giovedì 28 febbraio 2013

PIETRO BEMBO E L'INVENZIONE DEL RINASCIMENTO


L'intellettuale spregiudicato che volse l'amore in volgare

LUCIANO DEL SETTE

"Il Manifesto", 27 febbraio 2013  

Nel quartiere romano di Testaccio, la targa della via intitolata ad Aldo Manuzio si limita a riportarne il nome. Chi fosse costui, rimane ignoto al cittadino o allo straniero che passa di lì. Se, sotto il nome, si indicasse il mestiere, tipografo, ciò non basterebbe ancora. Qualche indicazione potrebbe venire dalle date di nascita e di morte, 1449/1515. Nato a Bassiano, provincia di Latina, morto a Venezia, Manuzio fu tra gli attori di un'epoca culturale, il Rinascimento italiano, percorsa al fianco dell'inventore di quell'epoca, Pietro Bembo. «Inventore» perché Bembo seppe dare impulso e forma a un disegno che si prefiggeva di conferire all'Italia una dimensione artistica e intellettuale unitaria, mondata di localismi. Un coro armonizzato di voci, ma non una Corte nell'accezione tradizionale che si dà a questo termine. Piuttosto, attingendo dal linguaggio odierno, una rete diffusa di artisti, letterati, studiosi. Come Manuzio, seppure con qualche fortuna scolastica in più, la figura di Bembo non ha finora meritato la giustizia che le spetta. 
Per la prima volta, una mostra la fa emergere e la mette al centro del tutto (patrimonio immenso) che seppe costruire. Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento, questo il titolo della rassegna presso il Palazzo del Monte di Pietà di Padova, fino al 19 maggio, può vantare diversi meriti. In primo luogo l'originalità della scelta di base dei suoi curatori (Guido Beltramini, Davide Gasparotto, Adolfo Tura), cui si è appena accennato. Poi di essere riuscita a ottenere il prestito di opere e documenti eccezionali da musei e collezioni private in Europa e nel mondo. Mai piegandoli, però, al ruolo di semplici richiami spettacolari, e invece assegnando loro il ruolo di elementi fondamentali ed esplicativi del contesto. Infine la capacità di guidare agilmente il visitatore attraverso un percorso di non facile approccio. 
Bembo nasce nel 1470, da Bernardo, diplomatico di spicco, e da Elena Marcello. La figura paterna rivestirà un ruolo rilevante non solo per il giovane Pietro, ma anche per l'uomo che diverrà segretario di papa Leone X e poi cardinale per volere di Paolo III. Viaggiando insieme al padre tra Firenze, Roma e Messina, Pietro affina l'amore per la letteratura. Il connubio con Aldo Manuzio inizia nel 1496, quando pubblica presso di lui il suo De Aetna; prosegue cinque anni dopo con un'edizione delle opere in volgare del Petrarca e un'altra, immediatamente successiva, di un'edizione della Commedia di Dante. Sono, e non sembri una boutade, i primi pocket nella storia dell'umanità. Prova ne costituisce il dipinto in mostra, Giovane con libro verde, del Giorgione, dove una figura maschile impugna un libro di piccolo formato, il guanto della mano destra bucato per poterne sfogliare le pagine. Manuzio, poi, conferisce ai testi uniformità di impaginato e di caratteri tipografici. 
Nel 1505 Bembo dà alle stampe, dedicandolo a Lucrezia Borgia, donna importante tra le molte da lui amate, Gli Asolani, trattato sull'amore redatto in volgare. I tre protagonisti incarnano l'amore con tutto il suo corredo di interrogativi, dubbi, ansie, paure; sono rappresentazione simbolica di una nuova generazione di aristocratici che vive scopertamente le proprie passioni e che, di nuovo Giorgione, tra gli altri, traspone sulle tele del Doppio ritratto e del Ritratto di giovane. Gli Asolani vedrà innumerevoli ristampe per tutto il Cinquecento e in tutta Europa. 
Il primo periodo romano, dal 1512 al 1521, segna una svolta decisiva nella vita di Pietro. Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, lo nomina suo segretario. Il papa intende proseguire la strada del predecessore, Giulio II, committente di Michelangelo per gli affreschi della Cappella Sistina e fautore di una nuova fioritura artistica e letteraria. Bembo comprende che è in atto una rivoluzione figurativa, i cui principali protagonisti sono Michelangelo e Raffaello (al secondo lo legherà una profonda amicizia, e per lui scriverà l'epitaffio scolpito sulla tomba del pittore al Pantheon), geniali creatori di un linguaggio espressivo senza precedenti. È un linguaggio universale, forte dei retaggi più nobili della Roma antica da cui trae linfa per dare forma al Nuovo. Bembo commissiona opere, acquista capolavori dell'antichità e reperti archeologici, costruendo la sua collezione che comincerà a ordinare a Padova, dove ritorna nel 1521, e che troverà collocazione sei anni dopo, quando Pietro prenderà possesso della casa di via Altinate. 
La mostra ne offre magnifici esempi: i lavori del Mantegna e del Perugino, di Leonardo e Tiziano, del Sansovino, di Pietro e Tullio Lombardo; la raffinatezza del mobilio e della viola da braccio di Giovanni d'Andrea; i busti d'epoca romana, e reperti rarissimi quali il sigillo d'Augusto e la Mensa Isiaca. Altra preziosa testimonianza esposta è una lettera di Raffaello al pontefice, nella quale il pittore chiede di porre fine al saccheggio indiscriminato delle vestigia romane e di iniziarne la tutela e il restauro. 
Fin dagli inizi del secolo, Bembo lavorava su un trattato che darà un contributo fondamentale agli intenti di unitarietà così tenacemente coltivati. Sono le Prose della volgar lingua, in forma di dialoghi. Il primo, vero, trattato sulla lingua italiana. Lo studioso ha come punti di riferimento Boccaccio e Petrarca. Perché non Dante? Scrive Cesare Segre: «È stata proprio la riflessione sui problemi della lingua a rendere Bembo consapevole che la stupenda costruzione linguistica della Commedia non poteva essere additata come modello. In un ambiente in cui la lirica faceva aggio sulla narrazione, in cui il linguaggio mirava al massimo di raffinatezza, la Commedia finiva per presentarsi come qualcosa di irripetibile, e perciò anche di inimitabile». 
Gli ultimi anni di vita di Pietro lo vedono nuovamente a Roma. Ignorando le critiche per la scelta di un uomo che mai aveva fatto mistero dei suoi amori, Paolo III lo nomina cardinale. In questa veste lo ritrae Tiziano, lo sguardo assorto, la mano destra aperta. Al papa che si prefiggeva di restituire autorevolezza e statura morale a una Chiesa corrotta, Bembo risponderà con tutta l'influenza e il prestigio di una figura celebre ormai ben oltre i confini d'Italia. La morte arriva il 18 gennaio del 1547. Pietro viene sepolto in Santa Maria Sopra Minerva. Il dialogo di molte voci, l'Italia di una lingua sola, sono realtà in divenire. Ed è il suo lascito più prezioso.

R. CARNERO, Rinascimento di Bembo, "L'Unità", 6 marzo 2013: CLICCA QUI.

Ultima fermata Atlantide


Nel nuovo libro, 
Simon Garfield racconta abbagli e stranezze della cartografia fino a Google
Città e isole che non c'erano: tutt i gli errori delle mappe

