sabato 9 febbraio 2013

I dorsi dei libri.



Basta veder una biblioteca per innamorarsi della lettura. 

Roberto Calasso 

racconta come l’infanzia tra volumi antichi ha influenzato il suo lavoro di editore

"La Repubblica",  5 febbraio 2013

.L’Università di Perugia, che mi conferisce l’onore di questa laurea, è considerata, insieme a quella di Bologna, mater legum, luogo principe della civiltà del diritto. E una delle sue glorie fu quella di aver accolto l’insegnamento di Baldo degli Ubaldi, il quale a sua volta aveva studiato a Perugia con Bartolo da Sassoferrato. Alle mie orecchie questi due nomi evocano innanzitutto certe parole che, più di una volta, ho sentito da mio padre Francesco Calasso, studioso sia di Bartolo sia di Baldo. Ed erano queste: «Il Trecento italiano ha avuto tre vette: Dante, Caterina da Siena e Bartolo da Sassoferrato». Ma c’è anche un ricordo visivo che per me si collega a questi due nomi.
Da bambino, fino ai dodici anni, usavo fare i compiti in una lunga stanza che aveva alte librerie su due pareti. Poggiavo sul tavolo il mio sussidiario e, alzando lo sguardo, vedevo libri di grande formato – erano spesso degli in-folio – sui cui dorsi si leggevano nomi misteriosi e titoli generalmente in latino. Così mi apparvero Baldus Ubaldus e Bartolus a Saxoferrato, rispettivamente nei sette volumi dei Commentaria di Baldus, stampati a Venezia nel 1577, e negli undici volumi degli Omnia Opera di Bartolus a Saxoferrato, stampati a Venezia nel 1596. Nulla sapevo di loro – e troppo poco ne so tutt’oggi. Ma quei nomi, che soltanto su quegli antichi dorsi, di pergamena o di pelle, potevo incontrare, si incunearono nella mia mente, accanto ad altri non meno misteriosi: Azo, Alciatus, Accursius, Albericus de Rosate, Donellus, Cuiacius, Fulgosius, Vossius. I sentimenti del bambino verso quei testimoni muti di certi tediosi pomeriggi erano insieme di curiosità e di insofferenza. Non era facile immaginare che cosa si celasse di attraente in quelle lunghe colonne di stampa, spesso impeccabili e sempre indecifrabili. Ma oggi, a distanza di vari decenni, posso dire che molto devo a quei libri – anzi alla semplice visione di quei dorsi. Inoltre ho il sospetto che questa acuita sensibilità per i dorsi dei libri abbia avuto una parte anche nella mia attività editoriale. Ho sempre pensato che vivere circondati dai dorsi di certi libri fosse, in certi casi, poco meno importante che leggerli. Nessun grande editore, per quanto mi risulta, ha mai pubblicato libri con brutti dorsi, come se si trattasse di un punto decisivo, dove non è ammesso cedere.
Se una gran parte di ciò che ho scritto è dedicata a fatti e testi apparsi in luoghi remoti e in epoche altrettanto remote e se questo mi è apparso fin dall’inizio del tutto naturale, anzi consequenziale, posso riconoscere oggi che un impulso deve essermi venuto dalla constatazione che quanto ci è più vicino e si impone ogni giorno davanti ai nostri occhi può anche essere quanto di più lontano e difficilmente accessibile, pur presentandosi nella consueta forma di parole stampate, come accadeva con gli in-folio di Baldo e di Bartolo.
Un primo segno di quella inclinazione fu che, quando mi trovai a scegliere l’argomento della mia tesi di laurea, mi rivolsi senza esitare a Mario Praz, che si potrebbe definire un comparatista fisiologico, a tal punto le sue indagini consistevano nell’abbandonarsi al “demone dell’analogia”, mettendo in rapporto parole, vezzi, forme, temi, ossessioni, gusti che avevano le origini più disparate e gli permettevano di attraversare diagonalmente intere civiltà letterarie e artistiche. E non è certo un caso se l’autore a cui mi dedicai fu Sir Thomas Browne, insieme scienziato e letterato, che annovera fra i suoi scritti l’esile catalogo di una biblioteca immaginaria, dal titolo Musaeum Clausum ovvero Bibliotheca Abscondita: biblioteca così nascosta da poter essere consultata soltanto in sogno.
