martedì 30 aprile 2013

Narrativa e poesia sopravvalutate

Alfonso Berardinelli

"Il Sole 24 Ore", 28 aprile 2013

Nella storiografia e negli studi letterari esiste e tuttora resiste una superstizione, secondo la quale alcuni generi rappresentano di per sé la rilevanza letteraria, la capacità creativa, e meritano perciò di occupare sempre e comunque, in tutte le epoche e in ogni decennio, il centro del sistema delle forme e il vertice dei valori.
Questi generi sono la narrativa e la poesia. Chi li pratica, non importa come e senza riguardo alla situazione storica, sarà premiato, sarà degnamente o meglio automaticamente accolto nelle storie letterarie: sembrerà degno di essere indagato stilisticamente e tematicamente, sarà definito con formule accuratamente studiate e calibrate. Ad alcuni toccheranno poche righe, ad altri una pagina o due. Ma la loro presenza sarà garantita dal fatto che si tratta di autori catalogabili come narratori (anche se raccontano poco e male) o come poeti (anche se ignorano la tecnica del verso e risultano illeggibili).
Secondo questo criterio, sarebbe invece letteratura marginale, minore, secondaria e da relegare sullo sfondo, la prosa non narrativa, la prosa di riflessione e di pensiero, la critica d'arte e la critica letteraria, la prosa filosofica, storica, giornalistica, civile e politica, polemica e autobiografica. 
Questo pregiudizio assiologico, questo criterio gerarchico valgono e sono operanti soprattutto per il presente e il recente passato e spesso penalizzano gli stessi studiosi e saggisti che ne fanno uso in sede storiografica. Solo due esempi fra i molti possibili. Allegoria del moderno di Romano Luperini e Dopo la fine di Giulio Ferroni fanno parte senza dubbio della cultura letteraria contemporanea, offrono criteri interpretativi generali per orientare la lettura di autori e opere. Eppure nelle loro storie letterarie si nota una resistenza poco spiegabile a prendere in considerazione la rilevanza culturale e "inventiva" della critica.
Affinché uno storico, un filosofo, un critico, un saggista vengano presi in esame non meno che un narratore e un poeta, deve essere passato almeno un secolo. Solo tardivamente e a distanza, la saggistica entra a far parte del panorama complessivo di un'epoca letteraria. Machiavelli è giudicato all'altezza di Ariosto, Galilei merita un capitolo come Tasso, a Vico e a De Sanctis viene attribuito quasi lo stesso valore che a Goldoni e Alfieri, a Manzoni e Leopardi. Non sono sottovalutati neppure Croce e Gramsci rispetto a Pirandello e D'Annunzio, a Montale e a Gadda. Ma qui ci fermiamo. Ecco che Piero Gobetti, chissà perché, non sembra valere quanto Tommaso Landolfi e prosatori eccezionali come Roberto Longhi, Mario Praz e Giacomo Debenedetti vengono miniaturizzati rispetto a Dino Campana e Giuseppe Ungaretti, a Corrado Alvaro e Elio Vittorini.
Sembra che per essere adeguatamente apprezzati come prosatori intellettuali sia necessario aver pubblicato narrativa e poesia, come Pasolini e Calvino. Direi invece che Carlo Levi, un saggista narrativo, non è affatto inferiore né meno importante di Cesare Pavese. E Nicola Chiaromonte, saggista civile e politico, non credo sia inferiore, tutt'altro, a Fortini e a Sciascia, ma viene comunemente espulso dalle storie letterarie. Dalla parte del torto di Piergiorgio Bellocchio, pressoché ignorato dai critici, è uno dei libri fondamentali di fine Novecento e vale da solo almeno quanto l'opera poetica di Sanguineti e Raboni. Certi libri di Carlo Ginzburg, Giorgio Agamben, Roberto Calasso meritano più attenzione di alcune dozzine di romanzi e libri di poesia. Franco Brioschi, il nostro maggior teorico della letteratura (quando di teoria chiacchieravano tutti) e autore di confutazioni radicali dell'estetica formalistica, in libri come La mappa dell'impero e Critica della ragione letteraria, è ignorato dalle storie letterarie.
Nel sistema dei generi le gerarchie e gli spazi non restano sempre gli stessi. Ci sono periodi e secoli in cui certi generi letterari perdono qualità e vitalità, mentre altri brillano di luce propria. Nell'epoca di Plutarco o di Luciano, in quella di Voltaire e di Diderot, quale poeta è stato alla loro altezza? Fra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, quali romanzieri e poeti francesi potevano competere con Bataille, Blanchot, Barthes, Foucault?
Più che i generi, contano gli autori. Ancora più che gli autori, contano i singoli libri. Per capire il valore o l'interesse di un libro di poesia, per esempio, non lo confronterei con altri libri di poesia suoi contemporanei, ma con libri di prosa, narrativa o non narrativa, finzione o non finzione... Credo che sia giusto credere nei generi, ma anche nella mescolanza dei generi e nei libri fuori norma e poco classificabili. Come definire Le cose come sono. Etica, politica, religione di Giancarlo Gaeta, un libro che tutti dovrebbero avere letto? I reportage e le invettive di Giorgio Bocca, di Goffredo Fofi non appartengono alla letteratura? Che cos'è la letteratura? In mancanza di definizioni generali o generiche, preferirei la più empirica, pragmatica e lapalissiana delle formule: letteratura è scrivere nel modo migliore qualcosa di interessante.

Sulle panchine o graffiata sui muri. La poesia che ci sorprende in città


La geografia Le iniziative spontanee e quelle dei Comuni. 
Gli ultimi casi ad Albenga e Caorle  

Da Seneca a Artmann: «pillole» per stimolare la riflessione 

Michela Proietti

"Corriere della Sera", 29 aprile 2013

Sull'asfalto, in una panchina, graffiata su un muro. C'è una geografia sconosciuta, quella dei versi poetici, che sorprende come un tramonto o un orizzonte. La poesia è una rinata necessità che dilaga fuori dalle pagine scritte e, come aveva previsto Alda Merini («la casa della poesia non avrà mai porte»), approda in luoghi non convenzionali. L'ultima « incursione» è avvenuta ad Albenga, in Liguria, dove sulle panchine del lungomare, i passanti si sono ritrovati a sostare sopra le massime filosofiche di Epicuro e di Kant. «La più grande ricchezza è bastare a se stessi» (Epicuro), «Non conta quanto ma come si vive» (Seneca), «Agiamo in modo che ogni nostro atto possa diventare un ricordo» (Kant): pillole minime di pensiero forte che sorprendono le persone e le trascinano in un momento di riflessione. Dalle targhe di ottone alla ferraglia di una panchina, la poesia si incontra nelle sedute della via dei Poeti di Merano, lungo il fiume Passirio, intagliate dai versi di grandi poeti come Luzi e Artmann. Chi passa da Pennabilli, nel paese di Tonino Guerra, vicino Rimini, si ritrova avvolto dai «luoghi dell'anima» del poeta romagnolo; poco più avanti, a Borgo San Giuliano, la poesia prende la forma di affreschi che ripercorrono la rima cinematografica di Fellini. Ad Amalfi, accanto alla cattedrale di Sant'Andrea i turisti si imbattono nei versi che Quasimodo declamò passeggiando tra i terrazzamenti: «Qui è il giardino che cerchiamo sempre ed inutilmente dopo i luoghi perfetti dell'infanzia ». 
Ivan Tresoldi, il poeta di strada che ha imposto il suo segno con il motto «chi getta semi al vento farà fiorire il cielo», parla di « attacchi poetici capaci di creare una nuova identità collettiva». Con la sua performance «Pagina Bianca» ha steso 2 mila metri quadrati di carta nelle piazze italiane, per fare esprimere a ognuno un punto di vista poetico. «Centinaia di pennelli e neppure uno spazio sprecato: mi sono reso conto che la poesia, alla gente, manca enormemente», dice l'artista milanese, che con i suoi assalti ha conquistato il palazzo della Rinascente. «Se avessi consegnato la mia poesia a un libro avrebbe raggiunto meno persone, la strada ha una forza diversa, e perdere una parola è come perdere un colore». Per trovare la poesia basta alzare lo sguardo. «Io l'ho trovata incisa nelle baracche di Haiti, nei muri palestinesi e nel carcere di Bollate, dove le detenute hanno scritto i loro versi». 
Caorle
A Dublino la caccia al tesoro è più semplice: ogni anno, il 16 giugno, si festeggia il «Bloomsday», ripercorrendo le tappe dell'Ulisse, ma la città in ogni periodo è seminata di cartine e targhe d'ottone. «Personalmente trovo evocative anche le statue dei poeti, come quella di Lamartine sul lago di Bourget in Savoia», dice il poeta Giuseppe Conte, che ha incontrato messaggi poetici nella Ginevra di Borges, a Manosque, in Provenza e negli autobus scozzesi tappezzati con poster di poesia «È un concetto whitmaniano della poesia, più democratico, il verso che scende dall'Olimpo e si siede al tavolino di un bar per illuminarci». La poetessa Vivian Lamarque, che tra pochi giorni sarà «incisa» sul lungomare di Caorle («benché io sia, mi pare, abbastanza vivente e in discreta salute!»), applaude l'onda popolare della poesia. I versi «Oh il mare di quelle belle sere d'estate.'/ Mare, mare, voglio dirgli una cosa/ prima dell'eternità» saranno tradotti anche in lingua tedesca dal poeta Christoph Aigner. «Sì, l'ultima cosa che ti aspetti andando in giro è di trovarti faccia a faccia con un verso. Quando ti capita è come essere a un tratto in un altrove dove parlano un'altra lingua». Come quella volta che fuori dalla stazione di Pesaro ha trovato una poesia di marmo, in un'aiuola: «andatelo a dire / ai caduti di ieri / che i! loro morire / fu come le nevi .» di Gianni d'Elia per Falcone e Borsellino. O come quando su uno strofinaccio steso al sole si poteva leggere «all'arrivo di marzo / sui campi solitari / si diffonde un colore / sconosciuto alla scienza.. .»: nel bucato era sbucata Emily Dickinson. « Ricordo anche una volta in una viuzza di Thornton dove nacquero le sorelle Bronte, ne trovai una — ricorda la poetessa —. Fu un piacere ma non proprio una sorpresa, anche se cammini a Recanati sai già quel che t'aspetta".

