lunedì 18 febbraio 2013

Follemente artisti


Una mostra a Ravenna. 
Viaggio nella pittura ai confini psichiatrici 
Da Bosch agli outsider un dibattito eterno intorno alla creatività

Melisa Garzonio

"Corriere  della Sera", 17 febbraio 2013

Benvenuti nel regno delle ombre. Negli scenari infernali raccontati da Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio, dove l'uomo, perennemente preda o signore del male, è dipinto nei suoi aspetti più sconci e corrotti. I due maestri introducono in stile tardo gotico nel paesaggio del fantastico e del visionario che fa da fondale alla mostra «Borderline. Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall'Art Brut a Basquiat», aperta da oggi al Museo d'Arte di Ravenna. Bruegel colpisce duro nelle incisioni dei Vizi e delle Virtù, Bosch, nel suo «Elefante da battaglia», mette alla berlina un'umanità grottesca, oscenamente ridicola.
Il sonno della ragione genera mostri, c'è anche Goya coi suoi magistrali quadretti sulla Follia, e Théodore Géricault, sublime pittore di demoni in salsa romantica. Mostra affascinante e pericolosa. Non una passeggiata tra rasserenanti capolavori, ma un percorso su filo di lama, sospesi su abissi senza fondo. E non c'è via d'uscita: delle duecento opere in mostra, non una che ti riporterà finalmente a casa. Nessun ponte teso tra realtà e immaginario. L'artista ti consegna al caos, al nessun luogo. Il viaggio si conclude, quindi, in quella zona d'ombra dove i confini tra giorno e notte, vero e falso, reale e sognato, sono instabili per definizione. Del resto, l'intento dei curatori (il direttore del Mar Claudio Spadoni, l'editore Gabriele Mazzotta e lo psichiatra Giorgio Bedoni) era proprio questo: superare i confini.
Ecco allora perché, tra gli artisti «ufficiali» della storia dell'arte, dai fiamminghi del XVI secolo ai giorni nostri, troviamo un elenco di outsider che, con poche eccezioni, non hanno posto nei manuali dell'arte. Sono gli autodidatti, i solitari che hanno prodotto per lo più nel silenzio e nell'emarginazione dei ricoveri psichiatrici e, comunque, al di fuori di ogni possibile manipolazione culturale. Sono i produttori irregolari della cosidetta arte «folle», gli autori brut, dove il termine sta per «brutale», ma anche «primitivo», infantile, reclutati dal pittore francese Jean Dubuffet nel suo viaggio (cominciato nel 1945) lungo gli ospedali psichiatrici della Svizzera. I big, gli autori storici, si chiamano Adolf Wölfli e Scottie Wilson, ma tra le prime e più toccanti scoperte c'è Aloïse Corbaz, oggi considerata una star dell'Art Brut. Nata a Losanna nel 1886, rimasta orfana, è costretta a emigrare in Germania, a Lipsia. Ha una bella voce, e