venerdì 15 marzo 2013

Il respiro lungo di D'Annunzio


Renato Barilli


"L'Unità", 12 marzo 2013

SIAMO A 150 ANNI ESATTI DALLA NASCITA DI GABRIELE D’ANNUNZIO (12 MARZO 1863), L’OCCASIONE È SENZA DUBBIO ALQUANTO INDIRETTA, ma speriamo che valga a riportare le luci sul Vate, meglio di quanto non sia avvenuto l’anno scorso per il centenario dalla morte del suo grande fratello, non si sas e maggiore o minore, Giovanni Pascoli. Per parte mia, ho ripubblicato un vecchio saggio, D’Annunzio in prosa (Mursia) che già nel titolo esponeva una rivendicazione, quella di considerare in lui l’autore di opere in prosa, romanzi, racconti, drammi teatrali, non inferiore al poeta lirico, che invece a lungo ci si è ostinati a preferire, attribuendo le sue incursioni in campo prosastico come dovute a intenti esteriori di successo commerciale e di fama. Già allora mi valevo di una intuizione decisiva di un convinto dannunziano quale Mario Marcazzan, che aveva dribblato la disputa sostenendo che nel Pescarese c’era prima di tutto una sorta di emissione originaria, potremmo dire un big bang, un flusso di energia non ancora distinto per un verso o per l’altro, allo stesso modo che il feto per parecchi mesi non sa bene se puntare sul maschile o sul femminile. 
Formula perfetta, che pone sullo stesso piano le decisioni successive.D’Annunzio è come un regista che, seduto al tavolo dei comandi, decide di volta in volta se quel suo flusso iniziale debba prendere le vie della poesia o della narrazione. Con una conseguenza immediata di ibridazione reciproca dei due generi, in lui la poesia è sempre prosastica e tende ad allungarsi nella misura del poemetto. Un valido studioso dei nostri giorni, Paolo Valesio, ha avuto il coraggio di dire che a questo modo D’Annunzio raggiunge il maggiore poeta anglosassone del Novecento, Ezra Pound, ovvero ci dà pure lui una serie inesausta di Cantos. Si noti che qualcosa del genere non si può ripetere per alcuno dei nostri maggiori poeti del Novecento, Montale, Ungaretti, Sanguineti non ce la fanno, a inseguire su questa strada il Vate, restano relegati in misure brevi e di corto respiro. Naturalmente, si dà pure il reciproco, ovvero le prose di romanzi e drammi a loro volta sono percorse da un acceso fervore lirico. 
Ma c’è di più, e già qui troviamo una ragione di attualità del nostro autore, gli resta sempre aperta la via del rientro in quella sua capacità primaria. D’Annunzio non ha bisogno della predicazione di Marinetti per convincersi, a un certo punto, che la fatica di costruire romanzi maestosi e ampollosi è vana, e quindi è pronto a rituffarsi in quella sua corrente di base. 
Questo avviene, come noto, quando, costretto alla cecità per un infortunio capitatogli in uno dei voli temerari con cui partecipa alla Grande Guerra, stende il Notturno in condizioni eccezionali, facendosi scorrere tra le dita delle strisce di carta ritagliate dalla figlia, e scrivendo quindi lunghe sfilze di parole su un’unica dimensione. Col che anticipa le attuali modalità della scrittura elettronica, dei messaggi che, dovendo varcare le forche caudine della rete, si devono fare brevi. L’avvento degli ebook condanna i mastodonti prosastici stesi da Proust e Pirandello. Ebbene, il Vate in qualche modo aveva presagito un tale passaggio stretto, e dunque le sue composizioni del secondo decennio forniscono un modello efficace pure ai nostri giorni. 
