martedì 5 marzo 2013

Tiziano


Il talento di Tiziano

Quaranta capolavori da tutto il mondo. Così fu ai vertici nel sacro e nel profano

Edoardo Sassi

"Corriere della Sera",  5 marzo 2013

In secoli e secoli di esegesi delle sue opere, su di lui, per provare a descriverne la grandezza, si è detto di tutto: perfino che la storia della pittura si divide in due grandi periodi, prima e dopo Tiziano. Ed è proprio a Tiziano che è dedicata l'esposizione che apre al pubblico oggi, fino al 16 giugno, presso le Scuderie del Quirinale a Roma, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa.
Quaranta le opere in mostra, selezionate nella vastissima produzione del pittore natio di Pieve di Cadore, morto a Venezia nel 1576 e protagonista assoluto del secolo «aureo» della pittura italiana («Tiziano è colui che porta la bandiera...» ebbe a dire il genio di Velázquez, e «Siamo tutti carne e sangue di Tiziano» dirà un giorno Delacroix). Tra le altre, il magnifico Concerto — tela tanto a lungo e in parte ancora oggi attribuita al suo maestro Giorgione — e la celeberrima Bella di Palazzo Pitti, uno dei principali prestatori di questa rassegna (da lì arrivano anche la Maddalena, 1531-1535, e il Ritratto di Tommaso Mosti, 1520 circa).
Emozionanti le sale al secondo piano del percorso espositivo, dove il visitatore si trova immerso tra i vertici «profani» della pittura tizianesca, ritrattistica in particolare: la Flora degli Uffizi — massima notorietà per lei fra le tante figure femminili dipinte dall'artista nel secondo decennio del Cinquecento — il Ritratto di Francesco Maria della Rovere duca di Urbino, quello di Giulio Romano e quel capolavoro universale che è il Ritratto di Ranuccio Farnese dodicenne, uno dei prestiti internazionali forti dell'esposizione romana (in arrivo dalla National Gallery di Washington) insieme con il bellissimo Uomo col guanto, giunto dal Louvre e appartenuto in passato alla collezione privata del Re Sole.
Delle celebri Veneri tizianesche è presente in mostra la sola Venere che benda Amore della Galleria Borghese, uno dei quattro pezzi trasportati «Roma su Roma»; gli altri sono il Battesimo di Cristo, dalla Pinacoteca Capitolina, la monumentale Apparizione della Madonna con il Bambino ai santi dei Musei Vaticani e la Salomè con la testa del Battista della Galleria Doria Pamphilij, giustamente affiancata alla Flora, alla quale è iconograficamente affine, per uno dei confronti diretti proposti dal curatore lungo il percorso. E considerata l'inamovibilità della Venere di Urbino, l'oggettiva difficoltà di trasferire opere gigantesche quali Carlo V nella battaglia di Mühlberg, nonché la smisurata produzione dell'artista, la mostra, nonostante alcune assenze (la serie dei «Baccanali», ad esempio) allinea comunque un buon numero di capolavori già a partire dall'Autoritratto del Prado del 1565-1566 circa che apre, idealmente ma anche oggettivamente, il percorso.
Dal museo spagnolo, che detiene una delle collezioni più importanti al mondo di opere di Tiziano, artista di corte prediletto dall'imperatore (oltre che dai Dogi e dai regnanti e nobili di tutta Europa), arrivano inoltre il Ritratto di Carlo V con il cane, del 1533, e la Deposizione di Cristo nel sepolcro (1559), cui si aggiungono altre due opere sempre di provenienza spagnola, il Ritratto del doge Francesco Venier, Museo Thyssen-Bornemisza, e il Cristo Crocifisso dell'Escorial.
Un altro Autoritratto, prestato stavolta da Berlino (Gemäldegalerie) — tela che con il suo non-finito delle mani mostra un grado di espressività moderna davvero stupefacente per l'epoca — quasi chiude una mostra (catalogo Silvana Editoriale, con saggi, tra gli altri, del curatore e di Antonio Paolucci) che si congeda definitivamente dal visitatore con il Supplizio di Marsia, una delle opere più angoscianti della storia della pittura d'ogni tempo sulla quale scrisse pagine illuminanti Erwin Panofsky, con scene di tortura e il dettaglio del cagnolino che lecca il sangue del protagonista legato a un albero e scorticato vivo per volere del dio Apollo a causa del suo peccato di hybris, ovvero della sua superbia.
Al pianoterra, dove l'allestimento si apre con una citazione del grande storico dell'arte veneta Rodolfo Pallucchini, le opere di carattere religioso, molte di grandi dimensioni. Tra queste, la Pala Gozzi di Ancona. Mentre a far da «cerniera» tra prima e seconda parte del percorso c'è lo strabiliante Ritratto di Paolo III senza camauro, da Capodimonte, stesso museo che ha prestato anche la famosa Danae e la pioggia d'oro.
«Dopo la fondamentale retrospettiva a Cà Pesaro del 1935 — spiega Villa — e trascorsi più di vent'anni dall'ultima monografica di rilievo, nonché dopo tante esposizioni che hanno indagato e indagano le diverse fasi della carriera del pittore, questa mostra alle Scuderie intende invece ripercorrere l'intero arco di attività dell'artista, cogliendo i tratti salienti della sua inarrestabile ascesa, dagli esordi veneziani in seno alle botteghe di Giovanni Bellini e Giorgione, all'autonomia acquisita con le grandi tele per i dogi, gli Este e i Della Rovere, fino ad arrivare alle committenze imperiali di Carlo V e poi del figlio Filippo II».