viene convocata nella cappella privata del Kaiser, Guglielmo II. Da qui scatta un innamoramento che sfocerà in un devastante delirio passionale. Internata con diagnosi di schizofrenia, nel segreto dei bagni dell'ospedale comincerà a dipingere le immagini infantili della passione: bocche di fuoco, re, principesse, storie d'amore, balli a corte. Le opere dei «folli» oggi appartengono alla Collection de l'Art Brut di Losanna, che ne ha prestate una quarantina. Dalle prime battute, la mostra solleva una domanda: che cos'è l'arte? Un prodotto naturale, innato, biologico il cui campo d'indagine è affidato alla scienza, oppure è fenomeno culturale, appreso, di pertinenza degli storici?
«Le due ipotesi non sono in contrasto — spiega Claudio Spadoni — l'arte è all'origine un impulso creativo e nasce analfabeta nel senso totale del termine. Paul Klee ne era convinto. Alla creatività infantile è accostabile anche quella dei primitivi, non ancora manipolati da un sistema culturale, di cui proponiamo in mostra qualche manufatto». A questo tipo di creatività incolta e non omologata si ispirerà, sul finire degli anni '40, il gruppo CoBrA (acronimo delle città da cui provengono i suoi artisti: Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam). In mostra, le opere di Jorn, Appel, Alechinsky, Corneille aggrediscono le pareti del museo con una colata di colori aggressivi, materici, ma aggregati sul filo di un'astrazione formale. Nessuna imposizione da fuori, ma soltanto la voce del proprio tormento controlla, invece, il flusso convulso di colori che sanguinano dalle pitture di Madge Gill, Voijslav Jakic, August Walla, Gaston Teuscher, Gaston Chaissac e altri artisti esclusi per problemi psichiatrici. Producono a ritmi esagerati, disegnano e dipingono su fogli, tele e ogni superficie tracciabile, ossessionati da un incontrollabile horror vacui. È soprattutto nella resa del corpo che esprimono il disagio maggiore. Gino Sandri, Federico Saracini, il primo internato a Mombello, il secondo al San Lazzaro di Reggio Emilia, sempre lo stesso volto, lo stesso sguardo; Eugenio Santoro, scultore-operaio emigrato in Svizzera, passa una vita intera a scolpire alberi da frutto con forme di mostruosi volti umani. Sì, lo faceva anche Francis Bacon: «Io voglio deformare la cosa al di là dell'apparenza, ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l'apparenza...». Ecco la differenza, spiega Spadoni: «Bacon usava la consapevolezza e aveva il controllo della proprie pulsioni, là dove l'artista brutale, alienato, metteva in gioco tutto e soltanto se stesso».
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Quando la «Melanconia» era un fiore all'occhiello