GIULIANO ALUFFI

"La Repubblica", 27 febbraio 2013

Potevano sollevare montagne, spostare continenti, radere al suolo intere città o erigerle dal nulla in pochi secondi: il tutto senza nemmeno lasciare la scrivania. Erano i cartografi, razza
speciale d'uomini in bilico tra scienza ed arte, ormai estinti per far posto alle mappe digitali e al Gps. A raccontare le loro gesta più eclatanti è l'inglese Simon Garfield, giornalista per l'Independent e l'Observer, nel saggio On the Map: A Mind-expanding. Exploration ofthe Way the World Looks (Profile Books, pagg. 464, euro 17,74). 
«C'è un vero e proprio mondo parallelo al nostro, per certi versi immaginario - le sue fattezze mutano senza sosta - e per altri ancora più reale di quello in cui viviamo, perché espressione dei nostri desideri di conquista e di esplorazione», spiega Garfield a "Repubblica". «È il mondo delle mappe. Solo lì, una catena montuosa può apparire all'improvviso, esistere per un secolo e poi svanire in un batter d'occhio: successe così per le montagne di Kong». A inventarle fu nel 1798 l'inglese James Rennell, che pure era uno dei cartografi più abili dell'epoca nonché uno dei fondatori della Royal Geographical Society. La sua topica appare in due mappe allegate al più importante libro di viaggi del tempo: Viaggio all'intento dell'Africa dell'esploratore scozzese Mungo Park. Laddove Park raccontava di aver visto solo due o tre monti, Rennell li unì tutti insieme inventandosi una catena dall'attuale Costa d'Avorio alla Nigeria. «Dal 1798 al 1892 le montagne di Kong comparvero su almeno 40 mappe e nel 1804 il cartografo tedesco Johann Reinecke, con commovente eccesso di zelo, le illustrò in un atlante ricoprendone addirittura le cime di neve. A raderle al suolo, per così dire, fu l'ufficiale francese Louis-Gustave Binger: nel 1888, durante una missione di esplorazione del fiume Niger, semplicemente si accorse che non erano mai esistite» spiega Garfield. «Allo stesso modo, nel 1622, la California si staccò dal continente americano...». Non fu un cataclisma geologico, sia chiaro, ma una svista che si moltiplicò a dismisura. 
Gerard Mercator e Jodocus Hondius
Il responsabile fu il frate Antonio de la Ascensión, che ricordando (con qualche incertezza) un suo viaggio di vent'anni prima disegnò una mappa che ritraeva la California come un'isola. L'errore è riprodotto nel 1624 in una mappa olandese e nel 1625  il matematico Henry Briggs in un articolo accompagnato dalla mappa scrive della «grande e prosperosa isola di California». Da lì si propaga in centinaia di mappe. Fino a quando, nel 1747, Ferdinando VII di Spagna, in un decreto  regio sull'inesistenza del "Passaggio a Nord Ovest", sente il bisogno di ricordare a tutti: «La California non è un'isola». 
«L'infernale moltiplicazione degli errori era il frutto dell'antica abitudine dei cartografi di copiarsi tra loro» commenta Garfield. «D'altronde i luoghi fittizi, ma inseriti nelle mappe a bella posta, sono diventati col tempo uno strumento utile a smascherare i plagi. E lo sono ancora oggi». Ad esempio nel 2001 lo Ordnance Survey inglese ottenne 20 milioni di sterline dallaAutomobileAssodation che aveva copiato delle mappe riproducendo degli errori deliberatamente commessi dai  cartografi originali. In altri casi i luoghi inesistenti sono occasioni di sfogo per la vanità, come l'inesistente "Mount Richard" che apparve come appendice delle Montagne Rocciose negli anni Settanta, ma solo nelle mappe disegnate da Richard Ciacci. Oppure celano uno spirito goliardico. E il caso delle città fittizie di Goblu e Beatosu inserite nel 1978 nella  mappa ufficiale dello stato del Michigan da Peter Fletcher, presidente della State Highway Commission ed ex studente dell'Università del Michigan come
omaggio al motto «Go blue!» dei fan della squadra universitaria, e dileggio agli arcirivali della squadra della Ohio State University (OSU): «Beat osu!» («battete gli Osu!»).
Tale è il potere del cartografo, scienziato-artista che proprio  come gli scrittori ha sempre avuto il terrore degli spazi bianchi,  da riempire ad ogni costo per non tradire la propria insipienza o magari una certa avversione ad alzarsi dalla sedia per esplorare in prima persona. Soprattutto nel Medioevo, quando si ovviava alla penuria di informazioni su una regione sbizzarrendosi nell'illustrare miti e animali fantastici. 
L'esempio migliore è la Mappa Mundi di Hereford (Inghilterra), risalente al 1290. Racchiude tutta la storia mitologica come se accadesse contemporaneamente: la torre di Babele, l'arca di Noè, il vello d'oro, il labirinto di Creta. E, quasi come i rilanci che si fanno al culmine delle vendite di pentole, offre una doppia apparizione del mostro Scilla: sia vicino a Cariddi sullo stretto di Messina che in prossimità delle isole Scilly (Cornovaglia). E poi unicorni, sinistri uomini-mandragora, e i bizzarri  sciapodi già raccontati da Aristofane e Plinio il vecchio: uomini dotati di un solo piede di dimensioni sproporzionate, che usano per farsi ombra.
Molto più sobri i cartografi cinesi, come Chu Ssu-Pen (1273 1337). Le sue mappe testimoniavano la proverbiale diffidenza dei cinesi verso il mondo esterno, che arrivava in Cina soprattutto attraverso i racconti dei mercanti arabi.
«Non c 'è modo diinvestigare le terre dei barbari al sud-est del Mare del Sud e a Nord-Ovest della Mongolia» scrisse. «Chi parla di queste terre è incapace di dire qualcosa di definito, chi dice qualcosa di definito non è degno di fiducia. Quindi sono costretto a omettere».
Più disposti ad accontentarsi di un'informazione purchessia furono invece gli occidentali, come
il conquistador per eccellenza: Hernén Cortés. Nel 1519 fece realizzare la prima mappa del Golfo del Messico e parlando con degli indigeni chiese loro il nome della loro terra natia. La risposta fu Ma c'ubah than, che Cortés udì come "Yucatan", e fece mettere sulla mappa. 450 anni più tardi, esperti di dialetti Maya rivelarono che in realtà «Ma c'ub ah than» significava: «Non capisco le tue parole».
Oggi gli errori sono più rari, ma non privi di conseguenze anche serie: nel novembre 2010, soldati nicaraguensi guidati dall' ex sandinista Eden Pastora attraversarono il fiume San Juan, confine col Costa Rica, per piantare una bandiera sull'isola Calero (appartenente al Costa Rica dal 1897). «Guardate su Google Maps, e vedrete dove è davvero il confine» dichiarò Pastora difendendo quel gesto che poteva scatenare una guerra. Google corresse la svista e il suo ufficio stampa sottolineò: «Google Maps è un servizio di intrattenimento, e non deve essere usato per decisioni territoriali, politiche °militari». Ma è difficile separare l'uso spensierato da quello ostile, quando si parla di mappe: i bombardieri della Luftwaffe nel 1942 cercarono di abbattere il morale degli inglesi con i cosiddetti Baedeker blitz, missioni per distruggere luoghi indicati con più di tre stelle dalle guide Baedeker. Rispose colpo su colpo, per così dire, la guida Michelin 1939 della Francia, che fu ristampata a Washington nel 1944 e data alle truppe del D-Day.

IL LIBRO: On the Map di Simon Garfield (Profile Books Pagg. 464).

PER  APPROFONDIRE: Mapping the city.

