sabato 27 aprile 2013

Messer Boccaccio che difese le donne


Un’eloquenza ricchissima a favore dei sentimenti nei «dilicati petti»
Un grande narratore da rileggere e rivalutare. 
Soprattutto quando si schiera a sostegno della causa femminile, 
dando voce ai tormenti e alle passioni di schiere di ragazze e signore. 
Come Ghismonda
Egli fu sempre in grado di tenere conto del dislivello tra sessi, 
con le donne escluse dalla sfera culturale

Renato Barilli

"L’Unità",  27 aprile 2013

I CENTENARI SONO UTILI PERCHÉ CI STIMOLANO A RILEGGERE I CLASSICI CERCANDO DI SPREMERNE FUORI MESSAGGI SEMPRE RINNOVATI E SUL FILO DELL’ATTUALITÀ. Non fa certo eccezione a questa regola aurea il caso del Boccaccio (1313-1375), la cui opera è ben lungi dal doversi considerare esaurita nei tanti motivi che se ne possono trarre. E si può partire proprio da certi aspetti che a questo grande autore si riconoscono per convenzione, tanto da averne modellato l’appellativo di «boccaccesco». A questo aggettivo si possono dare due significati, uno non alieno dal suscitare qualche sospetto e forse da limitare, se non proprio da abbandonare, un altro, invece, di sorprendente e non ancora del tutto sondata profondità.
L’autore di Certaldo è «boccaccesco» non tanto per una sua presunta capacità di inventare storie gremite, articolate, pronte anche a toccare aspetti pruriginosi, mosse insomma da una fantasia illimitata. Al contrario, chi ha avvicinato con gli strumenti della filologia i vari capolavori del grande narratore, e in particola l’opera massima, il Decamerone, ha potuto constatare che quasi tutte le trame erano a lui preesistenti, egli non ha fatto altro che recuperarle, col fine principale di metterle in bella forma.
Già qui si sfiora un motivo di attualità, si può infatti considerare il Boccaccio quale un campione di «riscrittura», di colui che non inventa, ma muta la chiave espressiva delle storie prese da altri. Col che, si passa alla seconda accezione del «boccaccesco», che questa volta è tuttora pienamente rispondente, e anzi da accentuare, da portare agli ultimi esiti. In questo caso ci si rivolge al suo periodare complesso, ricco di incisi e di subordinate, proprio di chi non si limita a riportare «storie» nude e crude, nel puro andamento della trama, ma le arricchisce senza fine di aggiunte, perifrasi, subordinate, nell’intento di circostanziare, precisare, fornire dettagli ulteriori. Basterebbe fare il confronto tra la nuda e scarna povertà di certe vicende quali si incontrano nel Novellino, dovuto a un anonimo scrittore del Duecento, e la pienezza di particolari con cui il Boccaccio le riscrive. Perché egli è stato un allievo ideale di Cicerone, e del suo periodare gonfio, esuberante di svolte e dilatazioni. Sta in ciò l’appartenenza del Boccaccio al fenomeno storico dell’Umanesimo.
Ma la gonfiezza di Cicerone, che magari sui banchi di scuola abbiamo imparato a detestare, era in realtà al servizio della professione in cui eccelleva, quella di avvocato, il quale deve essere eloquente al massimo, disteso nel presentare i casi, pro o contro la persona sotto esame. Ebbene, questo è stato il Boccaccio, attraverso il suo strenuo ciceronismo, un grande avvocato, ma a favore di quale causa?
Qui possiamo scoprire in lui un motivo di straordinaria attualità: egli ha patrocinato con ardore, esuberanza, eloquenza generosa e illimitata la causa delle donne. Bisogna premettere che per lui il tema dei temi, in tutta l’opera, è stato quello dell’amore, psicologico e anche fisico, tra l’uomo e la donna, ma subito accompagnato dalla constatazione di un dislivello. Le donne, a suo avviso, nei loro «dilicati petti», sentono, soffrono, vivono più dei maschi le pene d’amore, però mancano di strumenti per comunicarle adeguatamente. Il Nostro parte da una precisa diagnosi sociologica. Le donne, ai