lunedì 18 febbraio 2013

L’ipnotica “Isola dei morti” di Böcklin che Hitler volle comprare a tutti i costi

L’isola dei morti (1880) olio su tela, Basilea, Kunstmuseum
Melania Mazzucco

"La Repubblica",  17 febbraio 2013

Dove vanno i morti? In Paradiso? In cielo, tra le stelle? Sottoterra? Scendono nel triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il traghetto di Caronte? Li aspetta la prateria degli asfodeli, oppure, come malvagi, il Tartaro – dove, come scriveva Omero, stridono di terrore come uccelli fuggenti? O, come giusti, i campi elisi? O ancora, l’isola boscosa dei beati – riservata a coloro che vissero virtuosamente? Oppure il grande nulla, dove alla fine di ogni dolore l’individuo si dissolve nel tutto? Qualunque cosa crediate, questo quadro offre una risposta seducente – e chiunque lo abbia guardato ha pensato che non sarebbe male se andasse a finire così.
È uno di quei rari quadri che mettono tutti d’accordo – forse perché tutti temiamo la fine. È dunque consolante, cosa che in genere nuoce all’arte, e spesso la abolisce. Non è questo il caso. Fin dalla primavera del 1880, quando Böcklin lo realizzò, in un mese – per una donna che aveva appena perso il marito e che gli aveva richiesto un quadro “per sognare” – L’isola dei morti esercitò una fascinazione ipnotica. Non era nemmeno finito e già gliene avevano chiesta una replica, e poi un’altra, e un’altra ancora – al punto che oggi se ne contano quattro varianti (una quinta è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale). Tutte apprezzabili, ma la prima di una suggestione inimitabile.
L’ammirazione divenne unanime, quasi assordante. Böcklin, che dipingeva da più di trent’anni, con alterna fortuna, misteriosi paesaggi popolati da draghi, tritoni e ninfe, dovette restarne sorpreso. Come sempre accade, le ragioni del successo non avevano nulla a che vedere con l’opera. I nazionalisti tedeschi vi videro il simbolo dell’arte germanica. Ciò generò un fanatismo isterico, e procurò al pittore estimatori imbarazzanti, fra cui Adolf Hitler (ma Böcklin non lo seppe mai, perché dal 1901 riposava nel cimitero protestante di Fiesole dove, dopo una vita nomade fra la Svizzera, l’Italia e la Germania, aveva scelto di fermarsi per sempre). Il quadro al Führer piaceva talmente tanto che era riuscito ad acquistarlo. C’è una celebre foto scattata nella Cancelleria del Reich il 12 novembre del 1940. Si vedono Hitler e Molotov. La guerra già devasta, milioni di europei sono morti o stanno per morire. E cosa si vede, alle loro spalle? L’isola dei morti.
Ma un quadro non può scegliere i suoi amici.
È il crepuscolo: la notte cede al giorno o il giorno alla notte, perché nell’oscurità già si distingue la linea dell’orizzonte. Una barca a remi scivola sull’acqua nera, calma, immobile. Il remo è immerso, ma non solleva onde né spruzzi – al punto da rendere visibile il silenzio. La barca trasporta una bara, coperta da un drappo bianco. Ritta a prua c’è una figura inquietante, fasciata di veli bianchi, come una statua, o una mummia. Ma potrebbe anche essere l’anima del morto. La barca sta per approdare a un’isola: piccola, domina però il quadro. Falesie scoscese si ergono sul mare come montagne. In mezzo, cresce un bosco di cipressi. Un cimitero è infatti l’isola: nelle rocce, sono state scavate delle tombe – ora vuote. Un muro riverbera una luce chiara. Il buio sta per inghiottire il fantasma in bianco, richiudendosi su di lui. Tutto accade fuori dal tempo, in nessuna epoca, e dunque sempre.
L’isola, le figure minuscole, l’oscurità, il mare fermo, la quiete impenetrabile: tutto comunica il senso della solitudine. La pittura di Böcklin non ha sorelle. Non somiglia a quanto vanno sperimentando i suoi contemporanei, pur essendo L’isola dei morti dipinta negli stessi anni in cui Monet disfa il colore in materia, Degas scopre le ballerine, van Gogh percorre il Borinage per stare vicino ai minatori e Moreau spinge il simbolismo oltre il delirio. È un quadro fantastico dipinto con precisione accademica, una visione costruita con forme naturalistiche. L’atmosfera misteriosa piacque a De Chirico, Ernst e Dalí. È dunque un quadro che condensa – e non separa: sogno, realtà, ricordo, nostalgia.
L’immagine, apparentemente tradizionale, combina in modo nuovo paesaggi, stili e culture diverse. Il mito classico, il romanticismo nordico e la natura mediterranea. La barca di Caronte e le tombe etrusche, i cipressi di Fiesole e le rupi svizzere. È insomma la sintesi perfetta della ricerca di Böcklin, svizzero di nascita, tedesco di cultura, italiano per amore, che scese a Roma per il Grand Tour nel 1850 e da allora non poté più rinunciare alla libertà e alla luce delle contrade selvagge «del mondo non civilizzato del sud».
Infine, è anche un funerale. Quello, solenne e austero, che Böcklin sognava per sé. Non stava affatto morendo, anzi: nel 1880 sapeva fronteggiare dolori e malinconia, era un bellissimo uomo dagli occhi blu, traboccante di idee e di amore per la sua giovane moglie romana e i suoi figli (ne aveva messi al mondo 14, molti però morti bambini). Come tutti i pittori del XIX secolo, aveva vissuto fra l’emarginazione della miseria e la coscienza orgogliosa della propria diversità d’artista. Trovato un pubblico, il benessere, la fama, ormai sapeva di essere anche lui un eletto – uno dei favoriti degli dèi che i greci destinavano all’isola dei beati. Però sapeva anche che i miti sono favole, il mondo antico è morto, e l’isola dei beati non si trova. Un pittore può renderla reale solo dipingendola – imprigionando l’infinito su un riquadro di tela.
A volte le spiegazioni degli artisti sulle loro opere sono pletoriche, o fuorvianti. Non quella di Böcklin: un quadro deve raccontare qualcosa, diceva, far pensare come una poesia e lasciare un’impressione come un brano di musica. Non saprei aggiungere altro.

1 commento:

  1. Bell'articolo sull'isola dei morti di Bocklin, pittore da me amato al punto che gli ho dedicato tre mie opere di isole dei morti. Un grande capolavoro di mistero pieno di atmosfere...
    www.salvatoreromano.eu

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