Alle Scuderie del Quirinale 
la grande mostra sul maestro che aprì una nuova via nell’arte
Fu descritto come “il ponte tra la civiltà dell’Ariosto e quella di Shakespeare”
Il signore della luce e l’essenza della pittura

Lea Mattarella

"La Repubblica",  5 marzo 2013

«Siamo tutti carne e sangue di Tiziano», ha affermato Eugène Delacroix. E questo la dice lunga sulla modernità insuperabile del pittore, che ha attraversato il Cinquecento (muore nel 1576) rivoluzionando il proprio linguaggio e restando però saldamente all’interno della tradizione pittorica veneziana.
La mostra aperta alle Scuderie del Quirinale di Roma da domani e fino al 16 giugno (catalogo Silvana) è l’ultima tappa del viaggio attraverso la grande pittura veneta che ha visto in precedenza, in questi stessi spazi, le esposizioni monografiche di Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Tintoretto alle quali si può aggiungere anche quella di Antonello da Messina che giunge in laguna dalla Sicilia. «Abbiamo voluto dimostrare – spiega Giovanni Carlo Federico Villa, curatore di questa bella rassegna – che tra il 1460 e il 1570 Venezia è stata il luogo di incubazione del linguaggio pittorico moderno che si nutre di un umanesimo “repubblicano” e di un primato del colore capace di irradiare non soltanto la costruzione dei quadri, ma anche il mosaico, i vetri, i tessuti».
Questo appare chiaro fin dal tenebroso Martirio di san Lorenzo, superba pala d’altare che apre l’esposizione. Arriva dalla cappella di Lorenzo Pezzana nella chiesa dei Gesuiti di Venezia, che proprio in questa occasione sarà restaurata. Si tratta di un’opera drammatica, piena di agitazione e di pathos in cui la notte e il fuoco della graticola su cui è stato trascinato il giovane diacono e delle fiaccole tenute dai suoi torturatori mettono in scena una vera e propria lotta, basata su un audacissimo contrasto luministico. Siamo in una data compresa tra il 1547 e il 1559 e Tiziano è diventato da tempo uno dei pittori più ambiti del suo tempo. Ha lavorato per corti importanti come Mantova e Ferrara, ma anche per Carlo V che conquisterà dopo aver realizzato la copia del suo ritratto con il cane dipinto da Jacob Seisenegger nel 1532, trasformando un’opera dominata dal disegno in un evento cromatico.
Era nato a Pieve di Cadore, probabilmente nei primi anni novanta del Quattrocento, ed era arrivato a Venezia intorno ai 13 anni. Da Giovanni Bellini e da Giorgione aveva appreso il “tonalismo”, ovvero il modo di dipingere tipico della pittura veneziana, basato sul protagonismo della luce, in contrapposizione a quello fiorentino governato dal disegno. Ciò non impedirà a Tiziano di guardare con grande attenzione Michelangelo, colui che più di tutti incarna questa esaltazione della linea di contorno. Tanto da far dire al letterato suo contemporaneo Ludovico Dolce che in lui si poteva ritrovare «la grandezza, e terribilità di Michelangelo, la piacevolezza e venustà di Raffaello, ed il colorito proprio della natura ». Ma come sottolineato da Erwin Panofsky per Tiziano tutte le influenze «servirono soltanto a nutrire la sua originalità. Nessun altro grande artista si appropriò di tanto facendo così poche concessioni; nessun altro grande artista fu tanto flessibile pur restando completamente se stesso».
