domenica 28 aprile 2013

Il concetto dell'angoscia «conteso» da filosofi e psicanalisti


L’angoscia non ha occhi per vedere un determinato qui e là 
da cui si avvicina ciò che è minaccioso... Il minaccioso non è in nessun luogo
Una malattia, una sensazione o una condizione quasi di privilegio
nell’analisi di medici, psicologi, uomini di lettere

Armando Torno

"corriere della Sera", 28 aprile 2013

La storia della cultura occidentale ha elaborato non poche definizioni di angoscia. Anche se per i contemporanei vale più di ogni altra quella che il poliziotto Al Pacino rivela alla moglie Diane Venora in Heat-La sfida (è del 1995; regia, soggetto e sceneggiatura di Michael Mann): «Devo tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere». È lontana da quanto avvertiva Seneca, forse si avvicina alle parole conservate nel IV libro del De rerum natura di Lucrezio. Il quale, elegante materialista, era certo che essa nascesse «dalla sorgente stessa dei piaceri» (medio de fonte leporum).
Ma che cos'è l'angoscia? È consigliabile rivolgersi alla filosofia per conoscerla o è preferibile recarsi da un medico della psiche per poterla vincere? O forse è quella sensazione inafferrabile che accompagna le esistenze e che fece scrivere a Leopardi nei Canti, rivolgendosi alla luna: «io venia pien d'angoscia a rimirarti»? Una risposta che tenga conto dei diversi aspetti non è semplice. Come riporta il Vocabolario della lingua italiana Treccani, siamo dinanzi a uno «stato di ansia e di sofferenza intensa che affligge l'animo per una situazione reale o immaginaria, accompagnato spesso da disturbi fisici e psichici di varia natura». Nell'uso corrente, occorre aggiungere, con il termine si tende a indicare una condizione più intensa e grave dell'ansia; comunque tale distinzione è accolta solo in parte nei linguaggi di psichiatria, psicologia e psicoanalisi. Del resto in inglese e tedesco non si registra duplicità di termini: si definisce tale stato come ansia, anche se non mancano incertezze. I latini la chiamavano angustia (da angere, «stringere»). Gli effetti non sono mutati nel tempo: sensazione di contrazione dell'epigastrio (zona centrale dell'addome, al di sotto delle costole e poco sovrastante l'ombelico), difficoltà di respiro, tristezza o, come usavano nel periodo romantico, «dolore che quasi preme il cuore».
Perché occuparsene? Ogni epoca ha le sue angosce e la nostra, come tutti i periodi di decadenza, è intenta a moltiplicarle. Non a caso, il pensatore che più di ogni altro ha saputo coglierne aspetti, confini e caratteristiche ritorna con una certa forza in libreria: si tratta di Søren Kierkegaard, morto a Copenaghen nel 1855; aveva 42 anni.
Innanzitutto al filosofo danese è stata dedicata una nuova monografia da Ettore Rocca, nella quale una sezione riguarda appunto «Libertà e angoscia»; inoltre ritorna il breve e intenso saggio di Emmanuel Lévinas intitolato Kierkegaard, dove si rimedita il concetto di «diaconia», ovvero la responsabilità infinita nei confronti dell'Altro, contrapposizione all'angoscia esistenziale. Di più: l'indispensabile Diario del pensatore è stato completamente rivisto nella traduzione e negli apparati e di esso sta per uscire il secondo volume. E anche la raccolta delle Opere di Kierkegaard, curata da Cornelio Fabro nel 1972, ora vedrà la luce con originali a fronte e notevoli aggiornamenti: si avranno così a disposizione, dopo anni di assenza, gli scritti filosofici e teologici.
Il sommo danese lascia, tra l'altro, ne Il concetto dell'angoscia, una spiegazione di questo stato d'animo che diventerà un punto di riferimento anche per le ricerche psicoanalitiche e psichiatriche: «Si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell'abisso: perché deve guardarsi. Così l'angoscia è la vertigine della libertà». E ancora, nella medesima opera, Kierkegaard osserva con acutezza: «Nessun grande inquisitore tiene pronte torture così terribili come l'angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l'angoscia».
Si potrebbe continuare indefinitamente con codesto filosofo, giungendo alle connessioni che egli fa con il peccato e al fatto che la pone a fondamento della stessa colpa originale. Idea subito raccolta da Dostoevskij, anche se Marx aveva cercato nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto di mostrare che «l'angoscia religiosa è espressione dell'angoscia reale». Heidegger aveva avvertito il pensiero contemporaneo nella sua opera di riferimento, Essere e tempo, che «l'angoscia non ha occhi per "vedere" un determinato "qui" e "là" da cui si avvicina ciò che è minaccioso... Il minaccioso non è in nessun luogo». D'altra parte, lo stesso Freud in Inibizione, sintomo e angoscia nota che «è dotata di un certo carattere di indefinitezza e mancanza d'oggetto». Sartre, riprendendo la tradizione esistenzialista, aveva scritto ne L'essere e il nulla che «non possiamo sopprimerla, perché siamo angoscia». Letture che si rinnovano e si diversificano nella ricerca di tutto il Novecento. Varrà la pena aggiungere che per Lacan e per quanto scrive ne Il seminario. Libro X (pagine che risalgono al 1962-63), è possibile cogliere «la positività» dell'angoscia, poiché «è la via privilegiata per accedere al reale».
Per utilizzare i termini cari al francese, essa diventa il passaggio che porta al di là del significante. Freud dirà che i sogni di angoscia sono di contenuto sessuale, Schopenhauer che la metà di quelle che ci assalgono nascono dalle preoccupazioni per le opinioni altrui. Avevano ragione entrambi. L'amore e il prossimo sono tra le fonti della nostra angoscia.