Francesca Bonazzoli

Il binomio «genio follia», secondo cui gli artisti sono tutti matti, strani e eccentrici, non è un semplice luogo comune, ma ha una tradizione di pensiero autorevole e millenaria. Già nei culti dell'antica Grecia dedicati a Dioniso, la creatività e l'ispirazione erano messe in relazione con la follia e il delirio mistico. Nel «Fedro», Platone afferma che un artista che possegga la sola abilità, senza il delirio delle Muse (il daimon), è un artista incompleto. E anche secondo Aristotele, tra il genio e il folle c'è solo una differenza di grado, non di natura. In particolare di colore della bile: «Gli eccessi che la bile determina, fanno sì che tutti i melanconici si distinguano dagli altri uomini, non a causa di una malattia, ma a causa della loro natura originale». Idea che, trascurata durante il Medioevo, viene ripresa durante l'Umanesimo dal filosofo fiorentino Marsilio Ficino (1433-1499). Figlia prediletta di Saturno, la Melanconia (dal greco: melaina, nera, e cholé, bile) era spiegata come la fase preliminare e necessaria del processo creativo e in questa luce, nel Cinquecento, diventa addirittura un segno distintivo da esibire snobisticamente anche attraverso il colore degli abiti (il nero è il più adatto), l'atteggiamento riservato e l'eccentricità del comportamento. Il Vasari, nelle «Vite», sottolinea sempre la stranezza come qualità esclusiva del genio: Botticelli viene descritto «inquieto sempre» e «cervello stravagante», il Pontormo come «giovane malinconico e soletario». E la Melanconia è senz'altro indicata come la caratteristica principe del più geniale degli artisti: Michelangelo. A 74 anni, mentre componeva versi come «La mia allegrez'è la maniconia / E 'l mio riposo son questi disagi», scriveva a Giovan Francesco Fattucci, uno dei suoi rari amici: «Voi direte bene che io sia vecchio e pazo: e io vi dico, che per istar sano e con manco passione, non ci trovo meglio che la pazzia».
La prova di quanto questi atteggiamenti fossero rispettati nel Rinascimento, viene dall'affresco de «La scuola di Atene», in Vaticano, dove Raffaello ha reso il suo monumentale omaggio a Michelangelo ritraendolo come personificazione della Melanconia, e non risulta che Michelangelo se ne sia risentito. Ma questa vague melanconica, che da Firenze si estese all'intera Europa fino al grande melancholicus Dürer, nel Seicento finisce in risacca. Le nuove figure degli artisti gentiluomini, come Rubens, Van Dyck, Bernini, Velàzquez, fanno passare di moda il temperamento saturnino. Così le terribili vicende come quelle di Annibale Carracci, fragile genio che per la delusione della sua misera paga «diede in una grandissima melanconia» che lo portò alla morte; o come quella del suicidio del Borromini che, «assalito con maggior forza dall'ipocondria, che a tal lo ridusse in pochi giorni, che niuno lo riconosceva più», introdussero dei distinguo fra la mania platonica e la malattia mentale, corroborati dalla nascente scienza medica.
Ma basta lasciar passare poco più di un secolo che il binomio «genio follia» viene recuperato dal Romanticismo e poi dal Decadentismo, epoche culturali in cui si volle addirittura individuare nella malattia l'origine dell'arte. Se la scienza affermava per esempio con Lombroso che «v'hanno tra la fisiologia dell'uomo di genio e la patologia dell'alienato non pochi punti di coincidenza» e si appassionava a casi psicotici maniaco depressivi come quello di Van Gogh studiato dal dottor Gachet, per parte loro gli artisti si compiacevano della propria eccezionale capacità di soffrire. Proust poteva così affermare: «Tutto ciò che è grande nel mondo lo dobbiamo ai nevrotici. Essi solo hanno fondato le religioni e dato vita ai nostri capolavori» e Thomas Mann, convinto che la malattia è in grado di «affinare l'uomo, e renderlo intelligente e eccezionale», si trovava nella stessa linea di pensiero di Schopenhauer secondo il quale «il genio è più prossimo alla pazzia dell'intelligenza media».
Una corrente di pensiero che porterà alle trappole ideologiche del Novecento culminate in certa psichiatria tedesca che, durante il nazismo, stabilirà come l'arte moderna esprime «regressione e malattia» e gli artisti «sono persone degenerate appartenenti ai gruppi razziali inferiori». Naturalmente la psichiatria ha sviluppato differenti scuole, ma la complessità del rapporto fra genio e follia è sfuggita anche a Freud. Mentre certa psichiatria francese manteneva infatti stretti rapporti col Surrealismo, Freud, da Londra, scriveva all'amico Stefan Zweig a proposito del suo incontro con Dalí: «Fino a ora ero incline a considerare i Surrealisti, che sembra mi abbiano prescelto come loro santo patrono, dei puri folli, o diciamo puri al 95 per cento», ma appena poche righe sotto questa timida riabilitazione, tornava ad esprimere i suoi dubbi sostenendo che il concetto di arte andava mantenuto «entro certi limiti». Quale sia l'ampiezza di questi limiti è questione ancora aperta, ma basta andare in un museo per capire che oggi è molto più vasta.



Il talento del pittore matto, così convinsi Breton e Dubuffet

Portai a Parigi le opere di Zinelli, ora stella dell'«Art Brut»