La mostra racconta in 40 opere la sua geniale duttilità. Ad abbracciare questa costellazione di dipinti nella prima e nell’ultima sala ci sono due autoritratti dell’ultimo periodo. Il primo è una sinfonia in nero da cui emergono il volto affilato dalla vecchiaia e la mano che tiene ancora saldamente il pennello. Il secondo è impressionante per la qualità della pittura scabra e per lo sguardo vivace e imperioso che guarda lontano. Le mani appena accennate e la posizione assertiva rivelano la grande considerazione di sé e della sua pittura.
La mostra segue poi un ordine cronologico e una divisione in pittura sacra, ritrattistica e pittura profana. Si assiste così al suo lungo cammino artistico attraverso icone celeberrime come il Ritratto di papa Paolo III, il Concerto, la Flora, una delle opere più copiate della storia dell’arte. Tanto da indurre alla fine dell’Ottocento il direttore degli Uffizi a fare un decreto che vietava che ci fossero più di 5 copisti davanti al quadro. Se Flora rivela una sensualità quasi involontaria, è Danae a suggerire una carnalità quasi sfacciata. L’esposizione presenta anche opere più rare come la pala, già a San Nicolò dei Frari a Venezia e ora nella Pinacoteca Vaticana, ammirata da Goethe come un quadro perfetto che “risplendeva ai miei occhi”, o il Ri- tratto del cardinal Pietro Bembo, un mosaico eseguito da Valerio Zuccato su cartone di Tiziano che l’artista portò a Roma in dono all’alto prelato per ingraziarsene i favori. «La scelta di questa tecnica si ricollega alla profonda conoscenza della cultura greca da parte di Bembo», sottolinea Villa. Tra le rarità c’è anche il Cristo crocifisso che si conserva nella sacrestia dell’Escorial, dove lo si può vedere solo una volta l’anno. Una forte componente belliniana si rivela tra i dipinti giovanili come Il vescovo Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VII e la Madonna con il bambino e i santi Caterina, Domenico e il donatore costruito per masse cromatiche luminose. Bellissima la carrellata di ritratti: da quello di Paolo III con lo sguardo di brace e le mani che parlano, di cui Vasari racconta che quando fu messo su un terrazzo per “verniciarsi” i passanti «credendolo vivo gli facevon di capo», all’Uomo col guanto, giovane malinconico e misterioso, fino a quello di Ranuccio Farnese, bambino impacciato sotto un manto per lui troppo grande. L’imperatore, cortigiani, dogi, dame, artisti: tutti volevano farsi effigiare da Tiziano.
E la sua pittura nel frattempo mutava: la tavolozza si scuriva e la pennellata diventava sempre più essenziale e fluida. «Tiziano non dipinge con la materia, lo si è creduto perché spesso è stato studiato sulle fotografie, ma in realtà tutta la sua pittura è a risparmio, scarna, semplificata, costruita per velature molto sottili sovrapposte, proprio come faceva Bellini », sostiene ancora Villa. Ed è proprio questo modo di dipingere del Tiziano maturo che ne fa il pioniere di un modo nuovo di afferrare il mondo con lo sguardo. Rembrandt, Velázquez, Rubens, Goya ne faranno tesoro. Tiziano è punto di passaggio tra due mondi, o meglio, come affermava Rodolfo Pallucchini, «tra due civiltà, quella dell’Ariosto e l’altra dello Shakespeare».

