sabato 6 aprile 2013

IN TEMPI DI CRISI LA FILOSOFIA RISCOPRE LA FELICITÀ


Libri, riviste, film affrontano di nuovo il tema

ROBERTO ESPOSITO

"La Repubblica", 6 aprile 2013 

È possibile, e che senso ha, in tempo di crisi strutturale, parlare di felicità? Si tratta di un tema scomparso dal nostro orizzonte di attesa o di una inesauribile riserva di senso di cui comunque non possiamo fare a meno? Una risposta positiva a queste domande viene adesso dalla rivista Filosofia politica, che dedica ben due fascicoli, curati rispettivamente da Carla De Pascale e da Laura Bazzicalupo, all’argomento. Il presupposto di partenza è che intanto l’inverno che ha congelato ogni aspettativa di benessere, prima o poi dovrà dare luogo a una nuova primavera. Ma, ancora di più, la circostanza che il concetto di felicità è emerso in superficie, o si è radicalmente rinnovato, proprio nelle situazioni di crisi. È quanto è accaduto nella stagione delle guerre di religione in Inghilterra, quando filosofi come Hobbes e Locke l’hanno posto al centro del proprio pensiero; e poi, ancora di più, durante la rivoluzione francese, allorché le riflessioni di Rousseau e Voltaire sembrano essersi realizzate in una pratica di felicità pubblica. È allora che, forse con un eccesso di ottimismo, Saint-Just ha ritenuto possibile non vedere più, in territorio francese, “né un infelice né un oppressore”. Quando Bentham, qualche decennio dopo, misurerà l’arte di governo sul parametro della “maggior felicità per il maggior numero di uomini”, l’incontro tra felicità e politica sembrerà cosa fatta.
In realtà quello che può apparire un percorso rettilineo si spezza in segmenti non sempre conseguenti e a volte contrastanti. Un solco profondo separa la felicità-sicurezza di Hobbes dalla felicità-libertà di Locke, così come dalla felicità sociale di Bentham e Mill. Una concezione relazionale della felicità si stabilizza solamente nella seconda metà del XIX secolo, lungo una linea che condurrà all’idea di Welfare in quello successivo. Per essere poi rimessa radicalmente in discussione nell’ultimo trentennio, quando in America come in Europa si sono affermate nuove politiche neoliberali, orientate al successo individuale. I processi di indebitamento che hanno condotto alla crisi non sono estranei all’idea che la felicità sia proporzionale alla quantità di piacere cui ciascuno, indipendentemente dagli altri e a volte anche a loro danno, riesce a conseguire. D’altronde il dichiarato diritto alla felicità, contenuto nel preambolo alla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, riguarda essenzialmente il singolo individuo piuttosto che la comunità nel suo insieme. È vero che esso, almeno in linea di principio, è attribuito a tutti, senza distinzione di genere, classe o razza. Ma proprio tale principio è stato troppe volte smentito dai fatti. È troppo facile ritenere che il black dream di Martin Luther King si sia pienamente realizzato nell’elezione di Obama. Raffaele Laudani nel suo saggio su “La felicità nera. Contro-storia di un mito americano”, compreso nei fascicoli richiamati, osserva che l’uragano Katrina, col suo impatto asimmetrico sulle vite degli abitanti di New Orlenas, ha rimarcato ancora una volta la soglia escludente che passa tra la condizione dei bianchi e quella dei neri.
Neanche l’epopea narrata da Chris Gardner nel suo The Pursuit of Happines, trasformato in grande successo hollywoodiano da Gabriele Muccino nel film La ricerca della felicità, riesce a perforare del tutto il velo della retorica del self made man. La struggente storia di amore di un padre nei confronti del figlio, che esso narra, resta interna al mito americano dell’uomo sempre in grado di modificare il proprio destino sociale, passando dal ghetto di San Francisco ai grattacieli di Wall Street. È vero che un nuovo filone di studi – di cui parla nel suo saggio Nadia Urbinati – interpretato da autori come Amartya Sen e Martha Nussbaum, sta forzando le griglie asfittiche della tradizione liberale con robusti innesti di filosofia sociale. Lo spostamento dell’attenzione dalle regole astratte alle reali condizioni di esistenza ha prodotto una conversione del concetto di happiness.
Esso, più che ai soli interessi materiali, è relativo al complesso delle prospettive e delle opportunità che danno senso alla vita delle persone.
Del resto già Richard Easterlin, secondo il paradosso che ha preso il suo nome, ha rilevato che la felicità personale dipende poco dal livello del reddito. Come quando si acquista un bene di consumo, essa aumenta fino ad un certo punto, per poi diminuire, delineando una curva ad U rovesciata. Acquisire sempre nuovi beni materiali è come correre su un tapis roulant, in cui si resta nel medesimo punto. Per mantenere il livello di soddisfazione raggiunto, si richiedono piaceri sempre più intensi, velocemente assimilati e così svuotati. Naturalmente ciò vale soltanto al di sopra di una certa soglia di benessere – che oggi spesso è divenuta di pura sussistenza. In simili condizioni l’idea di felicità è destinata a ruotare ancora una volta sul proprio cardine. Più che qualcosa cui tendere invano, essa diventa un dispositivo critico nei confronti dei vincoli, sempre più stretti, che ci vengono imposti dall’esterno. Anziché forma di adesione alla realtà, l’idea di felicità diventa terreno di elaborazione di nuove immagini di esistenza più confacenti all’incontro, sempre rimandato, tra libertà e giustizia.

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