martedì 26 marzo 2013

Vite che non sono le nostre


Così gli psicologi spiegano perché ci ostiniamo a pensare a ciò che non è stato

Le occasioni perse che continuano ad ossessionarci

Gabriele Romagnoli

"La Repubblica",  25 marzo 2013

“La sposa americana” la chiami, anche se non l’hai vista mai più. Perché consideri quei sette giorni il vero, perfetto, assoluto matrimonio della tua vita. Alle sliding doors, a tutte le direzioni che non hai preso. Che credi di non aver preso, perché le vite che non hai vissuto hanno vissuto te. Ti hanno occupato, consumato. Sono state il tuo sogno ricorrente, la tua fantasia, qualche volta il rifugio. Una frustrazione o un balsamo. Dipende da dove ti ha portato la vita che chiamano reale e da quanta saggezza riesci a metterci. Perché, nella peggiore delle ipotesi, potresti farti rodere dall’invidia per quella persona che non sei stato, dall’odio per quell’altra che vive in te, ma soltanto lì. E scaricare questo peso su chi ti sta accanto. O, alla fine, su te stesso.
Adam Phillips è uno psicologo inglese elevato dai suoi libri al ruolo di psicostar internazionale. È un abile divulgatore e un affabile conversatore. Il suo metodo consiste nel cogliere un barlume di senso acquattato nell’oscurità, enunciarlo e poi, una volta che ti ha colpito con quell’evidenza, allegare pagine di brevi saggi su argomenti limitrofi. Il prologo è il libro, ma il prologo in effetti vale un libro. Accade anche con questo Missing Out (Hamish Hamilton, 20 sterline), non ancora tradotto in Italia, ma già apprezzato nei Paesi anglofoni. Phillips si occupa delle vite non vissute e ci segnala questa considerazione: superata la sliding door delle scelte o degli accadimenti, con noi sulla strada prescelta viaggia l’ombra di quel che crediamo di non essere stati. Il fatto che questa idea irrealizzata sopravviva può essere accertato facilmente. Chiudete gli occhi e pensateci: non accompagnate un pezzo degli Stones immaginando il musicista che non siete? Non fantasticate a ogni happy hour sulla vita del single che non siete più da anni? O viceversa, se lo siete, mentre vi aggrappate al bancone non v’immaginate la presunta delizia di riabbracciare moglie e figlia al rientro? Se è così, e probabilmente è così, ha ragione Adam Phillips: state vivendo anche le vite di scorta. Vite che sono la vostra, anche se non ve ne rendete conto.
Un'altra psicostar, James Hillman, ebbe anni fa un successo planetario con un libro intitolato Il codice dell’anima. Vi si sosteneva la teoria che ciascuno ha dentro di sé un “daimon”, una vocazione, presso l’amante unica (Michael Jordan, atleta formidabile, eccelleva nel basket, ma fallì nel baseball). Può cercarla in sé e non trovarla mai. Può scoprirla per caso. Hillman racconta di una piccola bambina di colore salita su un palco di Harlem per un saggio di fine anno e annunciata come danzatrice che tirò la giacca del presentatore e disse a sorpresa: «Canto, invece». Era Ella Fitzgerald, improvvisamente consapevole di sé.
I testi di Phillips e Hillman sono complementari. Inseguiamo il “daimon”, lo evochiamo, ma spesso non riusciamo a incarnarlo. Allora permane in noi come ombra, illusione, frustrazione. Perché le vite che non sono la nostra ma che tuttavia viviamo non sono certo i pericoli scampati, i fallimenti evitati, i delitti non castigati. Quelli ce li lasciamo alle spalle con una scrollata, un po’ come l’oculista di Crimini e misfatti, uno dei più bei film di Woody Allen. Commissiona l’omicidio, non viene scoperto e si accorge con stupore che la sua vita va avanti, ripensa sempre meno a quel che ha fatto, non si immagina indagato, accusato, carcerato. Sono le mancate soddisfazioni a radicarsi dentro i nostri sogni. Che farne? La soluzione più semplice è continuare a inseguirle. Capita, seppur rare volte, che le porte girevoli, ruotando su se stesse, ripropongano a distanza di tempo l’uscita perduta. Un magistrato come Giancarlo De Cataldo o un dentista come Ala Al Aswany diventano scrittori di successo. Il capostazione Gianmaria Testa sfonda (in Francia) come cantautore. Un comico crea un movimento politico e vince le elezioni. Fiorentino Ariza ritrova Firmina Daza. Carlo, Camilla. Le vite di scorta si sostituiscono a quelle originali, il motore canta, sì viaggiare. Facile. Bello. E se non accade? Uno dei guasti più diffusi è la consegna del problema all’erede. Uomini e donne che hanno desiderato per sé un camice o qualche altra divisa iscrivono figli svagati a Medicina, li funestano con lezioni di pianoforte, li misurano per capire quando potranno finalmente essere futuri campioni di pallacanestro. Mai, probabilmente. Perché magari avranno le qualità che mancavano ai genitori ma non ne avranno (soprattutto se sobillati) la volontà. Ogni vita è unica, anche nel non vissuto. E proprio perché unica non può consentirsi di fronte al bivio, di qua o di là, la risposta: in entrambe le direzioni. La non scelta porta alla tragedia. Uno dei terroristi dell’11 settembre era sposato con una donna turca in Germania. La notte prima di morire ha fatto testamento e una lunga telefonata a lei piena di progetti dei quali appariva ed era convinto. È andato a schiantarsi pensando a come organizzare il ricevimento di famiglia a Beirut. Il caporal maggiore Salvatore Parolisi, omicida o no che sia, prenotò due soggiorni per le vacanze pasquali, uno con la moglie e l’altro con l’amante, come se potesse ubiquamente fruirne, avendo due vite.
Non accettare l’esistenza come irrimediabile può determinare un danno. Vivere è giocare alla roulette. Si fanno scelte continue et rien ne va plus. Il colore su cui la pallina si ferma determina la vincita, poi c’è un altro turno e, come invita il croupier, ognuno rifà il suo gioco. Chi si ferma a riesaminare, rimpiangere, rivivere il giro di ruota precedente perde possibilità. Perde e basta. Succede a tanti, un po’ a tutti. Ecco perché i casinò prosperano e il destino è considerato crudele mentre è, nient’altro.

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