giovedì 4 aprile 2013

I sogni infranti del parco del Gladiatore


Dovevano lanciare la Flaminia come l’Appia antica, 
ma i monumenti soffocano tra baracche e cemento

Flavia Amabile

"La Stampa",  3 aprile 2013

A fine di marzo era una stagione meravigliosa nella villa di Livia, moglie dell’imperatore Augusto. La villa era circondata da un paesaggio che non aveva eguali nei dintorni di Roma: colline, prati e il Tevere. Si trovava lungo la via Flaminia, l’arteria più importante tra la capitale dell’impero e le regioni settentrionali. Capitava che Livia si ritirasse lì e che l’imperatore andasse a trovarla quando si liberava dagli impegni. Dal centro di Roma era un piccolo viaggio ma la distanza era ripagata dalla bellezza del paesaggio costellato di importanti mausolei e distese di dolci prati.
L’anno prossimo saranno 2 mila anni dalla morte di Augusto: si sta mettendo a punto il programma delle celebrazioni ma quel pezzo della sua vita difficilmente potrà essere ricostruito se non con una buona dose di fantasia. Eppure la Soprintendenza Archeologica ha nel cassetto un progetto per trasformare la Flaminia in una nuova Appia antica. E’ un’idea talmente semplice da sembrare la scoperta dell’acqua calda. Sfrutta il vantaggio che la Flaminia ha rispetto alle altre rinomate strade consolari: la linea ferroviaria, la Roma-Viterbo. Avete mai provato a raggiungere l’Appia senza un’auto privata? Da perderci la testa. La via Flaminia, invece, ha un trenino con le fermate che sembrano studiate da un archeologo per quanto sono vicine agli antichi siti. Quando fu scritto il progetto, c’era anche qualcos’altro: un paesaggio ancora non troppo diverso da quello attraversato dall’imperatore. Bastava unire questi elementi per avere un Parco archeologico, affermarono i fautori del progetto, sostenuti da Italia Nostra.
Non bastava, invece. «Quel progetto era innanzitutto un sogno, perché noi archeologi siamo dei sognatori», racconta Marina Piranomonte, una delle responsabili degli scavi lungo la Flaminia per la Soprintendenza Archeologica di Roma che aveva ideato il Parco insieme con il collega Gaetano Messineo.
La realtà è diversa. Si sale sul treno a piazzale Flaminio, appena fuori piazza del Popolo. La Roma-Viterbo è seconda nella lista nera delle ferrovie italiane stilata da Legambiente: treni vecchi, sporchi, affollati a dismisura, corse che saltano di continuo. E per fortuna nella classifica non è contemplato il paesaggio, un’orgia di discariche, baracche di senzatetto, industrie abbandonate.
La prima fermata utile da un punto di vista archeologico è «Due Ponti». Si scende in un agglomerato compatto di case Anni 60. Alcuni anni fa su uno dei pochi terreni rimasti liberi il proprietario, il costruttore Bonifaci, decise di costruire altri tre palazzi: dovette fermarsi perché dagli scavi preventivi era emersa la Tomba del Gladiatore, il mausoleo di Marco Nonio Macrino, probabilmente il personaggio a cui era ispirato il film «Il Gladiatore». Era il 2008, la notizia fece il giro del mondo e la fermata conquistò un posto di rilievo che fino ad allora non aveva nel Parco Archeologico. Quattro anni dopo la Tomba è lì, coperta da un geotessuto, ma nessuno ha idea di quale futuro avrà. È stato speso un milione per tirare fuori la preziosa Tomba nascosta a sette metri di profondità e restaurarla, ma ne sarebbero necessari altri tre per creare un museo e renderla visitabile. «Si studia come recuperarli. Siamo aperti a qualunque possibilità» - chiarisce Daniela Rossi, responsabile per la Soprintendenza del sito.
La fermata successiva è Grottarossa. Un segnale indica la presenza di un sito archeologico, ma è più facile trovarlo seguendo la discarica lungo la ferrovia. Attraverso un cancello arrugginito si entra in una necropoli con due mausolei imponenti della fine del periodo repubblicano, un tratto della via Flaminia molto ben conservata, e una vasca. L’area è ampia ma l’erba è alta. I mausolei sono chiusi e coperti di muschio, i pannelli che raccontano la loro storia sono a terra e i resti di vestiti e cibo lasciano capire che di notte qualcuno dorme lì. «Non è trascuratezza, è una questione di priorità - racconta Marina Piranomonte - dopo anni abbiamo da poco ottenuto l’esproprio dell’area. I fondi per il 2013 verranno utilizzati per rimettere a posto il sito. Mi impegno a farlo rimettere a posto entro un anno».
Superata Saxa Rubra, si scende di nuovo a Labaro. Nascosto tra una selva di cavalcavia e discariche, c’è un ponte romano, lo stesso usato da Augusto quando andava a trovare la moglie nella sua villa e dalle truppe di Massenzio durante la battaglia contro Costantino. E’ stato liberato nel 2005 da una parte di rifiuti e l’Anas aveva promesso di creare un Parco archeologico. Parole finite nel nulla.
L’ultima fermata è La Celsa. Fuori dalla stazione, dal lato opposto rispetto al Tevere, non si può non vedere un enorme sperone di tufo, un Mausoleo dove i romani scavavano i loro monumenti funerari. Alla base ci sono delle fornaci dove veniva prodotta la terracotta. Due anni fa il sito - già in passato rifugio per clochard è stato rimesso a posto: costo dell’operazione 300 mila euro. Oggi, infatti, la parte alta della roccia è molto bella e ben visibile. All’interno delle grotte nella parte più bassa, però, sono tornati a vivere i senzatetto.
Sembra un gioco dell’oca, in cui si corre il rischio di tornare sempre alla casella di partenza e di rendere la via Flaminia solo la strada delle occasioni mancate. «Sono ottimista risponde Daniela Rossi - per me la Flaminia è la strada delle occasioni da recuperare. Lo faremo, anche con l’aiuto dei privati. Possiamo farcela, il progetto del Parco non è morto». «Tutte le nostre risorse e il nostro impegno sono dedicati a quest’obiettivo», conferma Marina Piranomonte.

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