venerdì 22 marzo 2013

Se i romanzi dimenticano di raccontare le emozioni


Test sui cinque milioni di libri di letteratura pubblicati dal 1900 al 2000.
Sempre più rare le parole come felicità, rabbia, disgusto. Resiste la paura.

Stefano Bartezzaghi

"La Repubblica", 21 MARZO 2013

«Scusa ma ti chiamo amore». È all’amore medesimo che lo scrittore Federico Moccia in persona dovrebbe rivolgere ora la sua famosa battuta di dialogo. Questo almeno a dar retta allo studio, appena apparso, che un pool guidato dall’antropologo Alberto Acerbi (Università di Bristol) ha condotto su romanzi inglesi e americani del Novecento, contenuti in un database di 5 milioni di volumi digitalizzati da Google.
La ricerca riguarda infatti la frequenza di parecchie centinaia di parole che si riferiscono a sei categorie di stati d’animo: rabbia, disgusto, paura, felicità, tristezza, sorpresa (colpisce l’assenza della noia). Nel corso del Novecento, contro quanto forse ci si poteva aspettare, le ricorrenze di tali parole diminuiscono sensibilmente. Eppure oggi tutto, e specialmente la letteratura, parla di emozioni, e di quel loro modo di propagarsi pressoché spontaneamente per il quale abbiamo adottato l’equivoca nozione di “empatia”. Possibile che Moccia sia in controtendenza?
Se escludiamo che nel decennio che ci separa dalla fine del Novecento la letteratura abbia radicalmente cambiato la sua rotta, si tratta di capire se siano sbagliate le nostre impressioni di lettori o se nei calcoli dello studio ci sia qualcosa che non va. Senza addentrarsi nella composizione del corpus dei romanzi e nella classificazione delle parole censite dalla ricerca, si può certo dire che tutti i tentativi di sottoporre il linguaggio e la letteratura a un approccio quantitativo un rischio di eccessiva riduzione lo fanno correre. Si può essere esatti solo su ciò che si può computare, e nel linguaggio computare tutto non si può. Le parole si possono conteggiare; almeno per ora le metafore e le metonimie vivono in nascondigli da cui l'algoritmo non riesce a stanarle. Dire d'amore, rabbia, sconcerto o schifo infatti non implica necessariamente dire “amore”, “rabbia”, “sconcerto”, “schifo”. In letteratura, men che meno.
L'ormai annoso precetto stilistico “show, don't tell” (invece che dire, mostra) basterebbe allora a spiegare il calo delle parole che si riferiscono direttamente ai sentimenti. «Vi mostrerò la paura in una manciata di terra», scriveva T.S. Eliot. E si sa che d'amore parlano specialmente i tùlipan.
Ma è anche vero che la curva delle frequenze conosce una piccola ripresa verso l'anno Duemila. In effetti tutte le attuali poetiche della sincerità, dell'esibizione di passioni e patemi, gioie e dolori non vanno tanto per il sottile e per il mass-marketing relativo i seguaci di Eliot costituiscono una nicchia poco interessante. Un'analoga ricerca sui nostri anni potrebbe magari convincerci che il precetto dell'epoca è: “Tell, don't show”. Ma continuerebbe a essere più utile per l'informatica che per la comprensione della letteratura. Le tendenze di quest'ultima sono spiegate meglio dalla lettura che dalla digitalizzazione, dalla comprensione che dall'aggregazione di dati. Anche perché quando si è detto che Achille era irato e Otello geloso non ci si è avvicinati neppure di un centimetro a quanto, di loro e di noi, hanno saputo dirci Omero e Shakespeare.

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