venerdì 19 aprile 2013

Delitto di famiglia. Volete essere scrittori? Uccidete padre e madre


Dalla lettera di Kafka ai terribili Mann la letteratura è piena di faide tra genitori e figli 
Lo racconta ora in un saggio un grande autore come Colm Tóibín

Cristiano De Majo

"La Repubblica",  18 aprile 2013

Nel suo ultimo libro, How Literature Saved My Life, non ancora uscito in Italia, David Shields sintetizza in una frase una grande verità della scrittura: «È difficile scrivere un libro, è molto difficile scrivere un buon libro, ed è impossibile scrivere un buon libro se ti preoccupi di come le persone a te vicine lo giudicheranno». Sul New York Times, la scrittrice e giornalista Susan Shapiro — che nella sua biografia si definisce autrice di tre memoir che la sua famiglia odia — dice di dare agli studenti dei suoi corsi di scrittura questo semplice quanto diabolico consiglio: «Avrete trovato la vostra voce quando scriverete un pezzo che la vostra famiglia odierà. Se volete avere successo con genitori e fratelli, provate con i libri di ricette».
Sareste teoricamente disponibili ad accettare una buona recensione su un quotidiano a grande tiratura in cambio di una burrascosa interruzione dei rapporti con vostra madre? Se la risposta è sì, siete sulla strada giusta, la letteratura, fiction o non fiction che sia, è per i rapporti familiari un campo minato in cui ogni scrittore che si rispetti non solo conosce la posizione delle mine, ma trova inevitabile farle esplodere.
La delicata questione può essere considerata da due punti di vista: 1) per lo scrittore la propria famiglia è, in quanto a profili psicologici e dinamiche umane, il materiale più ricco e meglio conosciuto che ha disposizione, ma 2) non bisogna sottovalutare il potenziale vendicativo del testo letterario; scrivere può anche significare, e lo dimostrano alcuni capolavori, regolare i conti con il proprio passato.
La Lettera al padre di Franz Kafka è, in questo senso, una lampante dimostrazione di come un’intera poetica si possa articolare intorno a un tentativo di vendetta. A trentasei anni il grande scrittore praghese compone un drammatico ritratto del genitore e dei suoi abusi psicologici stilando una lista di lontani aneddoti a cui si è tentati di ricondurre tutta la sua produzione letteraria, e arrivando infine a individuare l’origine della sua vocazione proprio in quel rapporto per lui così doloroso: «Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata».
Ne sa qualcosa anche Lucie Ceccaldi, madre dello scrittore più famoso della Francia contemporanea, a cui spesso si aggiungono gli aggettivi: controverso, cinico, rancoroso, sessualmente morboso, che non equivalgono a buone notizie per chi è stato, o avrebbe dovuto essere, responsabile della sua costruzione emotiva. Nelle Particelle elementari, Michel Houellebecq, la prende di peso con il suo vero nome, Ceccaldi, e le fa interpretare il “ruolo” della madre hippie che abbandona il proprio figlio ai nonni, ubriaca di illusioni libertarie, affamata di sesso. La terribile coincidenza è che Houellebecq fu esattamente affidato ai nonni da piccolissimo e che i suoi genitori furono esattamente due giramondo imbevuti di edonismo sessantottino. Si scopre così che tutta la critica asprissima alla generazione dei babyboomer, uno dei temi centrali dei primi libri dello scrittore francese, mascherata abilmente nello stile del personaggio, un nichilista prodigo di considerazioni storico-sociali, mette radici nel risentimento personale, in una tristissima sindrome da abbandono.
Ma la storia non finisce qui. Nel 2008 Lucie Ceccaldi dà alle stampe un memoir intitolato con eloquenza L’Innocente con cui si propone di dire la sua verità e rilascia interviste in giro nelle quali dichiara di essere disposta a perdonare suo figlio solo nel caso in cui decidesse di presentarsi in una piazza brandendo Le particelle elementari e autoaccusandosi come bugiardo e impostore. La lite letteraria finisce per assumere connotati vertiginosi perché non solo è curioso che l’autore di un romanzo venga accusato di essere un mentitore, ma anche perché se suo figlio non fosse diventato Houellebecq, Lucie Ceccaldi non avrebbe mai pubblicato un libro.
D’altra parte, per quanto strano possa sembrare, il suo non è l’unico caso di “genitore d’arte”. Henry James e William Yeats, erano figli di due padri parecchio simili: artisti falliti e borghesi inconcludenti. Come John Butler Yeats che, dopo il successo letterario del figlio, arrivò addirittura a implorarlo di raccomandare i suoi testi teatrali. Le due vicende sono raccontate nel bellissimo libro di Colm Tóibín New Ways to Kill Your Mother: Writers and Their Families (Penguin), uno spaccato ricchissimo di fatti e documentazioni sulle famiglie di alcuni importanti scrittori dell’Otto-Novecento, che scoperchia un covo di dolori, frustrazioni, condizionamenti.
Il limite estremo della morbosità familiare si tocca nel capitolo dedicato alla famiglia Mann, condensato di distorsioni sessuali, mancanza di amore, ambiguità storiche. Klaus, secondogenito di Thomas, è la figura tragica, quasi più letteraria che reale, che ne incarna le storture. Ragazzo prodigio e di ambizioni smisurate — al punto che il padre gli autografò con ironia sprezzante una copia della Montagna incantata, scrivendo «Al mio rispettato collega, il suo promettente padre» — sessualmente incerto, ma legato più che fraternamente a sua sorella Erika, tossicodipendente e antinazista più vibrante del suo prudente e celebre congiunto, visse fino al suicidio una vita alla continua ricerca dell’approvazione paterna, anche attraverso una frustrante competizione letteraria. Nel 1936 pubblicò Mephisto, in cui la figura di un personaggio che decide di non esporsi politicamente per non rovinare il suo successo artistico è, secondo Tóibín, ispirata precisamente da suo padre. Che, d’altra parte sembra rispondergli in Carlotta a Weimar, descrivendo così il personaggio di August, figlio di Goethe: «Essere figli di un grand’uomo è una grossa fortuna, un considerevole vantaggio. Ma, d’altra parte, anche un fardello opprimente, una umiliazione permanente del proprio ego».
Si dà il caso poi, ed è un caso non meno doloroso per una famiglia, di una vita segreta rivelata post mortem da un lascito letterario. Sempre nel libro di Tóibín si può leggere della vicenda legata ai Diari di John Cheever, recentemente pubblicati da Feltrinelli, che svelarono un’omosessualità tenuta a lungo nascosta tra le mura di casa. Mary Cheever, la moglie dello scrittore della suburbia americana, decise di non leggerli, giustificando così la sua scelta: «Non posso leggerli, non è la mia vita. Si tratta di lui. È tutto dentro di lui». Ed è proprio la consapevolezza di questo scarto tra realtà esterna e vita interiore, identificato con disperata lucidità dalla moglie di Cheever, che potrebbe alleviare i dolori delle vittime del fuoco amico, o parentale, della letteratura.

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