Se la scienza supera la fantascienza


Manuela Campanelli

"Corriere della Sera", 26 febbraio 2013 

Può la scienza mettere in crisi la fantascienza? Concessi i dovuti margini alla fantasia e alla creatività di ogni singolo autore, sembrerebbe proprio di sì. Le nuove scoperte d’astronomia stanno infatti facendo traballare i suoi capisaldi. La stella di Barnard - dove Isaac Asimov ambientò la casa di invertebrati marini, Michael Moorcock il rifugio di esseri umani fuggiti dalla Terra, Will Eisner il luogo dove avvenne il primo contatto dell’umanità con una civiltà extraterrestre, e dove la serie fantascientifica Galactica aveva posto la base dei Cyloni, robot senzienti che avevano un odio viscerale per gli uomini - ha per esempio cambiato i suoi connotati. Se finora si pensava fosse un sistema di pianeti, da agosto scorso otto astronomi dell’Università della California hanno assicurato, dopo 25 anni di accurate misure, che non ne ha neppure uno.
RIFERIMENTI CAMBIATI - Due mesi dopo questa scoperta è arrivata un’altra doccia fredda per gli autori che avevano utilizzato Alpha Centauri per animare le loro storie. E parliamo dei big della fantascienza come Stansilaw Lem, Robert Silverberg, Philip K. Dick, Asimov e A. C. Clarke, e delle più famose serie televisive come Doctor Who, Star Trek e Buck Rogers. Se fino a poco tempo fa si riteneva che il suo sistema multiplo comprendesse anche un pianeta simile alla Terra per dimensioni e temperatura, da ottobre scorso alcuni scienziati dell’Università di Ginevra hanno tirato una secca conclusione: questo pianeta non esiste davvero.
SCENARI MUTATI - Kim Stanley Robinson, autore della Trilogia di Marte e del recente libro 2312, sembra farsi portavoce degli autori di fantascienza attraverso le pagine di Nature: «Dobbiamo essere più realistici», dice. Se tuttavia questa può essere la sua opinione, gli scenari dove ambientare la narrativa fantascientifica sono sostanzialmente mutati e in breve tempo.
SCOPERTE - «Non molti anni fa il nostro Sistema Solare era considerato pressoché unico o rarissimo. Le evidenze scientifiche ci hanno invece dimostrato che i sistemi extrasolari sono un evento comunissimo: ogni mese si scoprono 2-3 sistemi di pianeti che girano intorno a stelle di ogni tipo, da quelle nane a quelle caldissime», aggiunge Maria Teresa Capria, dell’Istituto di astrofisica e di planetologia spaziale all’Inaf di Roma. «Ben 840 esoplaneti sono stati oggi identificati e circa 2.320 sono candidabili come tali: le loro atmosfere vengono scrutate con sonde dedicate alla ricerca di minime tracce d’acqua. Non ci sono dubbi che le possibilità di vita aliena si sono moltiplicate e che i viaggi interstelllari non possono essere più immaginati con una sola destinazione».
POSSIBILITÀ - La scienza chiude dunque la fantascienza da un lato ma la apre da un altro punto di vista offrendole nuovi scenari su cui poggiarsi. Telescopi grandi 50-60 metri riusciranno a vedere corpi celesti lontani anni luce da noi: grazie all’ottica adattativa, che apporta micrometriche pressioni sulla superficie delle lenti, le loro forme ci giungono corrette dalle turbolenze causate dalla nostra atmosfera. Da qui a imbastire trame per futuri romanzi il passo è breve. Registi e romanzieri potrebbero per esempio darsi come meta infiniti mondi da raggiungere e colonizzare. «O al contrario potrebbero ambientare le loro storie tra miliardi di anni in un universo sempre più distante che obbliga le galassie a essere sempre più lontane e isolate. Attualmente s’indaga infatti sul perché l’universo sia in espansione accelerata: c’è forse un termine di curvatura nell’equazione di Einstein o tutto dipende da quel 70 per cento di energia oscura che non emette luce?», dice Carlo Burigana, dell’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica dell’Inaf di Bologna.
OPPOSTI - La «buona» fantascienza si nutre anche degli opposti: o della scienza più rigorosa o della violazione esplicita dei suoi paradigmi. L’idea di superare la velocità della luce e fare viaggi senza distanza potrebbe essere percorribile, come quella di vedere materializzare e smaterializzare le proprie creature fantastiche se non si tiene conto della conservazione della massa. Oppure si potrebbe rendere protagonista un buco nero e cercare di superarlo. «Un attimo», invita a riflettere Burigana. «Un conto è però farci cadere dentro una particella e un altro una persona: l’effetto mareale dettato dalla diversa forza di gravità tra le sue estremità lo disgregherebbe».
SOCIETÀ - La letteratura fantascientifica, sebbene spinga al sogno, è sempre stata tuttavia specchio della società in cui si vive. Negli anni 1860-1903 era l’epoca delle avventure romanzate animate da fantasie utopistiche, come il Viaggio nel centro della Terra di Giulio Verne, che rimandavano a una scienza e a una tecnologia capace di migliorare le condizioni umane. Gli anni 1904-1933 sono stati forieri di grandi innovazioni, dall'invenzione del telegrafo senza fili e del telefono, a quella dell’aeroplano e dei film cinematografici fino all’avvento della fisica nucleare che aveva indotto a pensare che il famigliare, come per esempio la materia stessa, in realtà fosse sconosciuto e quasi alieno. Anni che si mischiano alla politica (prima guerra mondiale e rivoluzione russa) e che danno origine a pagine ricche di cinismo e nello stesso tempo animate dall’ossessione del futuro, popolato da robot fuori controllo capaci di provocare catastrofi. A questa era segue un’«età dell’oro» per la fantascienza (1934-1960) che celebra le conquiste scientifiche. Che dire invece della fantascienza ai nostri giorni? Potrebbe essere un valido mezzo per sognare e innalzarsi dalla quotidianità spesso pesante e depressiva.

mercoledì 27 febbraio 2013

Il welfare delle lettere


Volumi ai bambini, biblioteche, soldi agli scrittori. Ecco come si muove l'Europa.

Sebastiano Triulzi

"La Repubblica", 26 febbraio 2013

Appena nata la piccola Amy MacDonald di Edimburgo riceve un pacco con due libricini cartonati, un cd e una guida che spiega ai suoi genitori quanto è importante leggere al proprio bambino. Ne riceverà un altro al compimento dei diciotto mesi, poi a tre anni e infine a cinque, nelle fasi cruciali del suo sviluppo. Oltre a quella di Amy, altre 240mila famiglie in Scozia ricevono questi doni: il mittente è lo Scottish Book Trust, una fondazione che gestisce tre milioni di sterline l’anno e che ha in piedi oltre trenta progetti simili. Spostandoci di qualche centinaio di chilometri, a Manchester ad esempio, nella casa dove muove i suo primi passi William Smith, apprendiamo che durante la visita dell’assistente sanitario a domicilio questi gli ha consegnato una borsa viola con matite colorate, libri e una sterlina per comprarne uno in libreria. Lo stesso accade ad altri tre milioni di bambini in Inghilterra, per tre volte fino ai quattro anni: il programma è gestito dal Book Trust inglese e fa parte di un disegno mirato a sviluppare l’amore per le storie e per la poesia.
Nel resto d’Europa cambia il nome di queste iniziative, non il senso: è così in Germania, dove l’invio di kit con libri si chiama Lesestart (“Iniziare a leggere”); è così in Svezia, dove 4 milioni e mezzo di euro vengono destinati alla promozione della lettura, soprattutto con finanziamenti alle biblioteche dei bambini. Questo tipo di strategia in Italia non esiste. Ci sono sì progetti, affidati però a iniziative di qualche regione virtuosa, associazioni, università o docenti di scuola, ma manca un centro che pianifichi, che abbia chiari direzione e fini da perseguire. La promozione della lettura in Europa, determinata dal calo dei lettori, è solo uno degli architrave del welfare per la cultura, verso cui s’è levata qualche voce critica (Marc Fumaroli per la Francia o gli autori di Kulturinfarkt, edito da Marsilio), ma la sostanza è che accanto al finanziamento del sistema educativo o di istituzioni artistiche si cerca di creare condizioni favorevoli alla fioritura delle arti. Gli esempi sono molteplici.
L’1 per cento del Pil della Norvegia è destinato alla pittura, alla musica e alla letteratura, e dal conteggio sono escluse università e scuola: spinto dalla necessità di difendere una lingua parlata da cinque milioni di persone, lo Stato stipendia i suoi scrittori per tre o cinque anni (23mila euro all’anno) e compra mille copie di ogni prima edizione e cinquecento di quelle per bambini. In questo modo sottrae gli autori alle logiche commerciali del mercato, lasciandoli liberi di sperimentare. L’Olanda è invece terra di fondazioni che ogni anno devono rendere conto dei soldi spesi e ogni quattro presentare un piano per la cultura: oltre all’art. 22 della Costituzione, che sancisce il sostegno alla cultura, si devono attenere al “principio di Thorbecke”, un padre fondatore della nazione, secondo cui «il governo non è giudice della scienza né dell’arte». Per il 2013 i finanziamenti alla cultura ammonteranno a 700 milioni di euro, duecento in meno rispetto al passato: poco più di una decina vanno alla fondazione per la letteratura che fornisce sussidi per scrivere romanzi e poesie, oltre che per traduzioni. Ne hanno beneficiato anche Tommy Wieringa, Gerbrand Bakker o Kader Abdolah: la borsa arriva a ventimila euro per chi la richiede la prima volta, fino a cinquantamila se sta già alla terza domanda e se si prevede che il lavoro durerà quattro o cinque anni. Il successo di vendite non è un parametro per l’erogazione dei fondi.
A livello europeo, l’Olanda occupa il terzo posto tra i Paesi che leggono di più dopo la Germania e la Finlandia: nonostante questo dato tra il 2012 e il 2015 circa 20 milioni di euro verranno utilizzati in Germania per l’istruzione di base degli adulti. Il bilancio federale tedesco per la cultura aumenterà ancora quest’anno, nell’ordine dell’8 per cento, superando di gran lunga i 10 miliardi di euro, per un settore che impiega 950mila persone fatturando 135 miliardi l’anno. I soldi agli scrittori e agli artisti non sono considerati un sussidio bensì un investimento: nei prossimi cinque anni 380 milioni di euro serviranno a sostenere le discipline umanistiche, e a parte sono da considerarsi spese come quelle per le competizioni tra i giovani studenti o per la promozione del talento individuale.
Accanto all’opera delle fondazioni in Germania esiste anche una assicurazione sociale per chi vuole vivere scrivendo, che garantisce una pensione, l’assistenza sanitaria gratuita e un reddito individuale minimo: i contributi sono pagati in gran parte sia dal governo federale che dagli stessi artisti, per cui l’industria culturale ha un beneficio nell’assumere scrittori e giornalisti.
Il regime fiscale è ancor più vantaggioso in Francia per i datori di lavoro degli autori iscritti all’Agessa (Association pour la gestion de la sécurité sociale des auteurs), la quale assicura protezione sociale e sanitaria. Enti, comuni e dipartimenti francesi erogano poi borse di residenza, per periodi limitati ma quasi mai inferiori ai 2.000 euro al mese, legati a progetti di ricerca o di scrittura: per quest’anno il budget annuale del ministero della Cultura, che si aggira sui 2 miliardi e mezzo di euro e del quale non fa parte l’Educazione, verrà tuttavia decurtato di un 4,5 per cento. In Danimarca il sostegno pubblico agli scrittori raggiunge la cifra di 6,6 milioni di euro, un sostanzioso obolo viene prelevato dalle scommesse sportive e dalla lotteria nazionale: il primo parametro per potervi accedere è l’aver pubblicato senza autofinanziarsi. Gli autori considerati di valore nazionale percepiscono uno stipendio per tutta la vita.
Una delle sovvenzioni più efficaci passa attraverso le biblioteche, o con l’acquisizione di volumi (la Danimarca versa 23 milioni l’anno), o calcolando le remunerazioni in base al numero di volte in cui i libri vengono presi in prestito (in Svezia c’è un fondo apposito, in Francia il Centre National du Livre). Un altro aiuto è ampliare la base di possibili lettori stanziando soldi per le traduzioni all’estero: case editrici come Iperborea, Guanda o Einaudi (e tante altre), si sono avvalse di tale appoggio, collaborando non solo con danesi o olandesi ma anche di recente con i rumeni. Il Kulturradet svedese accetta ogni anno 130 domande con la richiesta di contributi, per un esborso di tre milioni di corone (circa 350 mila euro): le priorità sono l’introduzione di un autore in un nuovo mercato e l’aiuto ai più giovani. Questo sistema è a monte, ad esempio, del successo dei giallisti svedesi in Europa.
Le buone pratiche sono figlie di solito della creatività: con i suoi 60 milioni di euro, in aumento rispetto al 2012, l’Arts Council irlandese dà vita a programmi tradizionali, quali seminari e letture in carcere (pagati fino a mille euro), viaggi professionali o residenze all’estero (ottomila euro); e ad altri più funzionali, quali la formazione del personale delle organizzazioni artistiche o stipendi a breve termine (15 mila euro l’anno) per poter pensare e impegnarsi nel lavoro di scrittura. Lo Scottish Book Trust organizza con la Bbc un programma televisivo sui libri che viene trasmesso in streaming nelle scuole ed è stato visto da 400mila bambini; mentre ai giovani autori scozzesi viene offerto un supporto economico di 2.000 sterline e la possibilità di trascorrere nove mesi con uno scrittore famoso, per apprendere i ferri del mestiere come una volta accadeva nelle botteghe dei pittori.
Già da dieci anni Literature Wales guida un progetto formativo che seleziona squadre di giovani scrittori e li manda a lezione da autori riconosciuti e insegnanti di scrittura creativa; il più interessante tra i programmi gallesi vede coinvolti poeti, rapper, romanzieri e musicisti che lavorano con ragazzi provenienti da aree disagiate (Swansea, Rhyl, Cardiff, Wrexham). L’aiuto agli scrittori in erba o ai lettori avviene anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie: chi vuole può chiedere per qualche mese consigli a Matt Haig, che risponde e posta messaggi sul blog del sito del Book Trust inglese. Mentre in Italia si discute se debba esserci o meno un ministero della Cultura, senza toccare il problema di fondo, cioè che sia garantito un egualitario diritto alla cultura, in una parte d’Europa la creatività, la diversità o la qualità artistica vengono considerate parte integrante dello sviluppo della società.