Il supplizio che sconvolse l’Occidente
La punizione di Marsia arrivò a Londra per la prima volta nell’83

Carlo Alberto Bucci

"La Repubblica",  5 marzo 2013


Nel 1983 l’arrivo a Londra dall’allora Cecoslovacchia della Punizione di Marsia fu uno shock per il pubblico della mostra The Genius of Venice.
Bellezza e orrore apparvero inscindibili in questa tela che per la prima volta superava la cortina di ferro e in cui carne e colore, sangue e dolore, si mischiano ed esaltano nel tocco “digitale” dell’ultimo, grandissimo Tiziano. Per i Nuovi selvaggi tedeschi e per gli artisti della Transavanguardia fu un piacere scoprire che il loro ritorno alla pittura poteva trovare una radice nobile nei tocchi con le dita del maestro vissuto 400 anni prima. Baselitz, in particolare, poteva specchiare i suoi uomini dipinti a testa in giù nel corpo rovesciato del satiro martoriato in un Pulp fiction ante litteram.
Dall’ormai lontano 1983 il La Punizione di Marsia ha molto viaggiato inseguendo le esposizioni su Tiziano poiché è opera fondamentale nel percorso artistico, ed esistenziale, del pittore. Dipinta tra il 1570 e l’anno della morte del maestro (1576), la grande tela è oggi conservata nel museo di Kromeríz, nella Repubblica Ceca. Di difficile fruizione negli anni della guerra fredda, l’opera è stata studiata dal vivo da Augusto Gentili per il suo libro del 1980 Da Tiziano a Tiziano (Feltrinelli). Lo studioso italiano ha inserito questa raffigurazione capitale di “martirio” – che ricorda quello di san Pietro – nella riflessione che il pittore fa negli ultimi suoi anni intorno al potere: Apollo, solare divinità delle arti, si trasforma in belva feroce e scortica vivo il satiro dopo averlo sconfitto nell’impossibile sfida di una gara musicale. Il quadro di Tiziano è copia fedele di uno scolorito affresco di Giulio Romano a Mantova, noto da un disegno oggi al Louvre. In entrambe le opere alla base ci sono le Metamorfosi e i Fasti di Ovidio con l’intreccio tra due favole: quella di Apollo e Marsia e l’altra del giudizio di Mida nella gara di Apollo e Pan. Nell’affresco di Giulio Romano Mida – condannato a morire di fame dopo che si vide esaudito il desiderio di trasformare in oro tutto ciò che toccava – si copre gli occhi per non vedere. Nella Punizione di Marsia di Tiziano, invece, Mida è nella posizione del melanconico e medita sul proprio errore. Ed è ormai opinione condivisa vedere nei lineamenti del re pentito i tratti inconfondibili del viso di Tiziano, il vecchio pittore “dal tocco d’oro” ritrattosi nei panni dell’uomo che osò giudicare gli dei.
Testo pittorico sublime, il dipinto che, come ha sottolineato Michele Di Monte nel 1999, pone Marsia (esattamente l’ombelico del satiro) al centro della scena e lo fa dialogare con noi attraverso lo sguardo, è stato frutto di numerose e opposte interpretazioni: è un atto d’accusa verso il potere estremo e capriccioso degli dei o è invece un’allegoria del percorso artistico che deve sacrificarsi e scarnificarsi per raggiungere la purezza del canto? Ci pensa Luisa Attardi a riepilogare le molte letture nella corposa scheda nel catalogo della mostra. La critica è anche divisa sulla completa autografia del dipinto: il musico con la lira e il bambino con il grosso cane quasi certamente sono stati aggiunti da seguaci di Tiziano alla sua morte anche se per altri studiosi il quadro è tutta farina del suo sacco. A noi rimane l’incanto di una tragedia che, nei contenuti come nella forma, incarna l’eterno: il “non finito” di Tiziano da leggersi, sulla scorta di Jérémie Koering, come “pittura infinita”.



