sabato 16 febbraio 2013

Toghe in punta di penna


FABRIZIO SCRIVANO

"Il Manifesto",  16 febbraio 2013 

Una tendenza editoriale di successo quello dei romanzi scritti da magistrati. 
Un percorso di lettura a partire della ristampa del «Diario di un giudice» 
a firma dell'irpino Dante Troisi 

Il contributo che i magistrati hanno dato e continuano a dare alla letteratura è in Italia, come forse altrove, di importanza certa. Tanto che non si è mai sorpresi di trovare le loro opere in libreria e anzi se può gioire. Una misurazione precisa della percentuale dei magistrati che scendono o salgono in letteratura forse non è stata mai fatta: sarebbe inutile per misurare la loro capacità di incidere sulla lingua e sull'immaginazione, che dipende da fattori non solo quantitativi, ma utile per avere un'idea sulla presenza in quegli ambienti della propensione a scrivere . 
Sebbene possa inquietare, è ragionevole il sospetto che l'enorme mole dei fascicoli che i magistrati devono contribuire a scrivere, e la specificità stringente di certo linguaggio tecnico, li aiuti in una straordinaria facilità e fluidità di scrittura, lì dove lo scrittore è esposto, salvo rare eccezioni, a tremenda fatica (di scrivere e riscrivere). Non solo questioni legali Oggi, la scrittura del magistrato sembra intrigare per la sua capacità di elaborare il fatto criminale o la questione legale, di sapere fornire di esso una narrazione aderente, informata e tuttavia romanzata; il ruolo professionale da cui proviene - il soggetto è sempre la scrittura - è anche una giusta garanzia. 
I libri di Gianrico Carofiglio, Giancarlo de Cataldo e Gianni Simoni, per esempio, rispondono da ultimo, in modo originale e convincente, a questo scenario «poliziesco», che indubbiamente gode anche di grandi attese di pubblico. Ma non è stato sempre così, e non è solo così, neppure per gli autori appena citati. Anzi, l'impegno letterario dei magistrati riguarda modi letterari e generi assai più vasti e indistinti rispetto agli ambiti tematici di quella professione. In campo teatrale si potrebbe pensare alle opere di Ugo Betti, da Frana allo scalo Nord, 1936, a Corruzione al Palazzo di Giustizia, 1949, o a quelle di Vico Faggi, da Ifigenia non deve morire, 1962, a Cinque giorni al Porto, 1969, che misero in scena il dramma della giustizia e delle sue implicazioni sociali, ora ricorrendo alla cronaca ora al mito. E per il racconto potremmo pensare a Salvatore Satta, benché fosse giurista e non magistrato, e al suo splendido, postumo Il giorno del giudizio, 1977. Un libro-documento sul continente sardo ma insieme saggio generale sul tema della testimonianza: «Ho riletto dopo qualche giorno (scrivere non è il mio mestiere...) le cose che ho buttato giù senza troppo pensarci, e mi sono reso conto di quanto sia difficile fare la storia, se non addirittura impossibile». Tra questi nomi va di certo inserito anche quello di Dante Troisi, che tra il 1951 e il 1989 scrisse una dozzina di romanzi.
La recente ristampa del suo titolo più famoso, Diario di un giudice (Palermo, Sellerio, 2012) favorisce un riesame del caso. Il Diario è percorso da una forza narrativa straordinaria, pieno com'è di casi e di situazioni che si muovono su registri ora comici ora tragici. Sembrano istantanee sulle scene del foro, scattate senza indossare la toga bensì usando un terzo occhio, non sempre compatibile con quello del giudice. Tanto che, lo ricorda Andrea Camilleri nella nota che accompagna il testo, l'apparente e temporanea dismissione pubblica del suo ruolo, procurò all'autore qualche guaio serio e compromettente per la carriera di giudice (funzione che esercitò con grande passione critica e mentalità innovativa), poiché vi fu vista un'occasione di discredito della magistratura. Troisi di sé disse: «Scrittore? Magistrato? Non so; mi dibatto, mi assillo e non sono completamente né l'uno né l'altro». 
