giovedì 25 aprile 2013

Sindrome Machiavelli


Si apre a Roma una mostra per il cinquecentesimo anniversario 
dell’opera più famosa del Segretario fiorentino

Benito Mussolini, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi hanno scritto prefazioni al Principe
Il duce esalta il proprio ruolo storico, il segretario del Psi polemizza con il Pci, 
il leader del Pdl sottolinea l’importanza di curare la propria immagine
Un libro a cui tre politici italiani hanno voluto scrivere la prefazione
Rivelando senza volerlo la loro concezione del potere

Filippo Ceccarelli

"La Repubblica",  24 aprile 2013

Gli allor ne sfronda, d’accordo. Ed alle genti svela, non c’è dubbio. Ma tralasciando per un attimo le lacrime e il sangue, che pure non mancano in questa avvincente storia di biblio-politica, vale innanzi tutto prendere in esame la straordinaria coincidenza per cui nell’arco di quasi un secolo ben tre presidenti del Consiglio, o aspiranti tali, comunque tre autentici leader italiani, insomma Mussolini, Craxi e Berlusconi, si sono sentiti in dovere di scrivere di loro pugno, o almeno di firmare per interposto ghostwriter, una prefazione al Principe.
E la prima notazione che viene in mente, prosaicamente, a un giornalista politico, è che quegli scritti non hanno portato fortuna a nessuno dei tre. Come se il loro avventurarsi in quel testo gli fosse stato fatale. Di più, e anche peggio: come se l’aver ceduto alla tentazione di misurarsi con la scienza esatta del comando mischiando storia e attualità, passato e opportunità; come se il vezzo di presentarsi come statisti in grado di colloquiare con la grande anima di Niccolò Machiavelli, ecco, l’impressione che si ricava è che tali prove abbiano comportato per ciascuno dei tre capintesta uno speciale e personalizzatissimo castigo. Una specie di contrappasso legato proprio a ciò che nelle loro prefazioni si erano inorgogliti di sottolineare.
Che poi, a pensarci bene, indica una concezione un po’ punitiva della storia, e ancor più del potere, specie quando questo perde di vista la sua insostituibile funzione per automagnificarsi, esercizio di norma eseguito schermando le proprie magagne e cialtronerie dietro la prepotenza e la menzogna. Oppure, come in questo caso, dietro una coltre intellettuale, per giunta invocando a sostegno l’autorità del Segretario fiorentino. Ma senza rendersi conto che proprio questa gli si sarebbe poi ritorta contro. E allora, con la piena coscienza che il senno di poi è chiave suggestiva, ma non sempre esaustiva delle umane vicende, si comincia col dire che il Preludio al Machiavelli dell’allora quarantenne Benito Mussolini fu composto all’inizio del 1924 come prolusione da pronunciarsi in occasione di una laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Bologna.
Ma a parte l’approccio stilistico così sbrigativo da suonare infastidito, e a parte l’efficace megalomania che porta l’autore a trattare con Machiavelli da pari a pari, pure rivelando qui e là impellenze di scoperto narcisismo (là dove scrive, ad esempio, «ben prima del mio famoso articolo»), in un tempo specialmente attento alle forme e alle immagini ciò che oggi più impressiona di quel testo sono le primissime righe.
Lo spunto cioè per il quale Mussolini ha troncato gli indugi che evidentemente lo trattenevano dall’iniziare quel testo: «Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola – dalle legioni nere di Imola – il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli “Cum parole non si mantengono li Stati”».
Con le parole non si mantengono gli Stati. Anche perché a un certo punto il popolo, quest’entità così svalutata da Mussolini, si impossessa di quella spada e trova il modo di levarsi di torno chi l’ha portato alla fame e alla disfatta. (...) Ma per tornare al Principe, e proprio alla luce di quel precedente, occorre chiarire che Craxi firmò sì la prefazione, ma non la scrisse lui, e anzi nel caso specifico nemmeno una correzione volle apportare a quel testo, pur assumendosene per intero la titolarità, inclusi vantaggi e svantaggi. Non è, rispetto al Preludio di Mussolini, una differenza da poco.