L’invenzione del Rinascimento


Firenze. Una mostra a Palazzo Strozzi

Donatello, Masaccio, Filippo Lippi, i Della Robbia 
Così scultura e pittura hanno cambiato l'estetica

Marco Gasperetti

"Corriere della Sera",  28 aprile 2013

È l'inizio. Che si ricompone come un puzzle di tesori. Capolavori oggi custoditi al Louvre, al British Museum, al Bode di Berlino, e in altre gallerie del mondo e dell'Italia. Sono messaggeri della rinascita del Bello, della sua genesi e della sua affermazione. Ma ci raccontano anche un'altra storia: l'alba del Rinascimento non comincia con la pittura, bensì con la scultura.
Nelle sale immaginifiche di Palazzo Strozzi, nel cuore di Firenze a due passi da Piazza della Signoria, dal Ponte Vecchio e dagli Uffizi, «La Primavera del Rinascimento» ci proietta alle origini dell'epoca più formidabile delle arti e della cultura, in quella Firenze che avrebbe cambiato il mondo guardando all'iperuranio dell'estetica (si respira aria di neoplatonismo nelle dieci sezioni) e regalando al mondo opere immortali. Ed è una sensazione molto particolare, dopo aver varcato la soglia del Palazzo, trovarsi di fronte a quelle origini, quasi come se fossero esplosioni di un Big Bang della Rinascita. Che immediatamente osservi, appena t'immergi nel cuore di Firenze.
Così, entrando nella prima sala dedicata a «L'eredità dei padri», ecco il proto linguaggio scultoreo (dell'arte rinascimentale) di Nicola Pisano che vive nel medioevo è firma alcune delle opere più straordinarie (dal Duomo di Siena al Battistero di Pisa), e poi in un cammino nel tempo l'alfabeto si modifica sino ad arrivare a Jacopo della Quercia il Maestro del monumento funebre di Ilaria del Carretto.
E come non emozionarsi (e stupirsi) varcando la seconda sala, quella dei rilievi dei Sacrificio di Isacco, che due giganti, ancora giovanissimi, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti realizzano per il concorso del 1401 per la seconda porta del Battistero di Firenze? Certo, c'è ancora molto gotico nelle loro anime estetiche, ma il nuovo linguaggio è ormai robusto e si proietta verso un futuro luminosissimo. Ed è un presenza emanatrice in quella sala così sapientemente allestita. Le emozioni si susseguono poi più avanti nelle altre otto sezioni di una mostra apparentemente semplice eppure così sofisticata da essere lei stessa un capolavoro d'estetica costruttiva.
«Non era difficile scivolare nell'ovvio raccontando un'epoca oggi osservata da ogni angolazione, studiata nel minimo dettaglio — spiega James M. Bradburne, il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi —. Eppure abbiamo scoperto che il rischio dell'ovvietà non c'era affatto. La mostra racconta il miracolo della genesi del Rinascimento, dimostrando che dalla scultura tutto iniziò, con prestiti eccezionali. Dopo Firenze sarà replicata al Louvre di Parigi, che l'ha organizzata insieme a noi, ed è un evento straordinario ed irripetibile».
Già, la scultura, come motore della Rinascita. Che ci abbaglia con Donatello e la Madonna col Bambino, una terracotta dipinta; e ci sorprende, sempre con Donatello, con il gigantesco bronzo San Ludovico di Tolosa appena restaurato. Oppure ci mostra il nuovo linguaggio con le terrecotte invetriate di Luca della Robbia.
Scultura che non è fine a se stessa nella mostra fiorentina, ma ci accompagna verso la scoperta di altre opere, anch'esse rappresentative del racconto dell'estetica rinascimentale. Come il preziosissimo Vaso con stemma ed emblema dei Medici, concesso eccezionalmente dal British Museum e l'icona del Bode-Museum di Berlino: La Madonna Pazzi di Donatello.
Come non citare poi altri giganti della mostra Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Masaccio, Filippo Lippi, Michelozzo, Desiderio da Settignano, Mino da Fiesole, Nanni di Banco, Agostino di Duccio, Nanni di Bartolo, Mino da Fiesole.
«Molti dei capolavori presenti alla "Primavera del Rinascimento" sono stati restaurati in occasione della mostra, in Italia e in Francia. — spiega la direttrice del Museo nazionale del Bargello, Beatrice Paolozzi Strozzi, curatrice della mostra insieme a Marc Bormand, conservatore e direttore del Louvre —. Tra questi, oltre al San Ludovico di Tolosa, la Pala Trivulzio di Filippo Lippi, i due Putti bronzei di Donatello, la Sant'Elena di Mino da Fiesole, la Madonna della Misericordia di scuola Ghibertiana, l'Incoronazione della Vergine di Dello Delli e Madonna di Ognissanti di Nanni di Bartolo a Firenze».
Dunque una nuova Primavera anche per queste opere. Che fiere e stupende ci raccontano una storia passata ma sembrano guardare in avanti, enigmatiche. E se proprio da questa mostra partisse un'altra Rinascita?

Creatori e non più artigiani Brunelleschi guidò la «rivolta»

La cupola del Duomo di Firenze simbolo dell'artista-intellettuale

Francesca Bonazzoli

Il 20 agosto 1434 Filippo Brunelleschi, genio di pessimo carattere e ribelle alle leggi con cui la città di Firenze regolava la vita dei propri cittadini, fu gettato in prigione. Si era rifiutato di pagare i tributi all'Arte dei maestri di pietra e legname, la corporazione cui appartenevano tutti i lavoratori edili (architetti e scultori stavano insieme a tagliapietre e muratori) e alla quale bisognava essere iscritti per poter esercitare la professione. La prigionia durò poco perché l'Opera del Duomo, capito che, per quanto dispettoso e ostile, Brunelleschi era l'unico capace di portare a termine il progetto della cupola più grande mai costruita, lo fece liberare. Ma lo strappo era ormai avvenuto. Con quella clamorosa ribellione era cominciata, proprio lì a Firenze, l'inizio della lunga marcia d'emancipazione dell'artista da artigiano a creatore, uno dei segni che più hanno connotato il passaggio dal Medio Evo al Rinascimento.
Dai tempi della Grecia del IV secolo a. C. era la prima volta che l'attitudine verso gli artisti tornava a cambiare. In greco arte, che si dice téchne, era l'esecuzione ben condotta secondo le norme e i canoni del mestiere, una pratica artigianale in cui ci si applicava ripetendo certe regole. Tuttavia, quando alcuni artisti, come Teodoro di Samo o Policleto, cominciarono a scrivere trattati sulle proporzioni del corpo, l'aritmetica o la geometria, si cominciò a nobilitare l'arte come una professione intellettuale e non più solo uno sporco lavoro manuale, come quello che spettava agli schiavi. Zeusi, diventato ormai ricco e famoso, regalava le sue pitture per dimostrare che non era costretto a guadagnarsi la vita col lavoro delle mani. E da parte sua Parrasio, che si firmava «Uno che visse nel lusso», indossava una veste di porpora, sandali con lacci d'oro e cantava durante il lavoro come a dire che la pratica dell'arte non era faticosa.
Tuttavia il pregiudizio verso l'attività fisica degli artisti era duro a morire e anche in Grecia le arti visive rimasero sempre escluse dalle arti liberali. Lo stesso avvenne nella Roma antica e per tutto il Medio Evo la maggioranza degli artisti si accontentò di far parte della propria corporazione, o della fabbrica di una cattedrale, come un membro anonimo operante a maggior gloria di Dio. Certo c'erano state le eccezioni come Rainaldo, che si autoelogia nella cattedrale pisana, o Lanfranco in quella di Modena. Ma persino Boccaccio, pur stimando Giotto, se ne burla descrivendolo come uno straccione e nel Decameron i pittori sono soprattutto furbi autori di scherzi, gente crassa.
Il moto di orgoglio e insubordinazione del Brunelleschi affermava dunque la consapevolezza dell'originalità del proprio intelletto creativo, un'attitudine completamente diversa dall'appagamento della perfezione tecnica del proprio lavoro. L'artista passava così dal rango di lavoratore manuale a quello di intellettuale e si impegnava nella scrittura di trattati e persino, come fecero Cennino Cennini e l'Alberti, a dare regole di vita elegante e morigerata nel mangiare, nel bere e nel vestire. Gli artisti toscani, insomma, si stavano trasformando in gentiluomini.
Certo Brunelleschi, come Leonardo, partiva da un livello sociale diverso perché entrambi erano figli di notai, mentre la gran parte proveniva ancora dai ceti popolari. I Ghiberti si tramandavano il lavoro di orafi nella bottega di famiglia; Paolo Uccello era figlio di un barbiere; Pollaiuolo di un pollivendolo; Andrea del Castagno di un contadino; Donatello di un cardatore di lana; Filippo Lippi di un macellaio. Ma Brunelleschi indicava la strada della consapevolezza di sé a tutti gli ex ragazzini che avevano trascorso molti anni uguali — si cominciava a dodici — nelle botteghe a macinare colori, dorare le cornici, copiare i disegni, preparare il fondo delle tavole, inchiodare cassoni nuziali. Il lavoro nelle botteghe era organizzato in modo rigidamente gerarchico nei ruoli e nelle modalità di apprendimento. La ribellione alle corporazioni era l'insofferenza verso questo vecchio mondo. Leonardo diventerà il primo a trasformare il suo studio da bottega ad atelier dove gli allievi erano compagni, come farà poi Raffaello.
La strada era tracciata, ma ancora molto lunga. Un secolo dopo il gesto di Brunelleschi, Vasari, un altro fiorentino, continuò nell'impresa di nobilitare gli artisti scrivendone le vite come si faceva per le biografie dei condottieri. Ma ancora all'inizio del Seicento Annibale Carracci cadeva in depressione, fino a morirne, perché lo spezzante cardinal Farnese gli pagò una miseria, quasi come a un imbianchino, il capolavoro affrescato nella volta del suo palazzo. 