Ma c’è ben di più, a confermare una ritrovata attualità di D’Annunzio, egli ha introdotto nella letteratura italiana l’obbligo di affrontare l’eros, ovvero quello che Freud, più anziano di lui solo per pochi anni (1856), definiva pure con altri termini: libido, Inconscio, Es, e soprattutto principio del piacere, e proprio con quest’ultima parola si intitolava il primo romanzo di successo del Nostro, Il Piacere appunto, del 1889. Nei suoi confronti la critica ha compiuto il peggiore degli errori possibili, non di valutare i testi, ma di andare a vedere che cosa ci stava dietro, e inveendo così contro l’uomo rotto a tutte le avventure sessuali, pronto a mutare donne a ogni passo. Ma sulla pagina D’Annunzio ha testimoniato che l’eros è la fonte primaria di spirito innovativo, chi lo sacrifica cade nella nevrosi. 
A questo modo egli si è posto come il grande apostolo di una sessualità più libera ed aperta. Una società che a decenni di distanza, faticosamente, ha conquistato il diritto al divorzio, e consente oggi alle coppie, quale ne sia l’estrazione di classe, ad andare a convivere senza l’assillo di regolarizzare l’unione col matrimonio, dovrebbe essere grata, quasi erigere un monumento a questo campione intrepido, che certo esagerava, ma è diritto-dovere di ogni sperimentatore essere eccessivo, per convincere i refrattari a seguirlo, seppure da lontano. 
IL RUOLO DELLE DONNE 
D’altronde, non è neppure vero che in questa sua concessione alla libido, magari pronta a scadere in libidine, il Vate fosse cinico ed egoista, in fondo concedeva alle sue partner di comportarsi allo stesso modo, riconosceva un pari diritto a una sessualità aperta pure alle donne, contro il costume bigotto dei suoi tempi. Infine, c’è anche il capitolo del D’Annunzio uomo di guerra e di iniziative con valenza politica. 
Questo è senza dubbio un terreno scabroso, in cui l’opinione, particolarmente di sinistra, è stata pronta alla condanna, ma si dovrebbe riconoscere a lui, come del resto indistintamente a tutti i cultori delle avanguardie storiche, un sicuro impulso antiborghese, quello stesso che, nelle trincee della Grande Guerra, gli faceva scoprire l’umile realtà del fante, proveniente dal quarto stato, e riconoscere in lui il vero motore della storia, ponendosi al suo fianco come, nell’epopea giapponese, facevano i samurai a vantaggio dei contadini e contro la prepotenza dei feudatari. 
Si giunge così all’impresa fiumana, certo colma di ambiguità e di pericoli, ma sorretta da un indubbio spirito antiborghese, bisogna stare molto attenti a non giudicare quegli anni coi logori parametri di un liberalismo, magari indulgente proprio nei confronti degli enormi torti della classe borghese ormai avviata al crollo del 1929, e del tutto incapace di dare pane e sopportabili condizioni di vita alla classe proletaria. In fondo, lo stesso Lenin fu attratto da quanto succedeva a Fiume e vi mandò un suo osservatore. Due giovani intellettuali inglesi, i fratelli Sacheverell, lasciarono nei loro diari una frase significativa: visto che abbiamo perso la Rivoluzione di ottobre, non lasciamoci scappare quella di Fiume. Una eccellente studiosa di queste cose come Claudia Salaris ha steso di recente un saggio illuminante intitolando appunto i giorni di Fiume Alla festa della rivoluzione, visto che tutti coloro che allora aspiravano a un deciso mutamento di strutture e costumi si sentirono attratti a quel fuoco, in cui, osserva sempre la Salaris, si può scorgere un deciso anticipo dello stato animo emerso nel magico ’68. Insomma, avviso ai naviganti, ci vuole molto discernimento, per distinguere nell’opera dannunziana il bene dal male, ciò che è morto e ciò che invece potrebbe ancora essere con noi.

