domenica 24 marzo 2013

La grande luce di Tiepolo


Nei suoi dipinti «in chiaro» anche un trionfo di atletismi

Renato Barilli

I colori della seduzione Tiepolo e Veronese a cura di L. Borean e W. Barcham
Udine, Castello, fino al 1° aprile. a cura di G. Bergamini, A. Craievich, F. Pedrocco, Passariano, Villa Manin, fino al 7 aprile

"L’Unità",  22 marzo 2013

LA GRANDE ARTE DI GIAMBATTISTA TIEPOLO (1696-1770) PROMANA SENZA DUBBIO DA VENEZIA, MA È COME UN INCENDIO APPICCATO POI IN TANTI ALTRI LUOGHI, chiese e palazzi di città italiane ed europee. Tra queste, un luogo di eccellenza spetta senza dubbio a Udine, dato che l’artista allora trentenne vi fu chiamato ad eseguire, nel Patriarcato, un ciclo di affreschi di tema biblico che furono la prima e piena manifestazione del suo talento, poi destinato ad espandersi in infinite repliche, Forte di questo suo buon diritto, il Comune udinese dedica all’artista appuntamenti annuali, l’ultimo della serie riguarda un altro capolavoro, il Mosé salvato dalle acque, finito ad Edimburgo, che dunque ritorna nei nostri lidi, completato da un riquadro che ne fu staccato da tempo, un «Alabardiere» ora conservato a Torino. A completare questa radiosa epifania del genio tiepolesco si aggiunge anche Villa Manin, nella non distante Passariano, che riesce a proporne un enorme numero di tele, bozzetti e disegni, una raccolta quasi perfetta, anche se mancante dei metri e metri quadrati di realizzazioni parietali, in cui peraltro risiede il meglio dell’artista.
Una produzione enorme, che si deve avvicinare con due avvertenze: si tratta di uno stile impiantato senza dubbio nel barocco, il movimento che in pieno Seicento assicurò l’identikit della migliore arte europea, partito dall’Italia dei Carracci, ma subito ripreso dall’italianizzante Rubens e da tante altre propaggini. Tuttavia questa «coiné», alla fine del secolo, era già alquanto boccheggiante, ci voleva una riforma interna per renderla ancora sostenibile, e anche per prepararla a reggere la temibile concorrenza dell’età dei Lumi.
A questa ridefinizione provvide il napoletano Luca Giordano, che comprese che da quel momento bisognava «andare in chiaro», riversare fiotti di luce su scene che inizialmente risentivano di un certo tenebrismo. Inoltre l’illuminazione doveva anche essere accompagnata da un alleggerimento, da una velocizzazione dei tratti, così bene espressi nel nomignolo rimasto appiccicato al Giordano, «Luca Fapresto». Ebbene, il Tiepolo fu il perfetto erede di questa svolta, inondando i suoi dipinti di un chiarismo straordinario, portando fuori i grovigli di eroi antichi o di santi dalle nicchie degli interni, per farne svolazzare i panni in un plein air quasi di gusto pre-impressionista, a sfida del tonalismo del cognato Francesco Guardi. Tutto alla luce del sole, ma anche in un trionfo barocco di atletismi, di impennate ginniche, di rovinose cadute di corpi, come se assistessimo a uno spettacolo di paracadutismo. Il tutto in una sfacciata sollecitazione dei nostri sensi, senza il timore di giungere a sfiorare il kitsch.
Per questa totale adesione tiepolesca alle coordinate del barocco non è del tutto valida l’accoppiata proposta dalla mostra di Udine che paragona la tela del Tiepolo ai dipinti del Veronese, dato che il grande maestro della classicità cinquecentesca manteneva le sue architetture e figure ben dritte, impalate, seppure trattandole con una tavolozza sensuale, con un colorismo senz’altro anticipatore del tardo seguace. Il quale invece da parte sua è come se avvertisse una scossa tellurica, non cercando per nulla di resistervi, ma anzi abbandonando con voluttà i corpi ad arrancare nel vuoto.
In tal modo egli fu il campione insuperabile di quello che si dice anche tardo-barocco o barocchetto o rococò, uno stile cui però si andavano chiudendo gli orizzonti, rimanendone confinata la pratica solo ai Paesi ultracattolici, come tutta l’Italia del Nord, e poi l’Austria di Wüzrburg, altra sede famosa dove il Tiepolo, nella Residenza del Vescovo, fece mirabilia, e poi nella Spagna dei Borboni, dove fu costretto a recarsi in tarda età, dal 1762 fino alla morte, mentre la Francia, l’Inghilterra, e ben inteso da sempre i Paesi che avevano aderito alla Riforma protestante rifiutavano quello stile considerato troppo ampolloso e magnanimo. Del resto, perfino a Madrid egli si sentì assediato dall’arrivo di oppositori, il Mengs, il Bayeu, cognato di Goya che già si stava scaldando i muscoli. I Lumi chiedevano un’arte più dimessa, un andare non solo in chiaro ma anche in piccolo. Giambattista si era portato dietro il figlio Giandomenico, e sarà lui a intendere la necessità di un cambiamento. Quei trapezisti spericolati ormai dovevano atterrare, comportarsi da «cittadini» della Rivoluzione francese in arrivo.

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