Dirac, l’uomo che inventò l’antimateria

Cent’anni fa nasceva la teoria dei quanti


A mettere d’accordo Bohr e Einstein fu lo scienziato “più strano del mondo”
Nel Big Bang secondo l’equazione di Dirac potrebbero essere nati due universi, 
uno di materia e uno di antimateria

Piero Bianucci

"La Stampa",  26 febbraio 2013

Prima lo scenario. L’idea moderna di atomo ha cent’anni. Nel 1913 il danese Niels Bohr lo immaginò come un minuscolo sistema solare: il nucleo al centro come il Sole, gli elettroni intorno come i pianeti. L’anno prima Rutherford aveva scoperto che il nucleo, pur contenendo quasi tutta la massa dell’atomo, è piccolissimo: se fosse un granello di sabbia al centro della piazza di San Pietro, gli elettroni girerebbero alla distanza del colonnato. Tutti i pianeti pesano un millesimo del Sole. Gli elettroni, rispetto al nucleo, hanno una massa ancora più trascurabile: l’atomo è fatto soprattutto di vuoto.
Le regole del microcosmo sono scritte nella meccanica dei quanti. Per noi abituati alla meccanica di Newton, che si applica non al micro ma al macrocosmo, è una teoria incredibile e stravagante. Nessuno l’ha capita fino in fondo. Eppure funziona meglio di qualsiasi altra teoria ed è precisa fino all’undicesima cifra dopo la virgola. Nella meccanica dei quanti le particelle si comportano ora come corpuscoli ora come onde. Nel 1905 Einstein interpretò la luce come un flusso di corpuscoli che chiamò fotoni. Ne ricavò il premio Nobel nel 1921 e di lì derivarono il laser, i led, le celle fotovoltaiche e un sacco di tecnologie che usiamo tutti i giorni. Ma in varie circostanze la luce si capisce meglio se la pensiamo come un’onda. La cosa strana è che la luce, come ogni altra radiazione elettromagnetica, può essere prodotta solo a pacchetti di entità definita, chiamati appunto «quanti». È come se la birra potesse esistere solo in pinte, non in gocce o in barili. Questa scoperta, senza accorgersene, l’aveva già fatta il fisico tedesco Max Planck nel 1900.
A completare le bizzarrie, nel 1926 Heisenberg aveva stabilito che di una particella, proprio perché è un po’ corpuscolo e un po’ onda, non si può conoscere con la stessa precisione l’energia e la posizione. Per misurarne l’energia occorre rinunciare a localizzarla bene e per localizzarla bene si perde informazione sull’energia: è il famoso principio di indeterminazione. Ne consegue che i fenomeni del microcosmo sono probabilistici e che è l’osservatore con la sua osservazione a definirli. La faccenda si riassume nell’esperimento ideale del «gatto di Schroedinger». È un gatto dalla salute precaria: prima che l’osservatore lo osservi, non è né vivo né morto, si troverebbe in uno stato misto vivomorto... In questo scenario irrompe Paul Dirac, l’Uomo più strano del mondo, stando al titolo della sua biografia scritta da Graham Farmelo appena pubblicata da Raffaello Cortina. Nato nel 1902, alto ed esile, timido con le donne e ruvido con gli uomini, Dirac amava i valzer di Chopin, leggeva Topolino, rideva ad algide barzellette, ammirava le forme della cantante Cher (prima che eccedesse con la chirurgia plastica), La sua teoria gravitazionale valida per il macrocosmo non si applica alla realtà subatomica parlava a monosillabi, si curava con farmaci omeopatici (ciò contribuì alla sua morte nel 1982), ma soprattutto fu un genio della fisica quantistica.
Bohr e Einstein – onde e particelle – erano separati in casa. Nel 1930 Dirac riuscì a dare una descrizione degli elettroni mettendo d’accordo meccanica dei quanti e relatività di Einstein, teorie che fino ad allora sembravano inconciliabili. L’equazione finale contiene una sorpresa: non ha una soluzione ma due, entrambe giuste pur essendo l’una il contrario dell’altra. In matematica è normale: la radice quadrata di 25 può essere sia +5 sia -5. Ma nella realtà come vanno le cose? Quella equazione, premiata con il Nobel nel 1933 e ora incisa nell’abbazia di Westminster accanto alle tombe di Newton e di Darwin, contiene la scoperta dell’antimateria. La prima soluzione corrisponde all’elettrone, la particella con carica elettrica negativa che ben conosciamo e che fa funzionare i nostri mille apparecchi elettronici. La seconda soluzione, con il segno invertito, corrisponde a una particella identica all’elettrone ma con carica elettrica opposta: un anti-elettrone poi chiamato positrone. Non stiamo parlando di scienza lontana dalla vita quotidiana. Oggi la tomografia a emissione di positroni è una tecnica diagnostica usata in ogni ospedale ben attrezzato.
Il positrone fu il primo mattone dell’anti-mondo. L’equazione di Dirac dice infatti che ogni particella ha la sua antiparticella. Dunque alla materia «comune» di cui siamo fatti e che ben conosciamo corrisponde una antimateria che è un po’ come la sua immagine riflessa in un specchio. Lo specchio inverte destra e sinistra, tra materia e antimateria si inverte la carica elettrica. Potrebbero quindi esistere anti-Terre, anti-stelle, anti-galassie: guardandole al telescopio e studiandole con ogni mezzo oggi a disposizione, non avremmo modo di distinguerle. Nel 1932 Carl Anderson scoprì il positrone nei raggi cosmici. Quanto all’antiprotone, lo staneranno Emilio Segré e Chamberlain nel 1955 (Nobel 1959). Oggi al Cern si fabbricano anti-atomi di idrogeno a decine di migliaia. Capire se abbiamo a che fare con antimateria è semplice ma pericoloso: basta metterle a contatto. Materia e antimateria si annientano in una spaventosa esplosione. È la reazione nucleare più potente che ci sia. Tutta la massa si trasforma in energia, non soltanto lo 0,7 per cento come accade nella bomba H!
Perché un genio come Dirac fu anche «l’uomo più strano del mondo»? Il suo segreto è una malattia. Non la Tbc a un rene che lo uccise, ma l’autismo annidato nella sua mente. Il disturbo autistico fece di lui un isolato, donandogli però una eccezionale capacità di astrazione e il gusto assoluto della bellezza matematica. «Dirac presenta la meccanica quantistica come un’opera d’arte perfettamente levigata», ha detto un altro grande fisico, Freeman Dyson. Il vero mistero di Dirac riguarda la fede. Per il decano di Westminster fu un ateo militante. Eppure nel 1971 aveva messo la domanda «C’è un Dio?» tra i cinque interrogativi più importanti della fisica contemporanea e la moglie Manci sulla sua tomba fece incidere la frase: «Perché Dio ha detto che doveva essere così».

