meccanico. Ma generalmente l’obbligo di variare sollecita delle supreme invenzioni di regia. Suprema tra le supreme, nell’Inferno, quella che mette in fila i papi simoniaci nel canto XIX: quando un uomo sepolto a testa in giù che si rivela essere papa Niccolò III scambia Dante per Bonifacio VIII («sè tu già costì ritto, / sè tu già costì ritto, Bonifazio?») e prevede la dannazione sua e del suo successore Clemente V.
Altro problema da risolvere: sogno o veglia? Il viaggio della Commedia sarà un viaggio presentato come reale, vissuto in stato di veglia, oppure come un sogno? Di fatto, è una via di mezzo: Dante dice di aver perso il sentiero perché era «pieno di sonno», ma non dice di essersi addormentato. E nel seguito del racconto c’è poco o niente che possa far pensare a un sogno, e non c’è neppure una netta distinzione tra cose che vanno prese alla lettera e cose che vanno prese come simboli. Smarrirsi in un bosco, per noi, è subito un’allegoria. Ma smarrirsi in un bosco e aver paura di non uscirne fuori doveva essere un’esperienza che molti avevano vissuto, al tempo di Dante, e che tutti potevano figurarsi di vivere. Ma certo, quando Dante parla del «passo / che non lasciò già mai persona viva», o quando leggiamo che la lupa reale che si para dinnanzi a Dante «molte genti fé già viver grame», sappiamo che qui siamo su un piano distinto da quello della lettera, che il passo e la lupa vogliono dire altro da quel che sembrano. Eppure il lettore, e persino il rilettore, condivide l’angoscia del protagonista, che non sa qual è il monte che si trova a scalare, non sa perché contro di lui si schierano le tre fiere, non sa almeno in un primo momento chi è l’uomo che vede e che lo salva mentre stava rovinando «in basso loco». È difficile pensare a un altro racconto medievale in cui l’esitazione, il dubbio circa il luogo in cui si situa la vicenda sono mantenuti così a lungo. Se fosse un sogno, tutto sarebbe subito chiaro. Se fosse pura allegoria, anche. Ma il fatto che sogno e veglia, lettera e allegoria non si lascino separare con un taglio netto acuisce il senso di mistero.
E poi, come ammobiliare la scena? Cioè, come descrivere lo spazio che Dante-personaggio attraversa? Nel Paradiso la fantasia è libera, perché Dante deve descrivere l’esperienza inaudita dell’ascesa attraverso i cieli e dell’incontro con anime che non hanno fattezze umane. Inferno e Purgatorio, invece, sono luoghi ultraterreni fatti di cose terrene, cioè di muri, sentieri, ponti, rocce, acqua, ghiaccio, fango, sterpi, fuoco… Persino il volo circolare di Gerione, alla fine del canto XVII, che è il più irreale, fiabesco dei ‘passaggi’ che Dante prende nel suo cammino attraverso l’inferno, viene ridotto a una misura terrena: Gerione plana come un falco, a larghi giri.
Questo richiamo alla terra ci ricorda un fatto che il lettore e il rilettore della Commedia tendono a non vedere (per merito di Dante, non per demerito loro), e cioè che la grandissima parte di quella realtà che, come tutti notano, brulica nella Commedia, esiste, di fatto, soltanto nelle similitudini. Chi ricorda i primi versi del canto XXI («Quale ne l’arzanà de’ Viniziani…») ha negli occhi l’arsenale di Venezia con gli operai che impeciano i legni delle navi, «chi da proda e chi da poppa». Ma è chiaro che tutto questo, sulla scena in cui si muove Dante, non c’è, sulla scena c’è solo un lago di pece bollente. È un’invenzione che sta dentro un’invenzione che sta dentro un’invenzione: Dante immagina l’inferno, e dentro l’inferno mette una pozza di catrame, e da questa pozza di catrame nasce l’arsenale di Venezia. In un modo non molto diverso, un sentimento d’angoscia produce tutti gli eventi e le figure che popolano un sonetto come Un dì si venne a me Malinconia o una canzone come Tre donne intorno al cor mi son venute: la Malinconia non c’è, le tre donne non esistono veramente, eppure sono cospicue, eppure agiscono. È come se la realtà vista o sentita rimandasse ad altro: ma non a un altro simbolico, ad altra realtà – la figura è quella della contiguità, non quella della metafora.
Ho riletto l’Inferno perché è da poco uscito un nuovo commento alla cantica a cura di Saverio Bellomo. Recensire i commenti non è facile, perché di solito non si legge un commento da cima a fondo, specie quando si conosce già l’opera: e il giudizio si fa caso per caso, verso per verso. Quello che posso dire, in generale, è che il commento di Bellomo non ha nessuno dei difetti che si trovano in altri commenti: non è mai retorico, non è inutilmente erudito, non è pletorico, cioè non dà informazioni che non siano utili alla comprensione del testo; l’annotazione è misurata, i problemi filologici illustrati e discussi senza bizantinismi. Le note messe all’inizio e alla fine di ciascun canto mi sembrano, per le prove che ho fatto, un modello di rigore, chiarezza ed equilibrio: equilibrio che è sempre arduo da raggiungere, in questa materia, data la frequente ambiguità del dettato dantesco e il proliferare delle interpretazioni. Inoltre, Bellomo può contare su una rara conoscenza degli antichi commenti alla Commedia, qui ottimamente messi a frutto. Nel complesso, mi pare una guida eccellente nella lettura dell’Inferno, forse la migliore.

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