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Quel Vate per tutti e per nessuno

Creò la liturgia fascista senza essere fascista e disegnò una nuova estetica politica. Ma in fondo fu fedele solo a se stesso

M. Veneziani

"Il Giornale", 11 marzo 2013

Gabriele D'Annunzio fu il più grandioso nocchiero che traghettò l'Italia dall'Ottocento al Novecento, dalla piccola borghesia di provincia alla nazionalizzazione delle masse, dalla Belle Époque alla guerra, dalla galanteria all'eros, dalla morale all'estetica, dal cavallo al velivolo e al sommergibile, dal culto romantico del genio e dell'eroe al culto moderno del superuomo, ardito trascinatore delle folle.

Restano in lui vivi i tratti del secolo in cui nacque, quel 12 marzo di 150 anni fa, e restano le tracce di quell'Italia provinciale che sognava il passaggio dalla piccola borghesia alla nobiltà imperiale di Roma o di Parigi, dal decoro alla gloria. D'Annunzio trasfigura quelle origini borghesi e ottocentesche nella modernità impetuosa e guerriera.
«In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio e Marinetti», disse il massimo intenditore di rivoluzioni, Vladimir Illich Ulianov, detto Lenin. Era finita da poco la prima guerra mondiale e il leader del comunismo mondiale aveva ricevuto a Mosca una delegazione socialista italiana. Ma nessuno dei tre indicati da Lenin era socialista e tutti e tre potevano definirsi, in varia misura, figli di Nietzsche più che di Marx. Ma gli altri due erano poeti e artisti... Questo spiega perché fu Mussolini a fare quella (mezza) rivoluzione. D'Annunzio fu il più famoso anticipatore del fascismo, il suo «san Giovanni Battista». Ma ne fu anche il più grande dissidente. Non si comprende il fascismo, l'estetizzazione della politica, il rituale fascista, il saluto romano, il culto della bella morte e la retorica militare e cameratesca, senza D'Annunzio. Non si può capire la sintesi tra radicalismo di destra e radicalismo di sinistra, tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo eroico, senza passare per l'opera, i discorsi e la vita di D'Annunzio (che fu parlamentare di destra, poi passò a sinistra - vado verso la vita - e non fu rieletto).
La fusione tra paganesimo e cristianesimo della liturgia fascista è di stampo dannunziano; l'eja eja alalà, il discorso dal balcone, il superuomo affacciato sulle folle, gli arditi, il mito del duce (che D'Annunzio rilanciò nel 1912 in un saggio su Cola di Rienzo). D'Annunzio crea l'habitat in cui prende corpo la mitologia fascista e da cui attinge la sua maggiore fascinazione rispetto alla rivoluzione socialista. Il mito della guerra attraversa tutta l'epoca e permea le intelligenze più vive del tempo; ma D'Annunzio, tra le varie anime letterarie e militari che alimentano il fascismo, è quello che le incarna di più. Stretto è pure il nesso tra fiumanesimo dannunziano e sansepolcrismo fascista; e tracce di D'Annunzio si ritrovano nell'estremo fascismo di Salò, che risente non solo geograficamente della suggestione estetico-eroico-mortuaria del Vittoriale, ormai disabitato del suo capriccioso signore, morto nel '38. Certo, il fascismo fu anche molto altro, e D'Annunzio fu sicuramente molte altre cose, oltre che precursore del fascismo. Di estetica politica in D'Annunzio parlò Thomas Mann, poi Hofmannsthal che ne rimase incantato; ma sarà Walter Benjamin a cogliere l'estetizzazione della politica poi ereditata dal fascismo. Il suo conterraneo abruzzese Gioacchino Volpe, in un saggio sul D'Annunzio politico e combattente, lo considerò creatore di poesia totale, intesa come «arte eroica al servizio della nazione».
Il rapporto fra D'Annunzio e il fascismo-regime fu controverso, fatto di slanci e prove di amicizia ma anche di netto dissenso, a volte taciuto, a volte filtrato, fino alla tentazione antifascista. Che in alcuni dannunziani prese corpo con l'esperienza breve di Alleanza Nazionale (corsi e ricorsi onomastici). Il rapporto fra D'Annunzio e il regime non fu diverso da quello di un altro esteta e combattente famoso, Ernst Jünger, rispetto al nazismo. Jünger, più di D'Annunzio, non amò gli aspetti volgari e torbidi del nazismo, detestò Hitler e partecipò perfino alla congiura anti-hitleriana; ma la sua fama di precursore e scrittore di guerra, il suo prestigio come eroe di guerra (aveva avuto l'onorificenza militare massima) fermarono Hitler dal proposito di punirlo. O, se vogliamo cambiar tempo, luogo e versante ideologico, lo stesso rapporto di amore e timore tra il Vate e il Duce ci fu tra Castro e Che Guevara, anch'egli come D'Annunzio appellato «il Comandante»: la sua morte prematura fu una salvezza per Castro che diventò amministratore delegato del Mito e si liberò di un ingombrante Compagno scontento. Così accadde con D'Annunzio.
Ma l'ultimo D'Annunzio sostenne il fascismo dopo l'impresa africana e le sanzioni: i copiosi doni alla patria, la retorica della guerra che riaffiorava sulle sue labbra, la missione civilizzatrice italiana in Africa, la polemica con la «perfida Albione», il dono alla Patria della croce militare avuta dalla corona britannica. Nel '37 accettò di presiedere l'Accademia d'Italia. Non fu solo ipocrita il carteggio cameratesco e a tratti pomposamente cordiale con Mussolini. L'ultimo D'Annunzio non condivise l'alleanza con la Germania, non solo perché estraneo al razzismo e al fanatismo hitleriano, ma anche perché vedeva in Parigi la grande sorella latina e nei teutonici i grandi nemici dell'Italia irredenta. E in questo era perfettamente in sintonia con Mussolini, anch'egli di formazione filofrancese e antitedesco fino alle Sanzioni.
D'Annunzio non fu mai fascista e tantomeno antifascista, ma restò sempre dannunziano, egli amava se stesso e la propria opera sopra ogni cosa, non si può irregimentare in nessun regime ma solo farsi adorare, e non si sente intellettuale organico a nessun partito. La sua vera aspirazione fu elevare la vita al rango di opera d'arte. Il suo dissenso dal regime, notò Volpe, nasceva dalla sua riduzione da protagonista a testimone della Nuova Italia. Nutriva il polemico rimpianto che la rivoluzione italiana avrebbe dovuto farla lui. La sua impresa fiumana fu l'antefatto del Sessantotto: vitalismo, trasgressione e immaginazione al potere furono celebrati là, nella prima rivoluzione estetica. Quei ragazzi dai capelli lunghi di mezzo secolo dopo erano gli inconsapevoli nipoti di quelle teste pelate: D'Annunzio, Marinetti, Mussolini (e Lenin). D'Annunzio visse più vite in una sola e più epoche in una vita. Servì nella religione della parola e della vita, della patria e della bellezza, un solo dio: Imago sui, l'immagine di sé.

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