martedì 26 febbraio 2013

Cerco DFW in California


PAOLO GIORDANO



Reportage letterario

Da San Francisco a Los Angeles per scoprire quanto manca David Foster Wallace. Leggere le sue opere può ispirare tanto quanto leggere su di lui, come se alcune molecole del suo genio continuassero a fluttuare nell’aria che respiro

"La Repubblica",  24 febbraio 2013

Il tempo meteorologico a San Francisco è incerto, meno clemente di quanto avevo sperato: scrosci di pioggia si alternano a schiarite della stessa brevità—soltanto il vento umido è incessante. Mi trovo costretto a indossare uno sull’altro i vestiti primaverili che avevo previsto per la vacanza, realizzando che un giaccone invernale non è equiparabile alla somma di un qualsivoglia numero di strati estivi. Per di più, la città è spopolata durante il coprifuoco postnatalizio. Percorro a piedi i saliscendi da Marina a North Beach con una sensazione di libertà che si alterna a un’altra di smarrimento: la mancanza di scopo di chi è rimasto chiuso fuori casa.
La City Lights è tra i pochi negozi aperti, il che conferma in larga parte l’impressione che si tratti ormai di un feticcio per turisti più che di una vera libreria. Ma poco importa: è straordinariamente bella, rifornita e silenziosa (come se i decametri di scaffali in legno assorbissero ogni suono), e la disposizione dei libri suggerisce la chiarezza mentale di chi l’ha concepita, senza rivelarne a fondo il piano. 
David Foster Wallace mi scruta dall’alto, dalla copertina di un volume posizionato in modo che
la sua facciona tenga d’occhio gli avventori. La fotografia traslucida è una delle poche in cui sorride e il libro si rivela essere una sua biografia postuma, redatta da tale D. T. Max. «Prendila, t’interessa » suggerisce la mia compagna, che deve avermi visto trasalire. «No — ribatto io —, no, no». Il punto è che mi ero prefissato esplicitamente, dopo il suicidio di DFW nel settembre del 2008, che non avrei ceduto alla tentazione di leggere alcuna sua biografia, così come non avrei considerato le pubblicazioni di lavori che lui non aveva autorizzato—avevo assistito a uno sciacallaggio simile nei confronti di Jeff Buckley finché, a forza di acquistare dischi con versioni pessime delle sue poche canzoni, mi ero quasi disamorato di lui. 
Una citazione di David Foster Wallace inserita nell’installazione 
dell’artista finlandese Mikko Kourinki (1977), «Wall Piece with 
200 Letters» (2011, Helsinki, Kiasma Museum)