Una bibliografia ricchissima per approfondire

Per una visione d'insieme delle definizioni e dei giudizi sull'angoscia, nonché per una prima indicazione delle ricadute che essa ha nelle diverse discipline, si può cominciare dall'articolo di H. Häfner «Angst, Furcht» (Angoscia, Paura) nel primo volume dell'«Historisches Wörterbuch der Philosophie» diretto da Joachim Ritter (coll. 310-14; Schwabe & Co, Basel-Stuttgart 1971). O dalla voce «Angoscia», di E. Borgna e F. Leoni, nel primo tomo dell'«Enciclopedia filosofica» (pp. 448-452, Bompiani). Il «Diario» di Kierkegaard uscì in tre edizioni distinte e con variazioni da Morcelliana di Brescia, quella da noi ricordata è la quarta in corso. La raccolta delle «Opere» del filosofo danese, invece, è del 1972 e la pubblica Sansoni in un tomo con testo su doppia colonna; nel 1995 la ristampa in tre volumi Piemme e ora, con originale a fronte, vedrà la luce nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani, diretta da Giovanni Reale. Le «Opere» di Freud sono edite in italiano da Bollati-Boringhieri, «Essere e tempo» di Heidegger è stato citato nella traduzione di Pietro Chiodi (Longanesi), «Il Seminario. Libro X» di Lacan è disponibile da Einaudi, «L'essere e il nulla» di Sartre è ne Il Saggiatore. Il «Kierkegaard» di Lévinas è uscito da Castelvecchi. 


Kierkegaard

«In questo stato c'è pace e quiete, ma al tempo stesso disordine e conflitto»

Il saggio più recente e aggiornato in Italia sul filosofo danese si deve a Ettore Rocca, Kierkegaard (Carocci editore, pp. 308). Questo studioso insegna estetica all'ateneo di Reggio Calabria e da più di un decennio svolge attività di ricerca nel Søren Kierkegaard Research Centre dell'Università di Copenaghen, inoltre collabora alla nuova edizione critica Søren Kierkegaard Skrifter. Il lavoro è uscito nella collana «Pensatori» di Carocci (è il numero 29 della serie) e contiene anche una aggiornata bibliografia. La sezione «Libertà e angoscia», divisa in sette capitoli, offre le coordinate per mettere a fuoco la questione dello stato d'animo che stiamo cercando nei diversi scritti kierkegaardiani. Tra l'altro si sofferma, riportando traduzioni direttamente dall'originale, sul caso Adamo. Il primo uomo nasce nell'innocenza e — si sottolinea — «innocenza è ignoranza». Ma ecco le parole del pensatore: «In questo stato c'è pace e quiete, ma c'è al tempo stesso dell'altro, che non è disordine e conflitto, poiché non c'è nulla con cui contendere. Che cos'è allora? Nulla. Ma che effetto ha questo nulla? Genera angoscia. Il profondo segreto dell'innocenza è che al tempo stesso è angoscia». Insomma, Rocca mette in evidenza questa angosciata ignoranza-innocenza del primo uomo, nonché il fatto che Adamo non capisca il divieto divino di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Del resto, egli non coglie ancora la differenza tra di essi. Rocca sottolinea: «Parla, ma non comprende davvero il linguaggio». È il testo di Kierkegaard che dipana la matassa: «Il divieto lo angoscia perché desta la possibilità della libertà in lui. Il nulla dell'angoscia che lo sfiorava ora è entrato in lui ed è, di nuovo, un nulla, la possibilità angosciante di potere. Che cosa sia che possa, di ciò non ha idea alcuna». Insomma — ecco la definizione — questo stato d'animo che stiamo inseguendo «è la realtà della libertà come possibilità della possibilità». Ma Adamo è libero con la sua innocenza? Rocca osserva, seguendo attentamente la lezione di Kierkegaard: «Se fosse libero, capirebbe e potrebbe; ma non capisce né il divieto né sa che cosa può. Sente solo di potere in modo indeterminato, senza potere nulla di determinato. Non potendo nulla, il suo potere è un nulla e lo angoscia».

Nessun commento:

Posta un commento