«Una strategia politica dietro il modello di libertà civica»

Barbuto: la luce degli ideali classici contrapposta all'oscurantismo dei Visconti

Roberta Scorranese

Nel definire una delle maggiori invenzioni artistiche nella Firenze del Quattrocento, la prospettiva, lo storico Erwin Panofsky parlò di «ordine simbolico», un sistema di regole elaborate per «guardare attraverso». I quadri così diventavano essi stessi finestre per osservare oltre la tela, le statue erano percorsi conoscitivi. Il critico tedesco era andato dritto al cuore politico e culturale dell'epoca: Firenze era un laboratorio di conoscenza e sperimentazione, rivendicava una grandezza civile e sociale che guardava ai valori dell'antica Roma e alla Atene classica.
La florentina libertas, all'inizio del secolo con Coluccio Salutati, veniva contrapposta alla «tirannia» di Gian Galeazzo Visconti e brandita come arma antioscurantista. «Il conflitto tra la città toscana e i signori milanesi veniva rappresentato come una guerra universale per la libertà culturale — spiega Gennaro Maria Barbuto, docente di Storia delle dottrine politiche all'università di Napoli —. E anche la struttura sociale dell'epoca, dominata da oligarchie forti e ambiziose, favoriva un'arte dal valore simbolico». Le statue, le sculture imponenti, prima di tutto, come si può vedere nella mostra a Palazzo Strozzi. Ma anche la pittura di Masaccio: profondità, unità razionale, psicologia. Non casualmente Vasari lo cita insieme a Donatello. «La strategia culturale dei Medici, che raggiungerà in seguito il suo culmine con Lorenzo il Magnifico — continua Barbuto — cercava e finanziava artisti anche umili ma controllabili, assimilabili ad un pensiero molto forte. Egemonia culturale, la definirei».
E poi in quegli anni si consolidava una diffusa gestione del potere (anche e soprattutto privato) che Machiavelli analizza nelle sue «Istorie Fiorentine». La forza politica delle famiglie richiedeva una corazza specialistica: esperti di diritto, notai, legali e altre figure professionali andarono a rafforzare un notevole sapere professionistico, tutt'altro che sterilmente tecnico. «Non dimentichiamo — dice ancora il professore, autore di una recente biografia su Machiavelli — la rivoluzione anti-scolastica degli umanisti. Ribellandosi al vecchio sistema dei saperi, aprirono le porte non solo a nuove ricerche, scientifiche e letterarie, ma anche ad un vero e proprio linguaggio inedito». Si passò dal concetto di «mondo chiuso» a quello di «Universo infinito», l'Accademia Neoplatonica di Marsilio Ficino diffuse il paradigma dell'idea come fondamento di un sistema creativo che pensava in grande perché partiva da consistenti valori di fondo. La fisica di Aristotele e le sezioni coniche di Apollonio di Perga non potevano non influenzare la scultura fiorentina di quel periodo.
Un individualismo di matrice oligarchica aveva soppiantato il collettivismo artigiano di tipo corporativo del Duecento e di parte del Trecento. «Ma soprattutto — dice Barbuto — sono interessanti le compresenze. Accanto a un grande intellettuale senese come Angelo Poliziano, troviamo personalità bizantine, greche. Era una cultura che riusciva ad alimentarsi, a fondere le visioni di Aristotele con quelle di Plotino. Così la coscienza civile si nutriva di grandi interrogativi».
È così evidente che la grandezza politica fiorentina del Quattrocento nasce da una dialettica tra pubblico e privato. E da una lenta, sistematica, organizzazione professionale del potere che Machiavelli, nei suoi saggi, ha sviscerato con passione. «Certo, le differenze sociali erano e restarono ampie — conclude il professore — però si apriva una nuova modernità».

domenica 28 aprile 2013

Il Perseo del preraffaellita Burne-Jones eroe per caso di un fumetto dark


Melania Mazzucco


"La Repubblica",  28 aprile 2013

Non ho mai capito se quelli che vogliono salvare il mondo sono più ingenui o pericolosi. Li ammiro e ne diffido. La Confraternita dei Pre-Raffaelliti voleva salvare l’arte riportandola a una presunta ingenuità originaria. La formazione artistica di Burne-Jones era stata finanziata da John Ruskin, mentore della Confraternita, che gli aveva pagato nel 1859 il primo viaggio in Italia. Così la sua pittura idealizzante e anacronistica, ispirata a Beato Angelico e Gentile da Fabriano, rifletteva gli ideali di un’arte pura ed elitaria, che si opponeva alla volgarità del realismo e al materialismo del mondo contemporaneo. La società vittoriana gli oppose resistenza, ma poi lo adottò, facendone un personaggio della Londra fine ’800: un mistico apostolo della bellezza, e alla fine anche un baronetto.
Per me sir Burne-Jones è il protagonista di un paradosso. Amo le sue superfici senza profondità abitate da dee, cavalieri erranti, statue e sirene; non perché avesse senso resuscitare un’arte morta da secoli con le convenzioni e le convinzioni che la ispirarono, ma perché – teorizzando l’esatto contrario – Burne-Jones stava inventando un’arte del futuro, popolare e universale. Il fumetto. O, come si dice oggi, la graphic novel.
Il destino compiuto è un episodio del mito di Perseo, uccisore di Medusa e liberatore di Andromeda, che impegnava Burne-Jones dal 1868. Narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, era stato dipinto da innumerevoli pittori (fra cui prediligo Piero di Cosimo, Tiziano e Moreau). Ma lui era partito da William Morris. Amico e sodale dai tempi di Oxford, quando leggevano a voce alta tomi di Platone, Morris aveva riscritto il mito nel poemetto The Doom of the King Acrisius (che fa parte della raccolta The Earthly Paradise).
Burne-Jones intendeva illustrare il volume dell’amico con 500 disegni. Ne preparò una settantina, poi il progetto naufragò.
Intorno al 1875 il conte Arthur Balfour, rampante politico tory nonché occultista, spiritista e letterato, gli commissionò la decorazione del salone principale della sua casa di Carlton Gardens. Gli lasciò la scelta del soggetto, e Burne-Jones tornò a Perseo. Un quadro, per lui, era il risultato di una maniacale elaborazione. Realizzò dunque svariati disegni a penna e inchiostro; poi li traspose ad acquarello su cartoni; approntò rilievi in gesso dorato su pannello di quercia e solo dopo iniziò a dipingere (lasciava asciugare il colore per mesi, e talvolta aspettava anni prima di verniciare). Passò il tempo: delle 10 tele a olio promesse a Balfour, ne finì solo 4. Il destino compiuto prevede lo scontro finale fra Perseo e il mostro che minaccia la vergine Andromeda. Scontro elementare, etico: il Bene contro il Male.
Ma Burne-Jones non credeva in un’arte didattica: i quadri non devono spiegare, piuttosto suggerire il mistero. La perfezione elegante della linea, il nitore formale, la meticolosità della pennellata, la precisione dei particolari conferiscono al quadro il ritmo ipnotico di una danza. Si tratta di una lotta mortale: ma non c’è movimento, furore, dinamismo. Totale è l’assenza di dramma. La composizione è cristallizzata in un’immobilità onirica.
Andromeda callipigia, in posa come una statua greca sul piedistallo dello scoglio, ci offre la visione di un nudo integrale femminile dal lato b tra i più attraenti della storia dell’arte. Appena sciolta dalla catena che la ancorava alla roccia a forma di menhir (ma anche di fallo), non sembra spaventata: volge il viso a destra verso il suo liberatore, Perseo. Non fosse perché in testa ha l’elmo che lo rende invisibile e non una chioma di capelli di rame, l’androgino eroe sarebbe identico a lei. Stesso volto aguzzo, stesso naso, stessi occhi.
Il suo abbigliamento è stupefacente. Burne-Jones studiò per mesi le armature da collezione, e si fabbricò un elmo di cartapesta. Non voleva inserire nel quadro armi o oggetti che rimandassero a un’epoca precisa. Il mito è fuori dalla storia e dalla realtà. È sempre.
Perseo indossa un’armatura che riverbera barbagli d’argento, o una corazza sottile di cuoio nero che gli aderisce alla carne come una seconda pelle? Entrambe, direi: la lamina d’acciaio sembra subire una metamorfosi e diventa guaina sulle cosce e i polpacci. Perseo è protetto da una sorta di maschera – guscio e talismano – come il supereroe Batman.
Il mostro, Burne-Jones lo immagina come un fascinoso serpente (e così gli assegna natura diabolica). Ma acquatico: una murena gigante, dalla pelle nera, liscia e lucida come la camera d’aria di un pneumatico. Perseo e il Mostro hanno la stessa pelle. Insieme, formano un’unica figura: Perseo è inglobato dentro le spire del Mostro, che gli si avviluppa intorno come una ruota: in precario equilibrio, la mano sinistra sul collo di quello, deve subire sull’inguine la pressione vagamente oscena del corpo dell’altro. La spada magica nella mano destra, sta per tagliargli la testa. Il mostro digrigna i denti, e lo fissa negli occhi.
Non c’è paesaggio. L’ambiente è ridotto a nuda materia: carne, roccia, acqua, metallo. Non sembra di essere in mare, ma all’interno di uno spazio claustrofobico, mentale. Insomma, grazie all’estetica da fumetto dark, il quadro trasmette minaccia e inquietudine. Il titolo contrasta con l’immagine: l’efebico Perseo sembra inadeguato e nulla suggerisce che possa vincere il Mostro e compiere il suo destino. Anche il messaggio è perturbante. Nessuno è ciò che dovrebbe essere: il maschio e la femmina sono gemelli; il Mostro e Perseo un’entità ambigua; l’eroe è solo la parte emersa dell’essere oscuro che li abita entrambi.
Forse si può essere innovatori senza saperlo e senza volerlo, perseguendo una pittura raffinata ed estetizzante, ignara delle asprezze dell’avanguardia, capace però di aprire spazi di libertà inaudita, lasciando affiorare sulla tela le paure e i fantasmi della psiche. Lottando coi propri demoni segreti tutta la vita, come Perseo. O come Burne-Jones.