Nel momento in cui mi trovo alla City Lights di San Francisco — 26 dicembre 2012 — sono già venuto meno al secondo dei miei propositi (ho letto e riletto quanto emerso dagli svariati e impietosi carotaggi dell’opera di DFW), ma il diktat sulla biografia è ancora solido. Si tratta di una questione di principio, deontologica quasi, oltre che della paura di vedermi sgretolare un idolo davanti agli occhi: il punto è che ogni narratore devolve una parte gigantesca delle proprie energie e del proprio tempo a trovare per ogni opera che produce — per ogni singola riga di ogni singola opera che produce — il giusto livello di trasposizione della sua storia personale: essere troppo avari di sé si traduce quasi sempre in freddezza, in sostanziale disinteresse verso la materia; eccedere comporta altri rischi più gravi, fra cui ossessività, autocommiserazione (quasi sempre di matrice freudiano-regressiva) e dissapori, se non proprio pasticci legali, con parenti o amici intimi. Negli ultimi anni della sua vita, poi, DFW sembrava impegnato a esplorare proprio il pernicioso confine fra privato e finzione letteraria. Nel romanzo a cui stava lavorando e che non avrebbe terminato, Il re pallido, compare fra gli altri un personaggio di nome David Wallace, con tanto di Social Security Number, l’omologo del nostro codice fiscale. È plausibile che nell’epoca d’oro del mémoire DFW volesse smontare il giocattolo dell’ultimo modello d’intrattenimento e guardarci dentro, scoprire quali insicurezze si celavano dietro tanta morbosità da parte del pubblico e una così favorevole disposizione a denudarsi da parte degli autori. Ovviamente, il mémoire che aveva a sua volta imbastito non era che la parodia di un racconto autobiografico, un resoconto che, nella pretesa esasperata di dichiararsi vero, non faceva altro che mostrare in continuazione la propria falsità strutturale. Che rispetto dimostrerei a DFW e alla sua ricerca, acquistando una biografia postuma che fa piazza pulita di tutti i filtri metanarrativi e se ne infischia del giusto-livello-di-trasposizione? Esco dalla City Lights con una copia della biografia di D. T. Max stretta fra il gomito e il fianco (titolo: Every Love Story Is a Ghost Story). Ho comprato anche una vecchia raccolta di Alice Munro, Runaway, per attenuare il senso di colpa. 
A Carmel-by-the-Sea inizio la lettura. Non c’è molto altro da fare in questa cittadina benestante.
La descrizione dell’albergo aveva promesso una piscina riscaldata, che si è rivelata uno stagno dal colore sospetto, e comunque piove. Dalla finestra, oltre la coltre di alberi, balugina un oceano appena più chiaro del cielo. Forse non è soltanto morbosità. Forse è più semplice e anche più limpido di così. La verità è che DFW mi manca. E mi manca con un’intensità maggiore di quella con cui mi mancano, per dire, certe persone in-carne-e-ossa scomparse in modi altrettanto improvvisi/cruenti dalla mia vita, tanto che mi trovo spesso a fantasticare su forme strane di metempsicosi, nelle quali alcune molecole aeree del suo genio e della sua umanità fluttuano attraverso l’atmosfera fino a me, che le inalo, e diventano mie — e lui diventa me. Tutto ciò suona un po’ vergognoso, ad ammetterlo. Ma la disponibilità a innamorarsi dell’irreale tanto quanto del reale mi è sempre apparsa come una premessa essenziale della narrativa. Può darsi si tratti, più precisamente, di un disturbo, una sorta di ametropia del sentimento, per la quale non si riesce a focalizzare esattamente gli oggetti nel campo dell’affetto, a collocarli in profondità secondo quello che si presume l’ordine giusto. 
DFW mi manca, sì, mi manca il suo essere-nel-mondo, quindi escogito dei modi per averlo vicino, e l’ultimo che mi si è offerto è questa biografia. Come per i Grandi Amori Romantici, esiste un’età favorevole anche per i Grandi Amori Letterari, e DFW è capitato al centro della mia più fertile: avevo diciotto anni. Le passioni che si instaurano in quella fase tardoadolescenziale, quando il magma della personalità inizia a solidificare, diventano i miti fondanti del nostro carattere culturale, ci restano addosso, ostinate e prive di senso, come quelle cisti sebacee che capita facciano la loro comparsa in punti imprevisti del corpo. Di passioni-cisti io ne avevo una miriade oltre a DFW e al già citato Jeff Buckley: certe serie televisive più strappalacrime del sopportabile come The OC, Tori Amos, Chuck Palahniuk, i frozen cocktail, Kirsten Dunst, il Natale in famiglia, Bret Easton Ellis... Spinto da una voglia iconoclasta di rinnovamento, verso i ventisei anni le sottoposi tutte quante a un check-up severo, casomai nel frattempo qualcuna fosse diventata maligna o invalidante. DFW ha superato il test, Chuck Palahniuk no, ma adesso mi chiedo se dopotutto fosse così necessario e salubre tentare di sbarazzarsi di tutte quelle passioni, magari un po’ ossidate, magari ormai poco rappresentative, che quando ero ancora semiliquido mi fecero palpitare.
È davvero questa la via della nostra realizzazione di adulti, toglierci dal naso tutte le lenti deformanti che da ragazzi ci facevano ingigantire o mortificare gli oggetti (sentimentali) che si offrivano alla nostra considerazione? O questa smania di aggiornare anche i nostri affetti è solo l’ennesima lente deformante che poniamo in cima alle altre?
Ecco il genere di domanda sulla quale DFW avrebbe facilmente costruito un racconto ricorsivo 
di venti o più pagine: la storia di un ragazzo che, nel tentativo di guardare con onestà a ciò che ne è ormai dei suoi amori del passato, fa del suo meglio per massacrarli, con il risultato di aumentarne sempre di più il valore mitico e quindi l’indistruttibilità. Ogni volta che nelle storie di DFW compare qualcosa di analogo a una minuscola cisti sebacea, puoi stare certo che quella cisti si accrescerà — proprio nel tentativo di estirparla— fino a sfigurare l’intero organismo. Tutte le serie ricorsive costruite da DFW sono altamente divergenti, la direzione è sempre quella dell’aggravarsi perpetuo cosicché, una volta avviate, possono essere interrotte solamente da un atto esterno, violento, qualcosa di simile a ciò che ci succede quando il nostro computer «va in palla» e inizia a presentare con insistenza lo stesso messaggio poco comprensibile di errore, accompagnato da quel suono che ha qualcosa di apertamente accusatorio, e noi ci rendiamo conto che non siamo in grado di fermare quanto sta succedendo, che siamo del tutto inermi e fra un attimo lo schermo potrebbe ricoprirsi di lettere e numeri o diventare inesorabilmente blu, quindi premiamo con forza il pulsante Power e se neppure quello funziona stacchiamo la spina dalla presa di corrente, percorsi— noi, non più il computer—da una scarica elettrica di terrore. La sola via d’uscita dalle ricorsività di DFW è lo spegnimento, che in certi casi estremi, come quello del manipolatore seriale protagonista del racconto Caro vecchio neon o in quello assai più realista della sua vita, coincide con la morte — con il suicidio. 
A diciotto anni, il modo di procedere di DFW mi colpì come un esercizio di onestà dissacrante
e perfetto, il genere di demistificazione che andavo cercando in quegli anni di solidificazione-del-magma-della-personalità. Il senso tragico che stava alla base dei suoi ragionamenti si accostava bene con quello residuale della mia adolescenza; lo sfoggio di intelligenza, poi, era proprio il traguardo che mi ponevo a quel punto. Tutto questo stabilì la nostra affinità segreta — quasi ultraterrena —, indusse la crescita della mia passione-cisti più che per qualunque altro scrittore mi fosse capitato di leggere fino a quel momento. 
E, anni dopo, rese il suo suicidio doloroso quanto un tradimento personale. 
Nel suo pseudo-mémoire, oltre al codice fiscale, DFW aveva riportato per intero anche il suo indirizzo. Durante un’incursione dentro una Books Inc. ho ritrovato la pagina dove è scritto e l’ho ricopiato sul retro di un ticket di parcheggio: 725 Indian Hill Bldv., Claremont. Obbligo i miei compagni di viaggio a seguirmi in quel pellegrinaggio un po’ macabro attraverso la periferia senza fine di Los Angeles. Non protestano neppure, devono ormai avere capito quanto la questione sia importante e controversa, ad altissimo rischio di scontro verbale.
Arriviamo a Claremont al crepuscolo. L’aria si è rinfrescata di colpo. Le aiuole nello spartitraffico di Indian Hill Boulevard sono tutte fiorite, incredibilmente curate. La casa al numero 725 non ha nulla in più o in meno delle altre, soltanto il portone del garage—il garage dove DFW si è ucciso— mi colpisce per la sua larghezza, ma può darsi che si tratti di una suggestione. Nel cortile c’è un albero di Natale composto di sole palline, un cono da cui fuoriesce un cavo della corrente — l’albero è spento. Sul lato opposto due limoni e un mandarino sono carichi di frutti. Il prato è stato sistemato da poco, come tutti quelli del circondario, intravedo ancora i segni paralleli del tosaerba. Avanzo di qualche passo, violando la proprietà privata e l’intimità degli sconosciuti che ora vivono qui. I miei compagni di viaggio si sono allontanati, come per rispetto. Vorrei compiere qualche gesto simbolico, magari rubare un sasso dall’acciottolato che corre lungo il marciapiede, ma sono ancora abbastanza in me per desistere. Tocco solo uno dei limoni e poi m’incammino verso la macchina. 
Prima di salire faccio la pipì contro un acero, di fretta: è il genere di quartiere dove temi possano arrestarti per avere urinato contro un tronco. Il giorno seguente, dentro il parco di Joshua Tree, mi perdo di nuovo nelle fantasticherie di metempsicosi. L’atmosfera del luogo contribuisce in larga parte: un deserto roccioso dove la notte—puoi scommetterci—gli arbusti così distanziati parlano l’uno con l’altro, al riparo da sguardi umani. La natura qui sembra in uno stato di quiescenza, pronta a ritornare quella prospera che era un tempo. Inizio a pensare ai joshua tree e ai cactus e alle palme giganti come a incarnazioni di morti, la cui forma specifica dipende dalle qualità possedute in vita. L’albero che attribuisco a DFW è un’impalcatura di tronchi e rami spogli, con la corteccia elegantemente attorcigliata su se stessa, un albero che non ho mai visto dalle nostre parti, complicato eppure razionale contro il cielo azzurro. Mi faccio scattare una foto lì accanto, poi cerco di rubargli l’energia, abbracciandolo: conosco persone che con gli alberi fanno così.
Ciò che devo ammettere lungo la strada di ritorno verso Palm Springs, e con un po’ di delusione per me stesso, è che leggere DFW mi ispira almeno quanto leggere di DFW. Seguire le sue vicissitudini mi suscita la stessa irreprensibile voglia di sedermi alla scrivania e di scrivere a profusione, come avvenne dopo La scopa del sistema quando, senza premeditazione alcuna, mi avventurai nei miei primi goffi racconti. E non è soltanto questo: DFW — i suoi libri e, scopro ora, anche i libri che parlano di lui — mi spingono a scrivere come lui, con una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più esercitato su di me. Dev’essere per via di quella sua spacconeria irritante e così fascinosa, della sua smania di essere a tutti i costi più lungo, digressivo e interconnesso di quanto sia davvero necessario, della sua esigenza di attraversare sempre tutti i livelli di profondità di un fenomeno fino a sbattere il sedere contro il cemento armato dell’unica verità fondamentale sottesa a tutti: la consapevolezza, in questo mondo, di essere soli e irraggiungibili. 
Sul volo San Francisco-Zurigo dove con ogni probabilità contraggo l’influenza virale con complicazioni urinarie che mi terrà a letto nei successivi quattro giorni, termino di leggere Every Love Story Is a Ghost Story. Nelle ultime pagine si avverte l’imbarazzo di D. T. Max nel fare i conti con il suicidio di DFW. Il biografo sceglie la via più sobria: poche frasi di storia medica, molto nette, che accreditano in pieno la tesi della cessazione volontaria del Nardil da parte di David dopo anni di trattamento, e del suo conseguente tracollo. Il finale lo conoscevo già, eppure ha il potere di annientarmi. Complice il jet-lag, la prima notte a casa non mi addormento fino alle cinque del mattino. Ho una sola consolazione in mezzo al fluire dei pensieri: sembra che la casa di DFW che ho visitato non fosse davvero quella dove si è tolto la vita. Dopo essere vissuti in affitto al 725 di Indian Hill Blvd., lui e la moglie ne acquistarono un’altra non troppo distante. Il portone del garage che ho visto era solo un normale portone di garage, dal quale DFW è entrato e uscito insieme ai suoi cani. Saperlo è abbastanza per farmi sentire meglio.

