sabato 9 febbraio 2013

Scrittori & Scrivani

Dai travet ai precari, gli impiegati della letteratura


Kafka, Svevo, Gogol’:

 autori celebri che di giorno mettevano ordine alle pratiche e di notte al caos.

Andrea Bajani 


"La Repubblica", 8 febbraio 2013



Franz Kafka fece una sorta di stage — si trattava di un apprendistato, in realtà — nella filiale praghese Assicurazioni Generali triestine prima di essere assunto all’Istituto contro gli infortuni sul lavoro del Regno di Boemia. Lì lavorò come impiegato dal 1908 fino al 1922, e due anni dopo, nel 1924, morì. Pare fosse un impiegato modello. Il suo superiore diretto così relazionava: «Instancabile, assiduo, ambizioso, egregiamente utilizzabile, il dottor Kafka è di straordinaria operosità, di spiccata intelligenza e di grande zelo nell’adempimento del suo lavoro». Ciò nondimeno Kafka mal tollerava la vita d’ufficio, che rappresentava l’altra metà della sua vita anfibia, spesa tra lecarte della scrittura notturna e le scartoffie dell’ufficio. «Queste due professioni — scriveva — non si possono mai conciliare, né ammettono una felicità comune. La più piccola felicità nell’una diventa una grande infelicità nell’altra». Nell’autunno del 1914 si prese due settimane di congedo dalle scartoffie per tentare di portare a termine Il processo, ma alla fine si accorse di aver scritto «poco e fiacco », e gli venne il più lancinante dei dubbi: di «non essere degno di vivere senza l’ufficio».
Tra carte e scartoffie (il Mulino) è il titolo del curioso libro del giurista — e appassionato di letteratura — Luciano Vandelli. Si tratta di una carrellata sugli scrittori impiegati o personaggi-impiegati. Kafka alle assicurazioni, Goncarov al ministero delle Finanze, Hawthorne e Melville all’Ispettorato delle dogane, Maupassant alla Marina, Stendhal console assenteista, e così via passando per Bukowski, Zola, Dostoevskij. Il sottotitolo è Apologia letteraria del pubblico impiego, che è in qualche modo un sintomo: perché ci si sente in dovere — mi chiedevo — di difendere oggi l’impiegato e in particolare l’impiegato pubblico? Perché oggi il discredito che ha travolto il pubblico impiego — la demagogica caccia al “fannullone” — è vergognoso. Vero. E però non basta, perché qui c’è di mezzo la letteratura. «La letteratura deve molto al pubblico impiego», scrive Vandelli in apertura.

Mentre leggevo le pagine in cui Vandelli descrive il romanzo come una forma in qualche modo figlia della nascita dell’amministrazione francese («l’8 piovoso dell’anno VIII — 1800 — quando Bonaparte firma la legge che istituisce i prefetti e le prefetture»), mi è venuto in mente il grande scrittore svizzero Max Frisch che in visita nel 1946 alle città europee distrutte dalla guerra, annota nel suo diario che la scrittura è una legittima difesa disperata contro il caos. Scrive: «Se ci riesce anche solo la forma di un’unica frase [...] quanto poco ci tocca ciò che di enorme ed informe ci cova nell’anima e ci minaccia all’intorno! [...] Riusciamo a sopportare il mondo, perfino quello reale, a gettare uno sguardo nella sua follia; vi riusciamo nella folle speranza che il caos si lasci ordinare, si lasci comporre come una frase, e la forma, ovunque la si realizzi, ha una virtù di consolarci che non ha eguali».