Vittorino Andreoli

Nel 1959, terminato il liceo, decisi di iscrivermi alla facoltà di Medicina con l'intento preciso di diventare psichiatra. Vinsi ogni dubbio dopo essermi recato al manicomio della mia città, Verona, il san Giacomo della Tomba, e aver visitato, accompagnato dal suo direttore, i 10 padiglioni di cui era fatto per ospitare i 1.200 matti di Verona.
Uscito dal «quinto femminile», il girone più drammatico, il direttore mi portò in un piccolo edificio situato dentro il grande parco: era l'atelier di pittura, il primo nato in Italia e accoglieva sei uomini e sei donne che avevano mostrato un qualche interesse all'espressione grafica. Era sorto nel 1957 su suggerimento di Michael Noble, uno scultore scozzese che viveva sul lago di Garda, e che aveva saputo di uno schizofrenico che spontaneamente tracciava segni sulle pareti del padiglione, e che dunque «sporcava» i muri da poco imbiancati e per questo veniva legato per impedirglielo.
Michael offrì i mezzi economici per costruire quell'atelier che io visitai nel mio primo giorno di manicomio. Il matto, Carlo Zinelli, ebbe un tavolo tutto per sé, la disponibilità dei materiali per dipingere il suo mondo. E a lui si aggregarono via via gli altri pittori. L'atelier mi affascinò e fui felice quando il direttore mi disse che potevo non solo frequentarlo ma anche dirigerlo. Tornavo da Padova e subito andavo all'atelier del manicomio, dai matti pittori. Le opere di Carlo Zinelli erano stupende, a vederle veniva Michael con i suoi amici, fra cui Buzzati e Moravia che si erano espressi con ammirazione. Carlo era in una fase della malattia che toglie la capacità di espressione linguistica, ridotta a «insalata di parole», ma componeva tavole coerenti con stilemi che mano a mano definivano un alfabeto e un linguaggio grafico: un vero racconto colorato su un uomo e sulla sua malattia.
Studiando questo tema nuovo e affascinante vengo a conoscere il movimento dell'Art Brut. Era nato in Francia nel 1945 per iniziativa di Jean Dubuffet, un nome che allora identificava un commerciante di vini e non un pittore. Era convinto che l'arte fosse condizionata pesantemente dalla cultura delle Accademie, da schemi intellettuali e che dovesse liberarsene: scrisse un libro («Asfissiante cultura») e si dedicò a l'Art Brut. «Brut» inteso proprio come «non-culturel». E coerentemente a questa idea, si mise a cercare e a raccogliere opere brut. Nasce così la Collection con le opere conservate nel Musée di 127, rue de Sèvres a Parigi, e subito dopo la Compagnie de l'Art Brut, costituita da persone di grande rilievo che ne diventano i garanti e i promotori.
Nel 1961 mi convinsi che Carlo Zinelli era un pittore brut e volli portare a Parigi le sue opere per mostrarne la bellezza e avere la conferma della sua appartenenza a quel movimento che nel frattempo era diventato importante, espressione di quella straordinaria officina che era la Parigi del tempo. Essere ricevuto da Dubuffet era un'impresa, roba da Ercole o da Prometeo. Ma quando quella mattina mi accolse in uno dei suoi palazzi parigini, ero sicuro che lo avrei incatenato sulle opere di Carlo che mi ero portato. Stetti a Parigi cinque giorni poiché aveva programmato di accompagnarmi da André Breton che era parte della Compagnie e il più ascoltato da Dubuffet.
Rimasi affascinato da quest'uomo, e felice quando tolse ogni dubbio a Dubuffet, definendo il mio pittore matto, non solo un brut, ma uno dei più importanti della collezione. E qui occorre tenere conto di un altro fatto. Dubuffet non poteva sopportare gli psichiatri e l'origine di questa allergia gravissima si lega a Antonin Artaud, l'inventore del «teatro della crudeltà» che era stato per anni curato da Gaston Ferdière, uno psichiatra che lo aveva trattato con 51 elettroshock. Dubuffet creò un comitato, presieduto da Breton, per la sua liberazione. Ci riuscirono e da allora gli psichiatri erano a lui insopportabili. Io non ero che uno studente, ma in uno dei successivi incontri, mi disse «vous etes un psychiatre non-psychiatre» e capii che era un complimento poiché lo espresse ridendo. Seppi poi che anche Breton lo era, ma non aveva mai esercitato. Del resto qualcosa la Compagnie aveva a che fare con questa disciplina se si considera che un'analisi sulla provenienza delle opere del Musée (oltre 5.000) aveva svelato che l'85 per cento proveniva dai manicomi. Da psichiatre non-psichiatre, nel 1966 scrissi una monografia su Carlo Zinelli (il numero 6 dei «Cahier»). E in quell'anno venni fatto membro de la Compagnie, l'unico italiano nella schiera dei pochi «eletti»; oggi sono il solo testimone vivente di quella avventura che finì nel 1976 quando le Musée venne donato e trasportato a Losanna in Svizzera. Nel frattempo sono diventato psichiatra e lo sono da 50 anni. E Carlo è tra gli esponenti della pittura del Novecento.

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