Di David Foster Wallace (1962-2008) sono stati ripubblicati presso Einaudi Stile libero i romanzi «La scopa del sistema» e «Infinite Jest» (già uscito presso Fandango), le raccolte di racconti «Brevi interviste con uomini schifosi», «Oblio» e «Questa è l’acqua», la collezione di saggi «Considera l'aragosta». Nel 2011 sono usciti il romanzo inedito e incompiuto «Il re pallido», sempre presso Einaudi, e «Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito», presso Codice edizioni. Nel 2012 Einaudi ha pubblicato la nuova edizione di «La scopa del sistema» (Super ET) e «Il tennis come esperienza religiosa» (Stile libero). Presso Minimum fax è uscito «La ragazza dai capelli strani» (2003) e il reportage «Una cosa divertente che non farò mai più» (2001).

Il testo che pubblichiamo di Paolo Giordano compare, in forma di saggio più ampio, nel numero 61 di «Nuovi Argomenti» che sarà in libreria dal 12 marzo 2013. Per il sessantesimo anniversario della rivista è prevista una nuova veste grafica e il lancio di un sito web.

La fabbrica del genio


Cina-Usa. La corsa al cervello perfetto
È l’ultima sfida tra super potenze. Usa e Cina alla conquista del cervello umano. Costruito in laboratorio. Con qualche rischio

Federico Rampini

"La Repubblica",  25 febbraio 2013

È l’equivalente della gara nello spazio che appassionò il mondo negli anni Sessanta e Settanta. Allora Stati Uniti e Unione sovietica si contendevano il primato nelle esplorazioni astronautiche. Le due superpotenze di oggi, America e Cina, si sfidano per la conquista di uno spazio molto più vicino: il cervello umano. Uno dei frutti di questa competizione potrebbe essere una Fabbrica dei Geni. La costruzione in laboratorio di super-cervelli: non computer, esseri umani. Il sogno del Superuomo è a portata di mano, con tutte le angosce e le controversie etiche che questo può sollevare. Non è un caso che nella stessa settimana siano uscite qui in America due notizie. Da una parte, Barack Obama ha annunciato “The Brain Activity Map”, piano decennale per la mappatura del cervello umano. È un progetto che ricalca da vicino la ricostruzione del genoma umano, ma applicato alla nostra materia grigia. Ed è il più ambizioso piano federale per la ricerca scientifica che venga lanciato da molti decenni a questa parte. Incorpora altri sforzi già avviati da tempo, come lo Human Connectome Project (Harvard e Washington University) che studia le “autostrade neuronali” e tutte le connessioni a livello cellulare che sono l’architettura portante dell’attività cerebrale. In contemporanea, il Wall Street Journal ha svelato il progetto cinese per scoprire «la chiave genetica dell’intelligenza», andando a esplorarne il centro di ricerca di avanguardia. È un laboratorio pubblico-privato con sedi a Hong Kong e Shenzhen.
Lo dirige un enfant prodige della biogenetica, il ventenne Zhao Bowen, che è già stato definito «il Bill Gates cinese». L’organizzazione più direttamente coinvolta è la Bgi, azienda privata ma che tra i suoi azionisti ha diversi enti di Stato compreso il governo del Guangdong (la più ricca provincia della Repubblica Popolare). In un solo laboratorio di Hong Kong, descritto nell’inchiesta del Wall Street Journal, un centinaio di super-computer con software specializzati per ricostruire la sequenza dei geni, sono al lavoro su 2.200 campioni di Dna. Tutti prelevati da individui con un’intelligenza fuori del comune. Dal mondo intero. Il criterio di selezione per quei campioni di Dna è semplice: i “donatori” devono avere un “QI” (quoziente d’intelligenza) superiore a 160. Per capire quanto l’asticella sia stata messa in alto dai ricercatori cinesi, basta ricordare che il quoziente d’intelligenza medio è fissato a quota 100 per la popolazione mondiale. La media dei premi Nobel è a quota 145. Un QI a 160 si riscontra solo su un individuo ogni 30mila abitanti del pianeta.
La finalità del progetto cinese è chiara: scoprire i fattori genetici che spiegano queste intelligenze al di fuori del comune. E naturalmente non si tratta di una curiosità fine a se stessa. Una volta individuato «il Dna del genio», si apre la sfida successiva: come sfruttarlo, identificarlo prima della nascita, eventualmente replicarlo in provetta? Ecco la Fabbrica dei Geni. Naturalmente non mancano le obiezioni. Una volta messo a punto il “kit” per la diagnosi precoce delle intelligenze superiori, andremo verso una società sempre più gerarchica e ineguale, con percorsi di carriera riservati fin dalla nascita ai cervelloni? Chi può impedire che di queste informazioni s’impadroniscano le aziende a fini di reclutamento, selezione del personale? Prima ancora di arrivare sul mercato del lavoro, sarà il sistema scolastico e universitario a rimodellarsi secondo “classi differenziate”, velocità di apprendimento pre-determinate in base alla genetica?
Non è un caso che la Fabbrica dei Geni stia vedendo la luce in Cina: una società che ha portato fino alle estreme conseguenze la visione darwiniana applicata all’economia, la competizione sfrenata per il successo economico, la meritocrazia esasperata nelle università. La selezione della specie nel capitalismo cinese si sposa con un’antica cultura delle gerarchie etniche, il razzismo verso le minoranze. Ma la Fabbrica dei Geni della Bgi, a cavallo tra Hong Kong e Shenzhen, non è un progetto esclusivamente cinese, tutt’altro. Attira attenzione e risorse anche dalla superpotenza rivale. Agli americani fa comodo poter delocalizzare delle ricerche genetiche ad alto tasso di controversia, in un paese come la Cina dove ci sono meno controlli, meno remore etiche, zero resistenze religiose (è già accaduto qualcosa di simile per la ricerca sulle staminali). Così la Fabbrica dei Geni si avvale della collaborazione di uno scienziato fisico cino-americano, Stephen Hsu che si è formato alla University of Oregon e ora dirige tutte le attività di ricerca alla Michigan State University. Un altro scienziato occidentale coinvolto in quel progetto è Robert Plomin, studioso di “genetica del comportamento umano” al King’s College di Londra.
Grazie a loro, i campioni di Dna usati nel laboratorio di Hong Kong non sono soltanto cinesi. I migliori quozienti d’intelligenza dell’Occidente sono ben rappresentati nella campionatura genetica. Per la parte cinese, Zhao Bowen ha attinto soprattutto ai giovani che partecipano annualmente alle “Olimpiadi di matematica” organizzate nel suo paese. Il Professor Plomin del King’s College ha raccolto campioni di Dna negli Stati Uniti attraverso un progetto chiamato “Study of Mathematically Precocious Youth” che da quarant’anni va a caccia dei piccoli geni della matematica fin dalla più tenera infanzia. Il professor Hsu a sua volta ha lanciato appelli per reclutare donatori volontari in varie istituzioni: tra i dipendenti di Google, al California Institute of Technology, all’Accademia delle Scienze di Taiwan. È importante che il materiale genetico raccolto sia molto vasto. Gli scienziati coinvolti in questa ricerca pensano che si debba partire almeno da diecimila individui per ottenere risultati affidabili.
Di fronte alla Fabbrica dei Geni cinesi, com’è stata svelata al pubblico dal Wall Street Journal, un’obiezione forte è stata espressa dallo scienziato Jeremy Gruber a nome del Council for Responsible Genetics di Cambridge, associazione che “vigila” sull’etica della ricerca. Secondo Gruber «il mondo della genetica è tuttora dominato da tendenze di pensiero deterministiche», c’è quindi il rischio che la ricerca sull’intelligenza si traduca in forme di discriminazione. I fautori della Fabbrica dei Geni non la pensano così, e sottolineano l’aspetto opposto: per esempio la possibilità di individuare precocemente attraverso i test genetici quei bambini che hanno difficoltà di apprendimento, per dedicargli attenzioni e metodi pedagogici adeguati.
Un’obiezione più fondamentale riguarda la misurazione del genio: i test sul quoziente d’intelligenza sono stati più volte contestati, la loro validità universale incontra molti detrattori. Forme di genio artistico e letterario rischiano di sfuggire a una misurazione che sembra dominata dalla dimensione scientifico- matematica. Il piano di Obama da questo punto di vista è più rassicurante. La mappatura del cervello umano annunciata dalla Casa Bianca, si prefigge in partenza degli importanti obiettivi medici. La cura del Parkinson e dell’Alzheimer, figura tra le priorità individuate dal presidente. Con una longevità media che continua ad allungarsi, “far durare” un cervello sano diventa un problema di massa, che ha ricadute sociali ed economiche di grande importanza. Prevenire le malattie cerebrali più distruttive, o allevare eserciti di intelligenze superiori? La sfida per la conquista della materia grigia è appena cominciata.