Così un genio stregonesco inventa la classicità

S’inaugura domani a Roma la grande mostra dedicata al maestro veneto
Viaggio in anteprima tra i capolavori che hanno segnato il Rinascimento

Marco Vallora

"La Stampa",  4 marzo 2013

Avercelo lì, a sommità della scalinata delle Scuderie, è quasi un’esplosione incontenibile di tran-secolarità dell’intera storia dell’arte. Deflagra dolcemente, in fragoroso, notturno «ralenti», come una morbida, franante granata di sensuale e vellutata bellezza, e di terribilità tutta veneta, ma di pur universale monumentalità (pare la Fenice che s’infiamma. In un vortice di terrestre burrasca del Sublime incendiato). Riavercelo, come tra le braccia dello sguardo, questo estremo e potentissimo Martirio di San Lorenzo, che nella sua chiesastica sede veneziana era pressoché invedibile: per lo scurore del tempo e del tempio, ed i capricci del sagrestano. Ora restituito ad un originario splendore di lapilli eruttivi, grazie anche al sapiente restauro «piemontese», firmato Nicola, che ci offre in adorazione questo telero, superbo e «accadente» (in senso sartriano). Che continua a profondere la sua incandescente lava materica imbronciata di paure, riverberando l’incanto sinistro di questa notte, furiosa, della fede. Il braccio levato del santo lessato, ma in panni aulicissimi, come a fermare il Tempo ed il visitatore pellegrino, sulla soglia di questa sontuosa Via Crucis, redentrice della magnificenza materica, translucida. E quasi va illusivamente a fuoco, nell’incandescenza tremula delle braci assassine, stipate sotto quella levitante graticola, che slitta verso di noi, sfuggendo ai binari dello scenario palladiano, ed ufficia insieme barlumi manieristi e tensioni già barocche. Con i monumenti intorno che intanto si fanno stretti e trafelati, come sinistri tifosi: uomini, torturatori, architetture tortili, che paiono incendiarsi ed assottigliarsi, quasi fragili ceri, fusi stregati, nutrendo nel grasso fumigante tutto uno stuolo di seguaci visionari, da El Greco a Mastelletta, da Tintoretto, a Bassano, da Fuessli a Daumier.
Certo, il rischio e la tentazione è di fermarsi qui, anche con il commento: come cavalli imbizzarriti e indomiti, sotto gli occhi fieri ed irrequieti di Tiziano stesso, che in questo suo Autoritratto di maturità, fa la spola di pupille, tra noi ed il suo orgoglioso capolavoro di nonagenario (altro che cecità, altro che lavorare di solo polpastrelli o colpi di straccio!). Con una sprezzatura quieta e saggiamente dolente, gli occhi rugosi d’esperienza, che si fissano poi nel vuoto luminoso della sua gloria temporale, incarnata e calamitata in quel silenzioso pennello: ago di raggiante energia. Noi, che sappiamo e sentiamo che è pressoché impossibile varcare questa maestria intemporale e tellurica: eppure di lì a poco, ecco che prendono ad inseguirsi, per le sale, e a decantarsi, un numero sparato di capolavori, senza eguali, che è difficile persino elencare, nella loro dovizia, e stupido scegliere, come qui facciamo, quasi a caso. Dalla Madonna Magnani, ancora pregna di rugiadosi umori giorgioneschi, a quella in dialogo con san Biagio, e quell’assolo tenorile della foglia di fico, che si erge come un paraffo delirante, nel paonazzo albeggiare di laguna (ma dai colori danubiani all’Altdorfer, in attesa della reprimenda furente