Isherwood: nel music hall della Storia


La Berlino alla vigilia di Hitler secondo Isherwood: 
illusioni e incoscienza danzavano sull'orlo dell'incubo

Giorgio Montefoschi

"Corriere della Sera",  28 aprile 2013

Com'è Berlino nell'autunno del 1930, quando, in cerca di ispirazione e spunti per i romanzi che vorrebbe scrivere, vi approda dall'Inghilterra il giovane protagonista di Addio a Berlino (Adelphi, pp.252), vale a dire il narratore stesso: Christopher Isherwood, alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler e del nazismo? Cuore pulsante della Repubblica di Weimar stremata dalla crisi economica e morente, la città circondata dalla pianura prussiana con i suoi laghi e le sue foreste, conserva i segni imperiali nel grande viale fiancheggiato dagli austeri edifici storici in pietra grigia che conduce alla Porta di Brandeburgo, e quelli di una ricchezza ormai sempre più elitaria nei vecchi palazzi che hanno portoni tanto pesanti da dover essere spinti con due mani, o nelle ville dei quartieri residenziali, o in quelle sfarzose e spesso non eleganti sulle rive del Wannsee (nei cui campi da tennis Vladimir Nabokov dava lezioni in pantaloni leggeri di flanella). Ma ha anche quartieri miseri e sordidi, nei quali vive la borghesia che sta andando in rovina, il proletariato affamato che vuole riscossa e vendetta dalle umiliazioni, e guarda al comunismo, o si fa incantare dalle folli idee dell'uomo che da lì a quindici anni trascinerà la Germania nel baratro.
Il giovane aspirante scrittore vive, dando lezioni di inglese, in uno di questi quartieri squallidi. Egli ha una mente «visiva»: è come «una macchina fotografica con l'obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa». Alloggia in una stanza in affitto presso la signora Schroeder insieme a una ex cantante di music hall, una donna di facili costumi che riceve i suoi clienti in camera e lo smunto Bobby, un ragazzo che fa il barman al Troika, un locale frequentato da prostitute, papponi, stranieri in cerca di avventura, gigolò.
La vita nell'appartamento-pensione dotato di un solo bagno, fra litigi, spiate e addirittura dei furti, è soffocante. Finché un giorno, a rischiararla, piombata da chissà dove, arriva Sally Bowles. In realtà, viene dall'Inghilterra ed è figlia di una famiglia aristocratica — almeno così lei dice. È a Berlino perché vorrebbe fare l'attrice. Nell'attesa — finora ha fatto solo la comparsa in un film — canta in un locale, il Lady Windermere e quasi ogni notte, in cambio di una cena, di un regalo o di denaro, va a letto con uomo diverso — innamorandosi anche, talvolta. Parente prossima di un'altra attricetta sventata, la Holly Golightly di Colazione da Tiffany (ma lì siamo a New York, nel 1958), Sally ha un viso lungo e magro, quasi sempre coperto di cipria bianca, incorniciato da capelli scuri, grandi occhi marroni, le dita sporche di nicotina. Una sera, Christopher e Fritz Wendel — l'amico che gliel'ha presentata ed è pazzo di lei — vanno ad ascoltarla. Sally ha una voce sorprendentemente profonda e roca; canta male, «senza espressione, le mani penzoloni lungo i fianchi», eppure, proprio per questa sua aria noncurante, il sorriso provocatorio di chi se ne infischia di quello che pensa la gente, lo spettacolo ha un grande successo. Sally e Christopher diventano molto amici, ma non di più: lei va a letto con gli uomini, tutti (meglio se ricchi, se le promettono Hollywood); lui, tra non molto, andrà a trascorrere una estate sul Baltico insieme a due ragazzi.
Intanto, a volte litigano e poi si rappacificano; bevono tè e caffè dopo le sbronze e divorano sontuose colazioni consistenti in un uovo all'ostrica; decidono addirittura di vivere nella stessa casa; sognano il successo: che per Sally consiste nella ricchezza, nella fama, in ricchi contratti cinematografici; per Christopher, in un romanzo che venderà un numero spropositato di copie. «Mi sa» — lei gli dice un pomeriggio, fumando raggomitolata sul divano — «che deve essere favoloso, fare il romanziere. Un sognatore, un idealista privo di senso pratico. La gente crede di poterti fregare quando vuole, senonché poi ti metti a scrivere un libro su di loro, dimostrando che razza di porci sono, e hai un successo pazzesco e fai soldi a palate…». Cauto, il futuro scrittore le risponde: «Ho idea che il mio problema sia di non essere abbastanza sognatore…». Sally è come se non avesse sentito. Esclama: «Ah, se solo potessi diventare l'amante di un uomo ricco sfondato! Farei qualsiasi cosa, ora come ora, per diventare ricca».
Fuori, però, la situazione è diversa: le banche chiudono e, nonostante le rassicurazioni del Reich sui depositi, la gente è sgomenta e ha paura; sui giornali appaiono titoli allarmistici; nelle strade si aggirano le torve squadracce delle SA; di fronte ai negozi degli ebrei i giovani nazisti avvertono chi entra: «Questo è un negozio di ebrei»; la collera aumenta; gli ebrei vengono individuati e picchiati per strada senza che nessuno o quasi protesti; nelle ville in riva al lago di ricchi uomini d'affari ebrei (come i Landauer, proprietari degli enormi Magazzini Landauer) si danno ancora feste, a un passo dalla tragedia, con camerieri perfetti, caviale e champagne; nelle cantine comuniste arrivano i feriti negli scontri e non si aspetta altro che la guerra civile, perché allora arriveranno i russi e metteranno tutto a posto; la signora Novak (nuova padrona di casa di Christopher), una povera donna tisica moglie di un facchino ubriaco, madre di Otto, un ragazzaccio ombroso che si fa mantenere dagli uomini, e di Lothar che è diventato nazista, dice, in un momento di esasperazione: «Forse Lothar ha ragione. Quando Hitler sarà al potere, ci penserà lui a dare una lezione a questi ebreacci»; in un caffè si svolge il seguente dialogo fra un ragazzo nazista e una ragazza: «Sì, lo so che vinceremo» dice il ragazzo ubriaco «ma non mi basta: deve scorrere il sangue» — lei gli carezza un braccio per rassicurarlo e gli dice: «Ma certo, caro, il sangue scorrerà eccome. Il capo l'ha promesso, è nel nostro programma»; nei locali si continua a ballare; gli uomini si travestono; la situazione si fa sempre più grave; il sofisticato omosessuale comproprietario dei Magazzini Landauer, collezionista di antiche statuette orientali, amante della musica dei Meistersinger, muore misteriosamente — come molti altri ebrei cominciano a morire misteriosamente — per «arresto cardiaco»…
Addio a Berlino, pubblicato nel 1939, prima che accadesse il finimondo, è uno dei romanzi più inquietanti del Novecento. Racconta la terribile incoscienza della Storia. In che modo gli esseri umani vanno incontro alle catastrofi della Storia. Ne fecero un music hall. E, dal music hall, Bob Fosse trasse un film di grande successo, Cabaret, interpretato da Liza Minelli: un film brioso, se è possibile dirlo, divertente. Nel 1987, in un grosso teatro dalle parti dell'hotel Kempinsky davano il music hall nella versione tedesca. Non aveva nessun brio — lo ricordo benissimo —, era pesante e se vogliamo volgare. Sembrava un vestito vecchio, fuori moda, indossato male. Ma, quell'autunno, Berlino volava. C'erano due grandi mostre. Una, intitolata Berlin, Berlin che celebrava i 750 anni della fondazione della città, e un'altra intitolata Il viaggio per Berlino, che raccontava come nei secoli si arrivava a Berlino. Due mostre belle, importanti. Preparavano la caduta del Muro. E la collocazione di Berlino al centro dell'Europa. E il pensiero era là.