Mi sono venute in mente queste pagine di Max Frisch perché alle loro origini la burocrazia e l’amministrazione altro non erano che degli strumenti di arginamento del caos (oltre che degli straordinari esercizi di controllo da parte del potere), la creazione di una forma, funzionale e arbitraria quanto si voglia, per contenerlo, il caos, per conferire e imporre insieme un senso ai cittadini. Il lavoro, l’impiego, si inseriscono in questo quadro: è il singolo collocato dentro quella forma, che manda avanti con la propria giornata un meccanismo. Le scartoffie che produce sono la certificazione della sua sottomissione a quell’ordinamento, e al tempo stesso l’evidenza del suo diritto a farne parte. La letteratura combatte dall’interno la violenza di quell’imposizione, combatte con le carte le scartoffie. Oppone un altro universo di senso, che è per propria natura anarchico, contrario a quello dato dal potere. Di qui gli impiegati raccontati da Luciano Vandelli: Kafka, Melville, Gogol’, Stendhal, e gli altri loro colleghi, stanno dentro quella macchina, rispondono alla sua chiamata, obbediscono, e poi però al tempo stesso tentano di sabotarla. Kafka scrive di notte, Stendhal cambia il proprio nome (all’anagrafe, e dunque come impiegato, è Henri Beyle), Maupassant latita, Gogol’ finisce per andare in ufficio solo il giorno dello stipendio, e poi si dimette.
La storia della letteratura, riletta in questa chiave, diventa la dialettica feroce tra due modi di arginare l’inarginabile caos: la lotta tra un universo creato e imposto al cittadino da parte del potere attraverso l’amministrazione, e quello che la disperazione delle carte fa nascere nella solitudine dell’artista. Eccoci ritornati alla domanda: perché dunque il libro di Luciano Vandelli, la sua apologia letteraria dell’impiegato, ha un valore di sintomo, e dunque di allarme? Solo in parte per la gogna a cui è sottoposto ogni giorno l’impiegato pubblico. È piuttosto, mi viene da pensare, l’allarme di qualcosa di molto più profondo, e che si configura come un abisso di senso più drammatico. Arriva in un momento come questo in cui il lavoro non è più un diritto/dovere dei cittadini, non è più la richiesta o l’imposizione da parte di un potere di contribuire a portare avanti la macchina arginacaos, ma piuttosto una concessione elargita con sufficienza, e sempre revocabile.
Ecco, in questo momento, con la disoccupazione alle stelle, con milioni di persone che ogni giorno pietiscono un impiego (o che, peggio, hanno smesso anche di cercarlo) compilare l’apologia dell’impiegato significa qualcosa si più: significa difendere un qualsiasi straccio di senso, per i cittadini, la loro esigenza di essere collocati in qualche luogo, dentro qualcosa, anche se per detestarla o persino tentare di sabotarla. Ma di essere comunque da qualche parte, e non di camminare in mezzo alle macerie, come Frisch, «nella folle speranza che il caos si lasci ordinare, si lasci comporre come una frase».


Vedi anche P. Battista, Fine dell'epopea del travet, "Corriere della Sera", 8 luglio 2012. CLICCA QUI
Massimiliano Panarari, La rivincita (letteraria) del signor Travet, "La Stampa", 27 febbraio 2013. CLICCA QUI.