del Cristo maturo). All’altro angiolone nella Sacra Conversazione accanto, cerosamente sciolto nel suo santo grembiule liliale, infetto d’un bianco, che ha assaggiato tutti i possibili gusti del colore sfatto e già renoiriano. Per passare poi ai ritratti «laici» del secondo piano, dal ritratto di Ranuccio, adolescente ferito dall’infelicità più acerba e smarrita, al grigio umorale del bel galantuomo, dal guanto gaté, color di piccione, che congiunge Pontormo con Goya. Dalla Maddalena prorompente sensualità, all’intensissimo Giulio Romano che progetta: terribilità michelangiolesca e virtuosismo raffaellesco, stemperati nella naturalezza più divina, come sosteneva il Dolce. Schiocco e choc della sorpresa che dipinge. E poi il lottesco cantore, dalla giugulare fremente, che doppia con i suoi melismi il rimpallarsi Dies Irae delle tre crepuscolari Crocefissioni, a squassare cieli pochissimo frequentati: quelli chiusi alla devozione «verdiana» di Filippo II, negli avelli dell’Escurial; l’altro ancora sottoposto alle ubbie delle battaglie attributive; ed infine quello, irraggiungibile nella cattedrale di Ancona, divampante e scuro, ravvicinato qui e crollante, come per una zoomata miracolosa.
Certo, ci sarà chi discuterà acribicamente la data di nascita (qui assai avvicinata) chi troverà opere mancanti, la recente e discussa «ritrovata» Fuga in Egitto per esempio, o qualche «poesia» in più, da sottrarre al monarca di Spagna, o un baccanale post-belliniano. Ma (a parte problemi di prestiti ovvii e d’inevitabili indisponibilità) è chiaro che pensare di poter riassumere Tiziano in tutti i suoi variegati aspetti e render conto della sua ineguagliabile grandezza, è pretesa illusoria e sciocca. Diverso domandarsi se in un luogo così prestigioso ma difficile, questa sorta di «open space» processionale delle Scuderie, sia davvero poi possibile preservare e appoggiare la sua mutevole genialità proteiforme, quel suo nevrile nitrire di purosangue indomato delle cromie scosse, degno d’un Picasso rinascimentale. Che ogni volta reinventa i suoi cammini imprevedibili, come se tela dopo tela dovesse ri-materializzare, per scommessa, il fervente respiro della vita, che rilutta a lasciarsi imbalsamare. Arte stregonesca che incantava l’amico Aretino, e che innervosiva il fiorentino Vasari, che quando Tiziano giungerà, buon ultimo a Roma - il papa gli ha preferito Sebastiano del Piombo, come pittore ufficiale - lo tratterà con una certa sufficienza medicea, come un valligiano un po’ rozzo, che viene dal Cadore e dipinge «alla prima», perché non ha uso di disegno accademico. E se non ci fossero lui e un Michelangelo, paradossalmente più bonario, ma che mai capirebbe della Classicità?). Ed invece, come spiega il curatore Giovanni Villa, è proprio questo suo classicismo, naturale, spontaneo, innervato di carne e di sangue, rivitalizzato, che ci conquista e rapisce, sterzata dopo invenzione, reinvenzione dopo nuovi rapinosi scatti di reni. Useremo la formula di Longhi: «consonanza cromatica», per affidarci a questo flusso. E fermarci di fronte all’ultimo autoritratto, che è già Rembrandt ormai, che guarda a Manet, ed intanto getta i suoi strali al vorticante Apollo spella Marsia, col cagnino che lappa il sangue, come se fosse già la «firma» di Caravaggio nella pozza della Decollazione di Malta.