Anche il Diario oscilla tra queste due nature. Un magistrato che non nasconde la propria fragilità umana, anzi indaga su passioni, umori e dubbi che gli appartengono e che deve avere il coraggio di affrontare. Che la mitezza di una condanna possa dipendere dal buon funzionamento gastrico; o che la pietà influenzi l'interpretazione del codice; o che l'esame dei testimoni sia tanto accurato quanto più lontana è l'ora di chiusura del tribunale; o che al collega del grado di giudizio successivo si affidi l'onere di sbrogliare una situazione controversa, son tutte cose ad alto potenziale ironico, e non vanno sempre presa alla lettera. L'umanesimo del giudizio va ben oltre l'applicazione del codice, media l'astrazione della legge con i casi che la realtà offre concretamente e costringe il giudice a non escludersi ex cathedra dal brulichio dell'umanità, nel quale va trovata e fatta giustizia. Certo questa tempra etica, del giudice che si espone al giudizio, non dovrebbe essere ritenuta di alcun discredito per la magistratura. Il tema è tanto letterariamente importante, che in Giudici (Einaudi, 2011) Camilleri, De Cataldo e Lucarelli l'hanno orchestrato come soggetto. A questo côté etico, in Troisi è saldamente legata l'azione narrativa, che trova la sua forza e anche la sua peculiarità nel restituire l'osservazione. 
Lo sguardo del giudice è acuto, capace com'è di spingersi nel dettaglio delle varie figure che incontra, e aperto su una varietà incredibile di situazioni e soggetti. Davanti a lui non ci sono solo gli imputati; ci sono anche colleghi, poliziotti e carabinieri, parenti delle vittime o degli accusati; ci sono ancora gli avvocati, i cancellieri del tribunale e anche i semplici curiosi. Troisi ne osserva movenze, gesti, voce, scrittura, con grande puntualità descrittiva, e ciascuna di queste apparizioni, che sfavillano fugaci sulla pagina, diventa occasione di introspezione e qualche volta di intimità. Ma l'originalità di questo diario sta nell'essere più uno strumento di ascolto, di accesso al mondo che non un atto di isolamento, di rifugio. Compie lo sforzo di dialogare con le cose e non si trasforma mai in soliloquio. Anche nelle sue note più intime, sembra funzionare come officina di collaudo dei propri limiti di giudice e di uomo. 
Per questo si avverte la restituzione di un'intimità contaminata e di un'identità sfumata. Qualcuno lo chiamerebbe «umanesimo scientifico» e qui è la su a potenza. Il Diario di Troisi uscì in parte sul Mondo, prima di diventare una delle artigliate letterarie di Elio Vittorini, che lo volle nei Gettoni nel 1955, numero 40 della serie; e come si diceva, ebbe i suoi strascichi fuori dalla comunità letteraria, contribuendo a forgiare la discussione sul ruolo del magistrato, sull'esercizio e sull'immagine del suo potere e della sua autorità e della sua autonomia, nella società intera. 
Fuori dalle sentenze 
La via scelta dal giudice Troisi, che forse rinnovava quella intrapresa all'inizio del '900 da Gemme Di Va con Memorie del procuratore del Re, certamente non è isolata e da allora in qua ci sarebbero stati altri validi esempi. Gennaro Francione, ex magistrato che si occupa di coordinare l'attività degli scrittori-magistrati, a proposito di numeri, ne ha contati almeno centocinquanta di colleghi, e così dà ragione di questo secondo mestiere: «Spesso i giudici letterati attraverso la scrittura di un'opera raccontano cose che giammai potrebbero dire in una sentenza.
Lo scrittore, infatti, è il giudice di ultimissima istanza. Questo vuol dire che il magistrato molto spesso nella sua quotidianità non riesce a fare giustizia e quindi la può fare attraverso la scrittura». Si può credere poco nel prolungamento dell'istanza giudiziaria in uno strumento quanto mai improprio ad ogni giustizia quale è la letteratura. Dove a volte ci si impegna a far passare il male per il bene, come sostiene Abraham Yehoshua in Il potere terribile di una piccola colpa, Einaudi, 2000; mentre altre volte si dà forma ai paradossi della giustizia, come in tante opere di Friedrich Dürrenmatt (Giustizia, La panne, La morte della Pizia, per dire). E non si vorrebbe leggere in quella motivazione quasi l'ammissione di un senso di impotenza nei confronti dell'amministrazione della giustizia, uno sfogo alle cose non fatte, un rifugio ai tempi ingrati. 
Meglio pensare, invece, a un prolungamento delle proprie qualità e caratteristiche professionali fuori dal compito del fare giustizia. Non era Carlo Emilio Gadda, ormai un'ottantina d'anni fa, da ingegnere qual era, a suggerire che la ricchezza della letteratura italiana dipendesse in larga parte dalla possibilità che il suo lessico fosse costantemente rinforzato e rinnovato dai linguaggi specialistici e settoriali? Con ciò che essi comportano in luogo di forma mentis e attenzioni culturali. L'Italia dei mestieri e delle professioni che si prende una responsabilità culturale, anzi letteraria: ecco un sogno in cui vale la pena credere...

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