In ogni caso, un continuo gioco di rimandi e richiami fra vicino e lontano, che non è mai un gioco fra qualcosa di noto e qualcosa di ignoto ma fra due entità in linea di principio ugualmente ignote, deve essermi congeniale, se già nelle prime pagine della Rovina di Kasch, che apparve esattamente trent’anni fa, si passava dall’Ancien Régime di Talleyrand all’India dei veggenti vedici e alla Cambogia di Pol Pot. So bene che questo genere di tortuosi itinerari e azzardati accostamenti è stato fortemente avversato per tutto il Novecento, che pure è il secolo in cui questo gioco si è imposto. E anche di recente un grecista come Marcel Detienne ha dovuto ricordare che «ci saranno sempre certi storici pronti a difendere la tesi irriducibile secondo cui non si può comparare se non ciò che è comparabile». E Detienne poi mostrava come, per alcuni di tali storici, quel “comparabile” fosse circoscritto ai confini di una storia nazionale, con il suo supposto corredo di identità. A proposito di questo punto ho dovuto riconoscere che nei miei libri si applica, se mai qualcosa si applica, il principio opposto. Non solo si sottintende che tutto è comparabile, se non altro per fedeltà al “demone dell’analogia”, ma che talvolta le esperienze apparentemente più incomparabili, perché fattualmente irrelate, possono far scoccare la scintilla che illumina finalmente ciò che abbiamo sotto gli occhi e rischia di rimanere tenacemente opaco.
Dal Paleolitico a oggi, Homo Sapiens ha sviluppato un variegato ventaglio di culture, ma al tempo stesso è rimasto tremendamente monotono in rapporto ai facts of life. «Nascita, e copula, e morte » diceva lo Sweeney di T.S. Eliot. Al che si possono aggiungere pochi altri dati: respirare, dormire, mangiare, bere, sognare, uccidere, evacuare. Ciascuno di questi realia è rimasto costante, anche se soggetto a un turbine di varianti. Ciascuno è una potenziale inesauribile sorgente di storie e di intuizioni.
E mai questo si può verificare come nel materiale mitologico, sia greco sia indiano, a cui ho dedicato una larga parte di ciò che ho scritto. Il suo presupposto è stato enunciato nel modo più limpido non già da un antropologo degli anni di Lévi-Strauss, ma da un grande scrittore che lo precede di un secolo: Baudelaire. A proposito del Lohengrin di Wagner e del rapporto fra quella storia e il mito di Eros e Psiche, Baudelaire si era lanciato in una digressione sulle favole che non è stata eguagliata per concisione, eloquenza e giustezza: «Le nazioni e le razze si trasmettono forse certe favole, come gli uomini si legano eredità, patrimoni o segreti scientifici? Si sarebbe tentati di crederlo, a tal punto si è colpiti dalla analogia morale che contrassegna i miti e le leggende sorti in contrade diverse. Ma questa spiegazione è troppo semplice per sedurre a lungo una mente filosofica. L’allegoria creata dal popolo non può essere paragonata a quelle sementi che un coltivatore comunica fraternamente a un altro che vuole acclimatarle nel suo paese. Niente di ciò che è eterno e universale ha bisogno di essere acclimatato. Quella allegoria morale di cui parlavo è come la stampigliatura divina di tutte le favole popolari… Per riprendere la nostra metafora vegetale, il mito è un albero che cresce ovunque, in ogni clima, sotto ogni sole, spontaneamente e senza piantoni. Le religioni e le poesie delle quattro parti del mondo ci forniscono a questo proposito prove sovrabbondanti. Come il peccato è ovunque, la redenzione è ovunque. Niente di più cosmopolita dell’Eterno». Quest’ultima frase potrebbe essere l’epigrafe taciuta di tutto ciò che sono andato scrivendo.

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