Il concetto dell'angoscia «conteso» da filosofi e psicanalisti


L’angoscia non ha occhi per vedere un determinato qui e là 
da cui si avvicina ciò che è minaccioso... Il minaccioso non è in nessun luogo
Una malattia, una sensazione o una condizione quasi di privilegio
nell’analisi di medici, psicologi, uomini di lettere

Armando Torno

"corriere della Sera", 28 aprile 2013

La storia della cultura occidentale ha elaborato non poche definizioni di angoscia. Anche se per i contemporanei vale più di ogni altra quella che il poliziotto Al Pacino rivela alla moglie Diane Venora in Heat-La sfida (è del 1995; regia, soggetto e sceneggiatura di Michael Mann): «Devo tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere». È lontana da quanto avvertiva Seneca, forse si avvicina alle parole conservate nel IV libro del De rerum natura di Lucrezio. Il quale, elegante materialista, era certo che essa nascesse «dalla sorgente stessa dei piaceri» (medio de fonte leporum).
Ma che cos'è l'angoscia? È consigliabile rivolgersi alla filosofia per conoscerla o è preferibile recarsi da un medico della psiche per poterla vincere? O forse è quella sensazione inafferrabile che accompagna le esistenze e che fece scrivere a Leopardi nei Canti, rivolgendosi alla luna: «io venia pien d'angoscia a rimirarti»? Una risposta che tenga conto dei diversi aspetti non è semplice. Come riporta il Vocabolario della lingua italiana Treccani, siamo dinanzi a uno «stato di ansia e di sofferenza intensa che affligge l'animo per una situazione reale o immaginaria, accompagnato spesso da disturbi fisici e psichici di varia natura». Nell'uso corrente, occorre aggiungere, con il termine si tende a indicare una condizione più intensa e grave dell'ansia; comunque tale distinzione è accolta solo in parte nei linguaggi di psichiatria, psicologia e psicoanalisi. Del resto in inglese e tedesco non si registra duplicità di termini: si definisce tale stato come ansia, anche se non mancano incertezze. I latini la chiamavano angustia (da angere, «stringere»). Gli effetti non sono mutati nel tempo: sensazione di contrazione dell'epigastrio (zona centrale dell'addome, al di sotto delle costole e poco sovrastante l'ombelico), difficoltà di respiro, tristezza o, come usavano nel periodo romantico, «dolore che quasi preme il cuore».
Perché occuparsene? Ogni epoca ha le sue angosce e la nostra, come tutti i periodi di decadenza, è intenta a moltiplicarle. Non a caso, il pensatore che più di ogni altro ha saputo coglierne aspetti, confini e caratteristiche ritorna con una certa forza in libreria: si tratta di Søren Kierkegaard, morto a Copenaghen nel 1855; aveva 42 anni.
Innanzitutto al filosofo danese è stata dedicata una nuova monografia da Ettore Rocca, nella quale una sezione riguarda appunto «Libertà e angoscia»; inoltre ritorna il breve e intenso saggio di Emmanuel Lévinas intitolato Kierkegaard, dove si rimedita il concetto di «diaconia», ovvero la responsabilità infinita nei confronti dell'Altro, contrapposizione all'angoscia esistenziale. Di più: l'indispensabile Diario del pensatore è stato completamente rivisto nella traduzione e negli apparati e di esso sta per uscire il secondo volume. E anche la raccolta delle Opere di Kierkegaard, curata da Cornelio Fabro nel 1972, ora vedrà la luce con originali a fronte e notevoli aggiornamenti: si avranno così a disposizione, dopo anni di assenza, gli scritti filosofici e teologici.
Il sommo danese lascia, tra l'altro, ne Il concetto dell'angoscia, una spiegazione di questo stato d'animo che diventerà un punto di riferimento anche per le ricerche psicoanalitiche e psichiatriche: «Si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell'abisso: perché deve guardarsi. Così l'angoscia è la vertigine della libertà». E ancora, nella medesima opera, Kierkegaard osserva con acutezza: «Nessun grande inquisitore tiene pronte torture così terribili come l'angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l'angoscia».
Si potrebbe continuare indefinitamente con codesto filosofo, giungendo alle connessioni che egli fa con il peccato e al fatto che la pone a fondamento della stessa colpa originale. Idea subito raccolta da Dostoevskij, anche se Marx aveva cercato nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto di mostrare che «l'angoscia religiosa è espressione dell'angoscia reale». Heidegger aveva avvertito il pensiero contemporaneo nella sua opera di riferimento, Essere e tempo, che «l'angoscia non ha occhi per "vedere" un determinato "qui" e "là" da cui si avvicina ciò che è minaccioso... Il minaccioso non è in nessun luogo». D'altra parte, lo stesso Freud in Inibizione, sintomo e angoscia nota che «è dotata di un certo carattere di indefinitezza e mancanza d'oggetto». Sartre, riprendendo la tradizione esistenzialista, aveva scritto ne L'essere e il nulla che «non possiamo sopprimerla, perché siamo angoscia». Letture che si rinnovano e si diversificano nella ricerca di tutto il Novecento. Varrà la pena aggiungere che per Lacan e per quanto scrive ne Il seminario. Libro X (pagine che risalgono al 1962-63), è possibile cogliere «la positività» dell'angoscia, poiché «è la via privilegiata per accedere al reale».
Per utilizzare i termini cari al francese, essa diventa il passaggio che porta al di là del significante. Freud dirà che i sogni di angoscia sono di contenuto sessuale, Schopenhauer che la metà di quelle che ci assalgono nascono dalle preoccupazioni per le opinioni altrui. Avevano ragione entrambi. L'amore e il prossimo sono tra le fonti della nostra angoscia.

Una bibliografia ricchissima per approfondire

Per una visione d'insieme delle definizioni e dei giudizi sull'angoscia, nonché per una prima indicazione delle ricadute che essa ha nelle diverse discipline, si può cominciare dall'articolo di H. Häfner «Angst, Furcht» (Angoscia, Paura) nel primo volume dell'«Historisches Wörterbuch der Philosophie» diretto da Joachim Ritter (coll. 310-14; Schwabe & Co, Basel-Stuttgart 1971). O dalla voce «Angoscia», di E. Borgna e F. Leoni, nel primo tomo dell'«Enciclopedia filosofica» (pp. 448-452, Bompiani). Il «Diario» di Kierkegaard uscì in tre edizioni distinte e con variazioni da Morcelliana di Brescia, quella da noi ricordata è la quarta in corso. La raccolta delle «Opere» del filosofo danese, invece, è del 1972 e la pubblica Sansoni in un tomo con testo su doppia colonna; nel 1995 la ristampa in tre volumi Piemme e ora, con originale a fronte, vedrà la luce nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani, diretta da Giovanni Reale. Le «Opere» di Freud sono edite in italiano da Bollati-Boringhieri, «Essere e tempo» di Heidegger è stato citato nella traduzione di Pietro Chiodi (Longanesi), «Il Seminario. Libro X» di Lacan è disponibile da Einaudi, «L'essere e il nulla» di Sartre è ne Il Saggiatore. Il «Kierkegaard» di Lévinas è uscito da Castelvecchi. 