Le visioni di Tiziano

La pittura del grande artista intrisa di odori, sapori e colori

Renato Barilli

"L’Unità", 15 marzo 2013

LE ROMANE SCUDERIE DEL QUIRINALE CONTINUANO CON BELLA TENACIA A PROPORRE I NOSTRI MASSIMI ARTISTI, in mostre che certo non aggiungono nulla sul piano filologico ma hanno un sicuro impatto, diciamo così, nazional-popolare, consentendo ai molti visitatori di recuperare vecchie conoscenze scolastiche o di evitare viaggi sui luoghi di conservazione dei vari capolavori radunati. Che lo sono entro i limiti consentiti da questioni di budget e di possibile trasferimento. Questa volta si tocca un picco di audacia presentando addirittura Tiziano Vecellio, uno dei più grandi di tutti i tempi e con alle spalle una produzione smisurata, dovuta anche alla sua longevità (1490-1576).
Ancora una volta il giovane curatore Giovanni Villa se l’è cavata in misura abile e soddisfacente. Tuttavia, gli si può imputare forse un errore, nella disposizione del percorso delle opere. Infatti questo inizia con uno straordinario capolavoro quale il Martirio di S. Lorenzo (Venezia, Gesuati), che però appartiene all’ultima fase dell’artista, certo eroica e stupefacente, ma sarebbe come se un «giallista» aprisse il suo romanzo dichiarando subito chi è il colpevole. Meglio che il pubblico inizi la visita dalla seconda sala, dove, tra gli altri, si vede un’opera degli anni trenta dell’artista, la cosiddetta, dal nome del donatore, Pala Gozzi (Ancona). In alto, appare la Madonna con Bambino, ma è come se nel cielo spazioso, illuminato dai colori di una splendida alba, transitasse un aerostato, o un qualche altro corpo volante, tanto da spingere il Santo Vescovo in primo piano (S. Biagio) a protendere la mano con un gesto di pieno stupore, per additare a un San Francesco ugualmente stupefatto il transito di quell’oggetto aereo. C’è qui tutta la magnifica capacità tizianesca di aderire all’attimo fuggente, cogliendone la flagranza, cioè il darsi come evento in atto, e anche la fragranza, di colori, ma anche, se si può dire, di odori e sapori magicamente collegati per sinestesia.
Tante altre sono le opere della gioventù e prima maturità dell’artista che confermano queste sue doti, ma forse, data l’occasione che consiglierebbe di andare sul sicuro, non era il caso di sciogliere il dubbio e mettere in mostra opere come Il concerto interrotto di Pitti e il Cristo portacroce di Venezia. San Rocco, che una corrente critica insiste ancora ad assegnare a Giorgione; e proprio la grana sottile ed esangue con cui i due dipinti qui si presentano, tra tante feste cromatiche sicuramente tizianesche, invita a mantenere ancora sollevato il dubbio.
Passando al piano superiore, incontriamo, come già avveniva nel caso del Tintoretto, una fitta schiera di ritratti e autoritratti, che si giustifica per la facile possibilità di trasporto fornita dalla natura stessa di opere appartenenti a questo genere, date le loro ridotte dimensioni, e tuttavia l’arte tizianesca è pur sempre in grado di svilupparsi al meglio, cogliendo per esempio il volto volpino di Papa Paolo III, o il mento a punta del grande imperatore, e sponsor massimo del Nostro, Carlo V. Tiziano non si limita ad aderire ai tratti fisionomici dei protagonisti, ma il suo sguardo spazia tutto attorno, accendendo di fiammelle e di sfrigolii, di illuminazioni quasi elettriche, ogni altro dettaglio dello sfondo che si presti a questa sollecitazione ottica, e anche tattica, sempre in nome di una sinestesia che la sua arte è sempre in grado di suscitare a meraviglia.
Ci si prepara così ad affrontare l’ultima sua fase, estrema, eroica, in cui egli decide di lasciare lo spazio aperto, solare, ventilato in cui fin lì aveva immerso le sue visioni, andando a chiudersi in ambienti ristretti, esclusi alla luce naturale, illuminati solo da faci, fiaccole, tizzoni ardenti di falò. Qui doveva ergersi forse il frutto maggiore di questa fase notturna, appunto il Martirio di S. Lorenzo, in cui l’artista non solo accorcia il campo visivo, ma perfino lo strumento pittorico, sembra cioè abbandonare il pennello per procedere addirittura con le dita, a spalmare di colori fosforici i corpi e gli oggetti. E c’è perfino una fase ulteriore, e ancor più spinta, La punizione di Marsia, custodita in un museo ungherese, in cui il dipinto diviene come un’unica membrana, una epidermide diffusa, e il pennello si muta in uno stiletto che cerca invano di scuoiare, di incidere quella superficie continua, che però non sopporta smagliature.

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