Ebbene, l’uomo che materialmente stese la prefazione al Principe firmata da Bettino Craxi era il giornalista e a lungo direttore dell’Avanti!, Franco Gerardi, cui si devono molti dei discorsi pronunciati da Craxi negli anni di Palazzo Chigi, nonché la maggior parte dei corsivi usciti sul quotidiano del Psi. Il cuore politico e il pretesto polemico dell’operazione risiedevano in un attacco alla lettura gramsciana dell’opera di Machiavelli, secondo cui il moderno Principe si identificava nel partito. In tale impostazione che, come ricorda Gerardi con qualche riserva, «mi valse una accusa di asineria da parte dell’Unità», giocavano soprattutto, per non dire esclusivamente, motivi di attualità politica: «erano i tempi dell’orgoglio socialista – spiega oggi lo pseudoCraxi di allora – e ogni occasione era buona per sottolineare le differenze con il comunismo. Così sottolineai, troppo, quel fine che giustifica i mezzi, quel machiavellismo deteriore che poi era la versione italiana del leninismo del Pci, lasciando in ombra la grande figura di Machiavelli, il fondatore dello Stato moderno». (...) Se il Preludio di Mussolini colpisce per l’energica, sbrigativa intensità con cui il duce si prenotava un posto nella storia, e il testo giornalistico di Craxi-Gerardi si fa notare per la scoperta funzione di attacco politico al Pci, le paginette di Berlusconi paiono poco più che di circostanza. anche se a loro modo sono rivelatrici.
Come i suoi predecessori, dopo un minimo di inquadramento storico, il Cavaliere giudica l’opera di Machiavelli valida «anche ai nostri giorni», ma ne estende l’utilità a «tutti coloro che gestiscono posizioni di responsabilità», quindi non solo ai politici, e lui allora non lo era. Ciò detto, sarebbe temerario azzardare l’ipotesi che nel menzionare in conclusione l’auspicio che «dopo tanto tempo l’Italia vegga uno suo redentore», il futuro presidente stesse pensando a se stesso e a quell’impegnativo ruolo. Ma tra i molti suggerimenti che il Machiavelli trasmette, e che Berlusconi accoglie e raccomanda, oltre a quello di mirare sempre in alto «come gli arceri prudenti» e a quel-l’altro di saper essere a seconda dei casi leone e volpe, ce n’è un paio che egli doveva sentire particolarmente vicini al suo modo di essere e che riguardano la fama e la considerazione degli altri. in pratica quel complesso di segni, indizi, atteggiamenti e comportamenti che egli sintetizza nella necessità di «curare con la massima attenzione la propria immagine, perché – spiega citando Machiavelli – “ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se”». Il motto ricorre, sopra lo stemma aziendale, anche nel segnalibro accluso all’edizione extralusso. E seppure è vano tirare bilanci sull’attualità, e tanto più in questa sede, è anche vero che tra gloria e successi, sconfitte e processi, fallimenti e scandali di ogni variopinto genere, la vicenda berlusconiana sembra essersi accesa e consumata proprio intorno alla fama e all’altrui considerazione, per non dire intorno all’attenta, ma anche alla mancata, cura dell’immagine dell’imprenditore, del leader, del presidente, oltre che dell’uomo. Tutto è avvenuto, è vero, e seguita ad avvenire senza che grondino lacrime e sangue, come nel caso di Craxi e di Mussolini. Ma al giorno d’oggi è come se il potere se ne andasse a picco o in fumo o alla malora in un clima perturbante di ridanciana euforia, come dinanzi a un cataclisma lungamente annunciato da cafoni, buffoni, luminarie, coriandoli e cenere. e ancora una volta il Principe si conferma un testo radioattivo, che poi sarebbe un modo scombinato per dire che tutto alla fine si rende e un po’ anche si paga: «Perché si trova questo nell’ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro», ed è una massima che si è cercata nelle tre illustri prefazioni, ma invano.

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