Kierkegaard

«In questo stato c'è pace e quiete, ma al tempo stesso disordine e conflitto»

Il saggio più recente e aggiornato in Italia sul filosofo danese si deve a Ettore Rocca, Kierkegaard (Carocci editore, pp. 308). Questo studioso insegna estetica all'ateneo di Reggio Calabria e da più di un decennio svolge attività di ricerca nel Søren Kierkegaard Research Centre dell'Università di Copenaghen, inoltre collabora alla nuova edizione critica Søren Kierkegaard Skrifter. Il lavoro è uscito nella collana «Pensatori» di Carocci (è il numero 29 della serie) e contiene anche una aggiornata bibliografia. La sezione «Libertà e angoscia», divisa in sette capitoli, offre le coordinate per mettere a fuoco la questione dello stato d'animo che stiamo cercando nei diversi scritti kierkegaardiani. Tra l'altro si sofferma, riportando traduzioni direttamente dall'originale, sul caso Adamo. Il primo uomo nasce nell'innocenza e — si sottolinea — «innocenza è ignoranza». Ma ecco le parole del pensatore: «In questo stato c'è pace e quiete, ma c'è al tempo stesso dell'altro, che non è disordine e conflitto, poiché non c'è nulla con cui contendere. Che cos'è allora? Nulla. Ma che effetto ha questo nulla? Genera angoscia. Il profondo segreto dell'innocenza è che al tempo stesso è angoscia». Insomma, Rocca mette in evidenza questa angosciata ignoranza-innocenza del primo uomo, nonché il fatto che Adamo non capisca il divieto divino di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Del resto, egli non coglie ancora la differenza tra di essi. Rocca sottolinea: «Parla, ma non comprende davvero il linguaggio». È il testo di Kierkegaard che dipana la matassa: «Il divieto lo angoscia perché desta la possibilità della libertà in lui. Il nulla dell'angoscia che lo sfiorava ora è entrato in lui ed è, di nuovo, un nulla, la possibilità angosciante di potere. Che cosa sia che possa, di ciò non ha idea alcuna». Insomma — ecco la definizione — questo stato d'animo che stiamo inseguendo «è la realtà della libertà come possibilità della possibilità». Ma Adamo è libero con la sua innocenza? Rocca osserva, seguendo attentamente la lezione di Kierkegaard: «Se fosse libero, capirebbe e potrebbe; ma non capisce né il divieto né sa che cosa può. Sente solo di potere in modo indeterminato, senza potere nulla di determinato. Non potendo nulla, il suo potere è un nulla e lo angoscia».

The great Gatsby

Le stelle più vicine

Le Lecteur à l’oeuvre

FONDAZIONE BODMER

COLOGNY, GINEVRA

du 27 avril au 25 août 2013

Organisée par la Fondation Martin Bodmer en partenariat avec le Digital Humanities Lab de l’EPFL cette exposition expérimentale montre, à travers plusieurs siècles d’histoire de l’écriture, comment un texte est transformé par ses lecteurs. Elle propose un classement des manières dont ceux-ci, intervenant dans le livre, y inscrivent leur marque et lui impriment une allure nouvelle. Des premiers stades de la fabrication jusqu’à la diffusion et au delà, un texte passe entre les mains de plusieurs acteurs, chacun jouant un rôle différent : l’auteur qui se relit et se corrige soi-même, puis l’éditeur, l’illustrateur ou le traducteur, le savant qui inscrit ses commentaires, l’amateur qui annote son livre… Leggi tutto...


S. Salis, Con la complicità del lettore, "Domenica - Il Sole 24 Ore", 28 aprile 2013

IL SENSO DI MALERBA PER IL PARADOSSO

Paolo Mauri

"La Repubblica", 16 aprile 2013

Una volta a certi scrittori piaceva seminare zizzania e lavorare per mettere in crisi il loro stesso strumento di lavoro: le parole o almeno il modo tradizionale di intenderle. Invece di accontentare e blandire i lettori-consumatori cercavano di turbarli almeno un po' o di dis/turbarli, magari con uno sberleffo. Luigi Malerba ha sempre sorpreso i suoi lettori fin dai tempi della Scoperta dell'alfabeto, la raccolta di racconti con cui esordì nel ' 63. 
Proprio intorno a quegli anni Malerba cominciò a scrivere anche per il teatro e soprattutto per la radio e per la televisione. Si tratta di lavori dispersi e dunque introvabili e ha fatto bene Luca Archibugi a raccogliere quel che c' è in un libro pubblicato da Manni, intitolato Ai poeti non si spara che è poi il titolo di un originale televisivo del 1965. La prima pièce, molto breve, si intitola Qualcosa di grave, risale al ' 63, e mette in scena la vicenda paradossale di due attori (un uomo sulla quarantina e una donna un po' più giovane) che si sono dimenticati la loro battuta più felice, quella con cui incantavano il pubblico: anzi lo facevano ridere e piangere, perché la battuta era una sorta di passepartout, una chiave universale che andava bene per la tragedia e per la commedia. Senza quella battuta i due attori rischiano la fame. 
Ancora più paradossale è la ricerca di Anselmo e Lucilla in Babele (1965) i quali sono ormai incapaci di costruire una frase e se parlano raccontando i loro sforzi è per pura convenzione (Sul Caffè in quello stesso anno Malerba aveva scritto che le parole bisogna prenderle a tradimento, all' improvviso). A rigor di logica i due protagonisti dovrebbero esprimersi con dei muggiti, ma così non potrebbero mettere a parte gli spettatori del loro dramma. «Pare», dice Lucilla, «che un tempo gli uomini costruissero le frasi anche camminando per la strada, mangiando, senza pensarci prima, con abilità diabolica». 
Ecco, se c' è un tratto comune nel teatro di Malerba, cui piace lavorare con l' assurdo, è la condizione di pericolo in cui versa l' umanità e la sua capacità di comunicare: gli attori perdono la battuta, la coppia di Babele perde addirittura il linguaggio. Ma in Ossido di carbonio una coppia in macchina ha addirittura smarrito improvvisamente la memoria e non sa più da dove viene e dove va sicché imbocca gallerie in autostrada che minacciano di non finire mai, mentre in Stazione zero si ha subito l' impressione di trovarsi in un luogo molto infido e difficile da definire, salvo che ogni tanto qualcuno precipita come nel vuoto urlando. E' uno dei rari casi in cui Malerba fa posto all'angoscia. I personaggi qui non hanno nome e vivono in una sorta di limbo che, si saprà poi, è la zona del coma, dal quale non tutti riemergono. 
Ai poeti non si spara tocca invece in particolare il tema della concorrenza tra le macchine e l' uomo: qui il robot Gordon viene ingaggiato da una ditta che produce formaggini per sapere come mai le vendite calano. Con sgomento dei dirigenti Gordon propone di assaggiare i formaggini e si scopre che nessuno di loro li mangia mai: alla prova dei fatti i formaggini risultano pessimi. Ma Gordon ha mille altre qualità e tra queste il fatto di saper scrivere poesie, il che scatena la rivalità del capufficio Leonetti, poeta incompreso e inedito, ma convinto che la poesia sia una faccenda da uomini e non da macchine. Intanto il presidente cerca di interrogare Gordon sull' immortalità dell' anima. 
Il tema della concorrenza tra robot e uomo la si troverà ben rappresentata poco tempo dopo in 2001 Odissea nello spazio di Kubrick dove il cervello Hall impazzisce e tocca agli uomini disinserirlo per evitare che uccida tutti, ma si tratta di un tema diffuso in quegli anni che vedono i primi elaboratori elettronici di serie "ragionare" facendo calcoli molto complessi nel giro di pochi secondi. Sarà, proprio allora, un poeta sperimentale come Nanni Balestrini ad usare il calcolatore elettronicoa schede per produrre poesia. 
La produzione teatrale di Malerba guarda naturalmente a Beckett e Ionesco, ma già con l' impronta originale che ritroveremo nelle opere di narrativa. Cultore di paradossi, Malerba mette in scena un recipiente grande di dentro e piccolo di fuori che si ritrova anche nelle Rose imperiali, libro di racconti ambientati nell'antica Cina, e in Mozziconi. Un' invenzione molto utile, che però nessuno si è dato la pena di fabbricare. E se fosse una metafora che riguarda le parole?

sabato 27 aprile 2013

Messer Boccaccio che difese le donne


Un’eloquenza ricchissima a favore dei sentimenti nei «dilicati petti»
Un grande narratore da rileggere e rivalutare. 
Soprattutto quando si schiera a sostegno della causa femminile, 
dando voce ai tormenti e alle passioni di schiere di ragazze e signore. 
Come Ghismonda
Egli fu sempre in grado di tenere conto del dislivello tra sessi, 
con le donne escluse dalla sfera culturale