SCRITTORI e SCARTOFFIE
Mann e altri impiegati modello

 Giuseppe Scaraffia, 

"Domenica - Sole 24 ore",  10 marzo 2013

"La poesia non mi è stata molto utile nella carriera bancaria, tuttavia il mio impiego mi ha permesso di scrivere poesie", ammetteva T.S.Eliot. Inappuntabile, «riservato, con le spalle un po' curve», sembrava vivere in un altro mondo e poteva interrompersi a un tratto per precipitarsi a notare un'idea. Eppure non era insensibile alla «scienza del denaro», e in fondo la routine lo aiutava a regolare la sua esistenza. «Letteratura e burocrazia: il diavolo e l'acqua santa... eppure i due mondi sono più vicini di quanto si potrebbe pensare», asserisce Vandelli in questo vasto e gradevole saggio. Scrittura e burocrazia hanno in comune la capacità di passare ore seduti a una scrivania, concentrandosi sui propri compiti. Certo valeva non per lo spedizioniere municipale Paul Verlaine, che, arrivava tardi, guardava perplesso le carte inevase e si metteva a leggere il giornale, limava un sonetto o usciva di soppiatto lasciando il cappello in bella vista. 
Al caffè lo aspettavano gli amici e il verde invitante dell'assenzio. Per diventare un impiegato modello, Leon Bloy aveva scelto un alberghetto vicino al luogo di lavoro. Però già dopo una settimana il clima pigro dell'ufficio aveva attenuato il suo attivismo. Nelle lunghe ore d'ozio, si discuteva dì politica e d'arte e Bloy si era fatto notare recitando con foga le poesie di Victor Hugo. Ma la vera vita, le amicizie, gli incontri con le passeggiatrici, restava fuori da quelle mura. «Ero costretto in certi momenti a distrarmi, perché in un paesino come Manosque, la banca non è sempre piena di clienti. Ci sono dei lunghi momenti in cui non c'è niente da fare. E così che ho cominciato a scrivere.», ricordava Jean Giono, entrato in banca come fattorino a sedici anni, dopo la morte del padre. Passato alla contabilità in un ufficio sotterraneo - «Ha una buona disposizione, sa­rà un bravo impiegatuccio» - fantasticava sui nomi dei luoghi delle pratiche. Ma si lamentava: «Ho sedici anni e sono già rinchiuso tra due lastre di scisto dove poco a poco diventerò un fossile». Thomas Mann entrò a diciottanni come apprendista nella ditta di assicurazioni di un amico di famiglia. Mentre i colleghi stavano chini sui fogli, lui aveva scritto il suo primo racconto, giocando con la sedia girevole. Meno di un anno dopo se ne era andato. Italo Svevo doveva restare diciannove anni in banca senza riuscire ad abituarsi alle rigidezze dell'orario e alle sorde lotte interne. Tuttavia era riuscito a diventare un impiegato «preciso e coscienzioso», lontano dalle intemperanze descritte in «Una vita». Modesto funzionario al ministero della Marina, Raymond Chandler registrava con cura gli spostamenti di materiale bellico. «Mi dicevo che forse gli orari accomodanti dell'aniministrazione mi avrebbero permesso di scrivere di nascosto». Ma l'impegno era pesante e «l'idea di alzare il cappello al passaggio del capoufficio mi dava la nausea». Guy de Maupassant, non volendo fare carriera, preferiva restare nell'ombra. Passare dal ministero della Marina a quello della Pubblica istruzione non aveva risolto i problemi di Guy di «salute delicata malgrado l'aria robusta». Un congedo trimestrale per nevrastenia, disturbi di cuore e di stomaco preparò la sua uscita di scena. Disperato del suo impiego noioso e malpagato ai Docks della dogana, Zola aveva degli attacchi di panico. Sembrava non sentire le spiritosaggini dei colleghi. Compilava i rapporti senza riuscire a concentrarsi sul lavoro, pensando solo al momento in cui sarebbe uscito da quelle stanze sporche. La madre di Paul Valéry era entusiasta di quell'impiego al ministero della guerra. Per Paul era diverso. «Ormai ogni mia idea sarà dominata da questa: uscire di qui». Infatti il lavoro era faticoso e si chiedeva angosciosamente: «Dovrò morire da impiegatuccio?». Franz Kafka, alle Assicurazioni Generali, si sentiva a disagio con i rozzi colleghi «C'era un punto in un breve corridoio davanti all'ufficio, in cui ogni mattina ero assalito dauna disperazione che per un carattere più forte e più coe­rente sarebbe stata più che sufficiente a indurre a un suicidio». Come trovare spazio per la scrittura? O il lavoro era soltanto un alibi per rinviare? Mail superiore non aveva dubbi: «Instancabile, assiduo, ambizioso, egregiamente utilizzabile, il dottor Kafka è di straordinaria operosità e di grande zelo nell'adempimento del lavoro».

Luciano Vandelli, Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato,Il Mulino, Bologna, pagg. 304, € 22,00

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