suoi tempi, anche se di ceto alto, erano escluse dal ricevere una buona educazione scolastica, non sapevano insomma di latino, non accedevano ai sacri testi ciceroniani, mentre d’altra parte restavano vittime dell’ozio, non essendo concesso loro di lavorare, a differenza delle consorelle degli strati popolari. E dunque, bisognava pure che qualcuno parlasse per loro. Questa la nobile causa cui il Boccaccio si presta, con impegno e devozione: dare la parola, e nei modi più ampi, articolati che la sua frequentazione di Cicerone gli consente, a quei tormenti e passioni muliebri che altrimenti sarebbero condannati al silenzio.
Troviamo in ciò la chiave principale che si può applicare alla maggior parte degli scritti del nostro autore, con applicazione quasi ad apertura di pagina. Tra la infinità di luoghi in cui questo elementare teorema potrebbe essere verificato basterà qui andare a compulsarne due. Per esempio, l’Elegia di Madonna Fiammetta concepita dal Nostro nel fecondo periodo del suo soggiorno a Napoli, allora capitale economica e culturale non seconda a Firenze. Vi si narra di una donna di nobile nascita, mal maritata come allora succedeva a un anziano «buon partito» che la trascura, ma concedendole il diritto di farsi un amante, pur di rispettare le apparenze. Sennonché questo giovane partner si allontana dicendole che deve tornare a Nord dove vive il padre, che essendo morente vuole sistemare con lui le questioni ereditarie, ma stia tranquilla, Fiammetta, che lo vedrà ritornare al più presto. Però passano i giorni, lui non si ripresenta, e anzi ben presto le giungono voci che sta per sposarsi con un conveniente partito della sua terra. Questi i fatti, che suscitano in Fiammetta una serie di commosse orazioni a tutela dei diritti, suoi e delle consorelle, contro il maschio traditore, in un balletto incessante tra la speranza in un ritorno e la cupa delusione di un abbandono definitivo.
Ma rivolgiamoci pure al Decamerone, giornata quarta, dedicata proprio agli amori che vanno a finire male, tra cui quello della Ghismonda, figlia di un principe titolato, Tancredi. La giovane ha la cattiva idea di innamorarsi di un giovane paggio, un legame sconveniente, agli effetti sociali, il che induce il padre a sopprimere addirittura l’indegno pretendente. Quando Ghismonda lo sa, pronuncia un’orazione sublime, che si solleva al livello della tragedia e potrebbe essere declamata sulle scene. O meglio, è l’avvocato Boccaccio a metterle in bocca una delle più belle e commoventi orazioni di tutti i tempi. Questo in deroga, evidentemente, ai canoni di una piatta verosimiglianza psichica, in primo luogo per la ragione a lui ben nota che le donne in quegli anni non erano capaci di tanta eloquenza, e poi per l’altra ragione ancor più cogente che chi è in uno stato di profonda emozione non riesce quasi a parlare. Invece la Ghismonda professa una delle più belle dichiarazioni a favore dell’uguaglianza dei diritti, non conta nulla la nobiltà di sangue, a confronto con quella dell’animo. Male ha fatto il padre-padrone a sopprimerle la generosa figura dell’amante, non pretenda che la figlia accetti quell’ignobile verdetto, essa intanto sente di continuare un dialogo spirituale con l’ombra dell’adorato, e non vuole tardare a raggiungerlo buttandosi dalla finestra e dandosi la morte.
La causa del femminismo è così superbamente tutelata, con anticipo di secoli rispetto allo stato attuale delle cose, in cui le distanze tra i sessi non sono ancora del tutto superate. Non guasterebbe un Boccaccio che si ripresentasse in panni attuali a riprendere la sua perorazione così straordinariamente anticipata e preveggente.

PER APPROFONDIRE:
Radio Svizzera Italiana, Boccaccio e le donne,  con Corrado Bologna e Antonella Anedda. CLICCA QUI.

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