Renato Barilli

"L’Unità",  27 aprile 2013

I CENTENARI SONO UTILI PERCHÉ CI STIMOLANO A RILEGGERE I CLASSICI CERCANDO DI SPREMERNE FUORI MESSAGGI SEMPRE RINNOVATI E SUL FILO DELL’ATTUALITÀ. Non fa certo eccezione a questa regola aurea il caso del Boccaccio (1313-1375), la cui opera è ben lungi dal doversi considerare esaurita nei tanti motivi che se ne possono trarre. E si può partire proprio da certi aspetti che a questo grande autore si riconoscono per convenzione, tanto da averne modellato l’appellativo di «boccaccesco». A questo aggettivo si possono dare due significati, uno non alieno dal suscitare qualche sospetto e forse da limitare, se non proprio da abbandonare, un altro, invece, di sorprendente e non ancora del tutto sondata profondità.
L’autore di Certaldo è «boccaccesco» non tanto per una sua presunta capacità di inventare storie gremite, articolate, pronte anche a toccare aspetti pruriginosi, mosse insomma da una fantasia illimitata. Al contrario, chi ha avvicinato con gli strumenti della filologia i vari capolavori del grande narratore, e in particola l’opera massima, il Decamerone, ha potuto constatare che quasi tutte le trame erano a lui preesistenti, egli non ha fatto altro che recuperarle, col fine principale di metterle in bella forma.
Già qui si sfiora un motivo di attualità, si può infatti considerare il Boccaccio quale un campione di «riscrittura», di colui che non inventa, ma muta la chiave espressiva delle storie prese da altri. Col che, si passa alla seconda accezione del «boccaccesco», che questa volta è tuttora pienamente rispondente, e anzi da accentuare, da portare agli ultimi esiti. In questo caso ci si rivolge al suo periodare complesso, ricco di incisi e di subordinate, proprio di chi non si limita a riportare «storie» nude e crude, nel puro andamento della trama, ma le arricchisce senza fine di aggiunte, perifrasi, subordinate, nell’intento di circostanziare, precisare, fornire dettagli ulteriori. Basterebbe fare il confronto tra la nuda e scarna povertà di certe vicende quali si incontrano nel Novellino, dovuto a un anonimo scrittore del Duecento, e la pienezza di particolari con cui il Boccaccio le riscrive. Perché egli è stato un allievo ideale di Cicerone, e del suo periodare gonfio, esuberante di svolte e dilatazioni. Sta in ciò l’appartenenza del Boccaccio al fenomeno storico dell’Umanesimo.
Ma la gonfiezza di Cicerone, che magari sui banchi di scuola abbiamo imparato a detestare, era in realtà al servizio della professione in cui eccelleva, quella di avvocato, il quale deve essere eloquente al massimo, disteso nel presentare i casi, pro o contro la persona sotto esame. Ebbene, questo è stato il Boccaccio, attraverso il suo strenuo ciceronismo, un grande avvocato, ma a favore di quale causa?
Qui possiamo scoprire in lui un motivo di straordinaria attualità: egli ha patrocinato con ardore, esuberanza, eloquenza generosa e illimitata la causa delle donne. Bisogna premettere che per lui il tema dei temi, in tutta l’opera, è stato quello dell’amore, psicologico e anche fisico, tra l’uomo e la donna, ma subito accompagnato dalla constatazione di un dislivello. Le donne, a suo avviso, nei loro «dilicati petti», sentono, soffrono, vivono più dei maschi le pene d’amore, però mancano di strumenti per comunicarle adeguatamente. Il Nostro parte da una precisa diagnosi sociologica. Le donne, ai suoi tempi, anche se di ceto alto, erano escluse dal ricevere una buona educazione scolastica, non sapevano insomma di latino, non accedevano ai sacri testi ciceroniani, mentre d’altra parte restavano vittime dell’ozio, non essendo concesso loro di lavorare, a differenza delle consorelle degli strati popolari. E dunque, bisognava pure che qualcuno parlasse per loro. Questa la nobile causa cui il Boccaccio si presta, con impegno e devozione: dare la parola, e nei modi più ampi, articolati che la sua frequentazione di Cicerone gli consente, a quei tormenti e passioni muliebri che altrimenti sarebbero condannati al silenzio.
Troviamo in ciò la chiave principale che si può applicare alla maggior parte degli scritti del nostro autore, con applicazione quasi ad apertura di pagina. Tra la infinità di luoghi in cui questo elementare teorema potrebbe essere verificato basterà qui andare a compulsarne due. Per esempio, l’Elegia di Madonna Fiammetta concepita dal Nostro nel fecondo periodo del suo soggiorno a Napoli, allora capitale economica e culturale non seconda a Firenze. Vi si narra di una donna di nobile nascita, mal maritata come allora succedeva a un anziano «buon partito» che la trascura, ma concedendole il diritto di farsi un amante, pur di rispettare le apparenze. Sennonché questo giovane partner si allontana dicendole che deve tornare a Nord dove vive il padre, che essendo morente vuole sistemare con lui le questioni ereditarie, ma stia tranquilla, Fiammetta, che lo vedrà ritornare al più presto. Però passano i giorni, lui non si ripresenta, e anzi ben presto le giungono voci che sta per sposarsi con un conveniente partito della sua terra. Questi i fatti, che suscitano in Fiammetta una serie di commosse orazioni a tutela dei diritti, suoi e delle consorelle, contro il maschio traditore, in un balletto incessante tra la speranza in un ritorno e la cupa delusione di un abbandono definitivo.
Ma rivolgiamoci pure al Decamerone, giornata quarta, dedicata proprio agli amori che vanno a finire male, tra cui quello della Ghismonda, figlia di un principe titolato, Tancredi. La giovane ha la cattiva idea di innamorarsi di un giovane paggio, un legame sconveniente, agli effetti sociali, il che induce il padre a sopprimere addirittura l’indegno pretendente. Quando Ghismonda lo sa, pronuncia un’orazione sublime, che si solleva al livello della tragedia e potrebbe essere declamata sulle scene. O meglio, è l’avvocato Boccaccio a metterle in bocca una delle più belle e commoventi orazioni di tutti i tempi. Questo in deroga, evidentemente, ai canoni di una piatta verosimiglianza psichica, in primo luogo per la ragione a lui ben nota che le donne in quegli anni non erano capaci di tanta eloquenza, e poi per l’altra ragione ancor più cogente che chi è in uno stato di profonda emozione non riesce quasi a parlare. Invece la Ghismonda professa una delle più belle dichiarazioni a favore dell’uguaglianza dei diritti, non conta nulla la nobiltà di sangue, a confronto con quella dell’animo. Male ha fatto il padre-padrone a sopprimerle la generosa figura dell’amante, non pretenda che la figlia accetti quell’ignobile verdetto, essa intanto sente di continuare un dialogo spirituale con l’ombra dell’adorato, e non vuole tardare a raggiungerlo buttandosi dalla finestra e dandosi la morte.
La causa del femminismo è così superbamente tutelata, con anticipo di secoli rispetto allo stato attuale delle cose, in cui le distanze tra i sessi non sono ancora del tutto superate. Non guasterebbe un Boccaccio che si ripresentasse in panni attuali a riprendere la sua perorazione così straordinariamente anticipata e preveggente.

PER APPROFONDIRE:
Radio Svizzera Italiana, Boccaccio e le donne,  con Corrado Bologna e Antonella Anedda. CLICCA QUI.

Dai lumi a Internet: è esplosa la conoscenza


Massimiliano Panarari

"La Stampa - TuttoLibri",  27 aprile 2013

È una sorta di opera mondo la Storia sociale della conoscenza scritta da Peter Burke, uno dei maggiori e più famosi studiosi di cultural history (e di storia dell’età moderna). Dopo aver pubblicato, alcuni anni or sono, la «prima puntata» ( Da Gutenberg a Diderot ), esce, sempre per i tipi de il Mulino, il «secondo episodio» di questa affascinante carrellata Dall’Encyclopédie a Wikipedia, consacrata all’organizzazione del sapere dell’epoca contemporanea, quella dell’«esplosione della conoscenza», in cui lo sviluppo (ordinato) della conoscenza cede il passo alla frammentazione e alla disseminazione. Ed è anche l’età della coesistenza, all’interno dei campi della conoscenza, tra processi antitetici e antagonistici, che, in talune fasi, vedono il generarsi di squilibri tra le spinte contrapposte alla nazionalizzazione e all’internazionalizzazione, tra il professionismo e il dilettantismo, tra la specializzazione e l’interdisciplinarietà, fra la standardizzazione e la personalizzazione, e tra la democratizzazione dei saperi e le attività volte a contrastarla.
La conoscenza si sviluppa secondo un processo articolato in quattro fasi (mutuate dalle procedure dei servizi segreti), ovvero raccolta e accumulazione, analisi, diffusione e azione, e vede il ruolo decisivo di varie istituzioni: università, biblioteche, archivi, musei, riviste scientifiche, società culturali e think tank, altrettanti spazi sociali dedicati in molti dei quali si «fa ricerca», una locuzione che diventa sempre più frequente nei titoli dei libri (e nelle varie lingue europee) a partire dalla metà del XIX secolo.
La storia culturale indagata dallo studioso britannico è quella della «seconda età delle scoperte» (1750­ - 1850), con una nuova ondata di esplorazioni che misero a disposizione dell’Occidente un impressionante accumulo di informazioni in precedenza sconosciute. Ed è quella dell’osservazione di ambiti che vanno dallo spazio profondo dell’astrofisica (guardato da telescopi sempre più potenti) al foro interiore scandagliato dalla psicanalisi, fino ai sistemi di televisione a circuito chiuso e di videosorveglianza.
Una storia di circuiti accademici, in primo luogo, e, più in generale, dei luoghi di interazione sociale tra intellettuali e produttori di conoscenze (dai cabinet sino agli istituti di ricerca avanzati degli Stati Uniti novecenteschi), senza i quali, per fare un esempio illustre, La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (socio del Political Economy Club di Glasgow che trasse alcune idee dalle conversazioni con gli altri membri) non sarebbe stata la stessa.
Avendo sempre a mente, ci ricorda Burke, che le modalità di cambiamento di tecnologia, istituzioni e mentalità hanno un passo e seguono andamenti tra loro assai differenti. Velocità di crociera che dettano il ritmo della conoscenza e, oggi, andrebbero urgentemente riallineate, perché, come ebbe modo di dire il premio Nobel Herbert Simon, «una sovrabbondanza di informazioni crea una povertà di informazioni».

Shakespeare e Cervantes un incontro da letteratura


Osvaldo Guerrieri


"La Stampa",  27 APRILE 2013

Nel 1605 William Shakespeare e Miguel de Cervantes si incontrarono a Valladolid. Detto così sembra vero. Invece è una fandonia inventata da Anthony Burgess nel radiodramma Incontro a Valladolid reso disponibile in italiano dalla succosa traduzione di Masolino d’Amico e collocato dalla regista Consuelo Barilari al centro di un piccolo festival dedicato proprio ai due sommi in occasione della Giornata internazionale del Libro. Lo strano incontro non è del tutto campato in aria. Will e Miguel hanno pubblicato nel medesimo anno (il 1600) due capisaldi della cultura occidentale quali Amleto e Don Chisciotte, sono morti nello stesso giorno, il 23 aprile 1616 che però, per la difformità del calendario inglese da quello spagnolo, cadeva con una settimana di differenza. Pur nella separatezza erano perciò contigui.
Dentro un fitto programma di tavole rotonde e di film, ecco dunque la fantasticheria di Burgess. Shakespeare arriva in Spagna con i King’s Men (i suoi attori) al seguito di una missione diplomatica che ha lo scopo di festeggiare la pace tra Spagna e Inghilterra nel nome della cultura. Il Bardo soffre moltissimo la trasferta e non nasconde la repulsione per i costumi forti locali (ad esempio per la corrida). Condotto al cospetto di Cervantes, prova per lo sconosciuto un’immediata antipatia. L’hidalgo ostenta una superiorità derivata dalla fede cattolica e dal fatto che Shakespeare sia un autore di tragedie, mentre tutti sanno che il massimo dell’arte sta nella finezza della commedia. Il dialogo finisce qui. Sempre più inorridito, Shakespeare fugge.
Il radiodramma ha un numero enorme di personaggi, salta da un’epoca all’altra, racconta una città pulciosa, beona, crudele. Consuelo Barilari lo colloca in uno studio radiofonico, finge una trasmissione in diretta con quattro attori che hanno avuto il testo all’ultimo momento e sono costretti a interpretare tutti i ruoli e a fare i rumoristi. I quattro malcapitati sono i bravissimi Roberto Alinghieri, Marco Avogadro, Francesco Bonomo e Adolfo Margiotta. Allo scoccare delle pause pubblicitarie fingono di scambiarsi opinioni su ciò che stanno facendo, si danno consigli e si correggono a vicenda. Recitano insomma al quadrato, finiscono per sovrapporsi a Burgess in una ilare falsificazione della Storia.
Lo spettacolo sarà in tournée italiana e il radiodramma replicato.

E. RASY, L'incantesimo Cervantes, "Il Sole 24 ore", 12 maggio 2013

PER APPROFONDIRE: 100 Incredibly Useful Links for Teaching and Studying Shakespeare

La rivincita dello sconfìtto. Perché perdere è bello


Fallimenti di rango 
Il libro del giornalista-scrittore Domenico Quirico sui leader finiti nella polvere 
Perché perdere è bello 
Da Romolo Augustolo a Gorbaciov fino a Ratzinger, 
i grandi vinti hanno avuto un ruolo chiave nella Storia. E ora vengono rivalutati 

Giuseppe Sarcina

"Sette - Corriere della Sera", 26 aprile 2013 

Che cosa accomuna il re degli Incas, Atahualpa, al segretario del Pcus Michail Gorbaciov o all'imperatore Romolo Augustolo o perfino a Rasputin, il consigliere dell'ultimo zar di Russia? Nulla, se leggiamo la storia, la cronaca o, più semplicemente, la vita, con occhio pigro, accontentandoci delle spiegazioni lineari, senza salti, scivolando sulla superficie. A fine corsa il mondo di ieri e di oggi ci apparirà forse più comprensibile, ma sicuramente meno autentico. Negli anni Sessanta il grande storico Edward H. Carr (per qualche anno anche vicedirettore del Times di Londra) iniziava i suoi corsi spiegando agli studenti di Cambridge che i fatti sono come i pesci nel mare. Sono veri, esistono di per sé. Ma sono tanti e diversi fra loro, sembrano infiniti. La nostra comprensione della storia dipende da quanti e da quali fatti-pesci riusciamo a vedere o a catturare, mentre sicuramente ne ignoriamo la maggior parte. Cercare sempre nuovi "pesci" è un esercizio difficile che richiede dedizione, disponibilità alla fatica e umiltà  intellettuale. 
Domenico Quirico, 61 anni, è un giornalista-scrittore che consuma suole e libri in eguale quantità. Dalla Libia alla Siria, dall'Egitto al Mali. Appare in giacca e cravatta nel bel mezzo di un tumulto o nelle postazioni dei guerriglieri, magari con una biografia di Cavour sotto braccio. Fruga nelle discariche. Cerca negli scarti della sconfitta le ragioni di una vittoria, di una svolta. Lo fa sui campo, nel suo lavoro di cronista. E lo fa la sera, a tavolino, affidandosi a un linguaggio evocativo e spigoloso (forse, talvolta, un po' troppo). Ha appena scritto un libro che ha titolato Gli ultimi, la magnifica storia dei vinti (editore Neri Pozza). È la raccolta di dieci ritratti, dieci perdenti, dieci curatori fallimentari, dieci "liquidatori". Sono divisi in tre categorie: "i buoni a nulla", "i mistici", "i consapevoli". La natura di una disfatta dice molto sul destino di un popolo. Può essere una fuga, scomposta, umiliante come quella di Dario, l'imperatore degli Achemenidi, l'erede di Ciro il Grande, di fronte alla forza emergente di Alessandro il Macedone. Oppure una lenta, insipida consunzione: la fine anonima, sciatta, dell'impero romano, liquidato, con inconsapevole inerzia, da Romolo Augustolo. 
Il racconto di Quirico salta, quasi provocatoriamente, da un secolo all'altro. Lascia i deserti della Persia per piombare tra i mosaici di Ravenna. Corre verso la Città proibita a Pechino dove, nel 1908, l'antica dinastia dei Qing si affloscia con un ultimo atto grottesco, proclamando Imperatore un bambino di tre anni, Pu Yi ("l'ultimo imperatore" del film di Bernardo Bertolucci). Ma il «più buono a nulla di tutti» è Gorbaciov, l'ultimo comunista sovietico li giudizio di Quirico è sferzante: «Molle vaniloquente tortuoso leggerrnente vigliacco, un Erostato deciso a distruggere il Tempio per carrierismo...». L'utopia comunista, il paradigma ideologico sovietico, il gigantismo militare, la sfida di civiltà all'Occidente naufragano miseramente con i gesti, le parole di Gorbaciov («Sono come l'aria e l'acqua, le stringi e non trovi niente»). Lo stato d'animo della Russia di oggi non può prescindere dal fallimento degli Anni 80 della "perestroika", della "glasnost"; da quella tremenda delusione seguita alla catastrofe di Chernobyl del 1986, quando si scopri che anche l'uomo nuovo aveva mentito, nascosto la verità sull'incidente nella centrale nucleare esattamente come avrebbero fatto i vecchi arnesi del dispotismo comunista. La frattura tra il potere e il popolo della nuova Russia, o, più modernamente, tra istituzioni e opinione pubblica, cominciò lì e non si è più ricomposta. La 'Storia dei vinti" può anche insegnare il fascino dell'innocenza, della dignità, valori alternativi ai modelli di solito vincenti. Nel novembre del 1532 il re inca Atahualpa si presentò con pochi uomini disarmati nella cittadina di Cajamarca, rispondendo a un invito del conquistador Francisco Pizarro. Il limpido indio si attendeva un colloquio di pace, si ritrovò nel mezzo di una volgare imboscata. 
Fu vittima del suo "misticismo", come lo definisce Quirico, il "misticismo" dì Atahualpa si traduce nell'idea, semplice, primitiva, ma pur sempre eternamente in campo, che le relazioni tra gli uomini possano essere regolate dalla fiducia e non solo dal calcolo. 
La scelta di Benedetto XVI. Ci sono sorprese anche nel capitolo dei "liquidatori consapevoli". Il generale Mustafa Kemal Ataturk demolisce nel giro di pochi anni (1920-1^22) la millenaria costruzione ottomana. E un vincitore, è il fondatore dì un nuovo modello (uno Stato laico nel cuore della mezzaluna musulmana). Ma « estirpare il passato», scrive Quirico, «è missione dura e include atti ingrati. I troppo sensibili combino mestiere». E il mestiere del "liquidatore" può consumarsi «tra le montagne calve» dell'Anatolia, oppure tra l'incenso e gli intrighi del Vaticano. 
È Benedetto XVI, il papa emerito, "l'ultimo degli ultimi", n teologo più sofisticato, l'intellettuale più raffinalo, alla fine, compie il gesto più istintivo, il più inatteso. Lasciare prima che "la novità" del mondo penetri nelle crepe della Chiesa, «gocciolando, spazzando via questo e quest'altro».