Gaetano Morelli, numero uno italiano per quoziente intellettivo 
(e tra i primi 30 al mondo)
“La superiorità dell’ingegno? Ti aiuta ad ascoltare gli altri”

Elena Dusi

Gaetano Morelli ha 39 anni, vive a Caserta, è laureato in Ingegneria civile e lavora per un’azienda informatica. A giudicare dalla misurazione del suo quoziente intellettivo (169), è fra i trenta uomini più dotati del mondo. E il numero uno in Italia. Non dimentica mai dove ha parcheggiato la macchina, ha scritto un libro divulgativo sulla teoria della relatività, crede in Dio e ritiene che «uno dei segni dell’intelligenza sia il saper ascoltare, rispettando le opinioni altrui». Nella sua ditta si occupa soprattutto di formazione: «Penso di saper spiegare in modo semplice concetti complessi». Ma nella vita quotidiana parla «per il 99% del tempo di calcio, pesca e famiglia».
Secondo lei quanto conta l’ereditarietà dei genitori?
«Penso sia preponderante. L’ambiente stimolante è essenziale per l’intelligenza dei bambini. Ma anche se non saprei dare una percentuale precisa, secondo me la genetica conta di più».
La sua famiglia per esempio?
«Mio padre è un ingegnere elettronico, fece un test per il QI molti anni fa. Non ricordo il valore preciso, ma arrivò nel primo 2% fra i laureati con il massimo dei voti. Suo fratello, un medico, è pure molto in gamba. E così mio nonno. I miei figli hanno 6 e 3 anni e sono ancora piccoli per essere valutati. Vorrei che crescessero prima di tutto in un clima di modestia e umiltà».
Pensa che uomini e donne siano diversi?
«A livello medio no. Potrebbe non essere significativo, ma nei range elevatissimi gli uomini sono la maggioranza»
Come definirebbe l’intelligenza?
«Di certo è un dono da mettere a frutto, non qualcosa di cui vantarsi. E poi ci sono tante intelligenze: quella che ti permette di risolvere problemi di logica, di metterti nei panni degli altri, di afferrare la relazione spaziale fra gli oggetti, di intuire rapidamente il senso delle parole. È un concetto che va molto al di là dei test per misurare il quoziente, ma negli esami migliori le domande sono strutturate in modo molto articolato proprio per cercare di cogliere i vari aspetti dell’intelligenza».
Quali sono le situazioni in cui si sente più avvantaggiato?
«In tutte le circostanze, anche le più banali, usare l’intelligenza aiuta. Se si presta attenzione a come disporre gli oggetti in casa, per esempio, si eviterà di perdere tempo a cercarli. Lo stesso vale per i file nel computer. Nel fare i calcoli a mente l’intelligenza aiuta, ma il legame non è così scontato: molte persone con un QI alto sono in realtà lente. Frequento spesso altri individui molto intelligenti, soprattutto via internet. Facciamo discorsi di fisica, filosofia, letteratura. Mi piace ascoltare le loro idee».
A suo parere il web ci rende più intelligenti?
«Avere così tante informazioni è davvero straordinario: internet rappresenta un balzo in avanti per l’umanità. Però in Rete bisogna usare spirito critico. Quando leggevamo una voce dell’enciclopedia di carta eravamo sicuri che fosse corretta. Sul web non sempre è così».
A proposito di stimoli per sviluppare l’intelligenza, a cosa giocava da bambino?
«Mio padre mi ha insegnato gli scacchi e il bridge quando avevo 4-5 anni. Sfidava noi bambini a risolvere problemi di aritmetica, e io gli chiedevo che ne inventasse di sempre più complicati. Alcuni, quando avevo 6-7 anni, prevedevano già piccoli sistemi di equazioni. Adoravo il Monopoli, e mi divertivo a cambiare le regole per renderlo più articolato. A scuola avevo il massimo dei voti. Per il resto: soldatini, robot, macchinine e imitazioni di Goldrake insieme a mia sorella».

Il pianeta delle disuguaglianze


E’ l’ingiustizia che uccide la democrazia

Nel suo nuovo libro Bauman tratta il tema della ricchezza che non dà benessere
“La corsa al profitto individuale non è un vantaggio per tutti: le disparità crescono”

Zygmunt Bauman

"La Repubblica",  25 febbraio 2013

Uno studio recente dell’Istituto mondiale per la ricerca sull’economia dello sviluppo (World Institute for Development Economics Research) dell’Università delle Nazioni Unite riferisce che nel 2000 l’1 per cento delle persone adulte più ricche possedeva da solo il 40 per cento delle risorse globali, e che il 10 per cento più ricco deteneva l’85 per cento della ricchezza mondiale totale. La metà inferiore della popolazione adulta del mondo possedeva l’1 per cento della ricchezza globale. Ma questa è solo l’istantanea di un processo in corso... Notizie sempre più negative e sempre peggiori per l’uguaglianza degli esseri umani, e quindi anche per la qualità della vita di tutti noi, si susseguono di giorno in giorno.
«Le disuguaglianze planetarie attuali avrebbero fatto arrossire di vergogna gli inventori del progetto moderno, Bacone, Descartes o Hegel»: è la considerazione con cui Michel Rocard, Dominique Bourg e Floran Augagner concludono l’articolo Le genre humain menacé pubblicato a firma di tutti e tre in Le Monde del 2 aprile 2011. Nell’epoca dei Lumi in nessun luogo della terra il livello di vita era di più di due volte superiore a quello della regione più povera. Oggi, il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite di ben 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. E questi, non dimentichiamolo, sono confronti fra medie, che ricadono quindi nella storiella del pollo di Trilussa...
L’ostinata persistenza della povertà su un pianeta alle prese col fondamentalismo della crescita economica è già abbastanza per indurre le persone pensanti a fermarsi un momento e a riflettere sulle vittime dirette e indirette di una così ineguale distribuzione della ricchezza. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri e privi di prospettiva dai benestanti ottimistici, fiduciosi e chiassosi — un abisso di profondità tale che già è al di sopra delle capacità di scalata di chiunque salvo gli arrampicatori più muscolosi e meno scrupolosi — è una ragione evidente per essere gravemente preoccupati. Come gli autori dell’articolo appena citato ammoniscono, la principale vittima della disuguaglianza che si approfondisce sarà la democrazia, in quanto i mezzi di sopravvivenza e di vita dignitosa, sempre più scarsi, ricercati e inaccessibili, diventano oggetto di una rivalità brutale e forse di guerra fra i privilegiati e i bisognosi lasciati senza aiuto. Una delle fondamentali giustificazioni morali addotte a favore dell’economia di libero mercato, e cioè che il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune, risulta indebolita. Nei due decenni che hanno preceduto l’accendersi dell’ultima crisi finanziaria, nella grande maggioranza dei paesi dell’OCSE il reddito interno reale per il 10 per cento delle persone al vertice della piramide sociale è aumentato con una velocità del 10 per cento superiore rispetto a quello dei più poveri. In alcuni paesi, il reddito reale della fascia al fondo della piramide è in realtà diminuito.
Le disparità di reddito si sono quindi notevolmente ampliate. «Negli Stati Uniti, il reddito medio del 10 per cento al vertice è attualmente 14 volte quello del 10 percento al fondo», si vede costretto ad ammettere Jeremy Warner, caporedattore di The Daily Telegraph, uno dei quotidiani più entusiasti nell’esaltare la «mano invisibile» dei mercati che sarebbe capace, agli occhi tanto dei redattori quanto dei lettori, di risolvere tutti i problemi da essi creati (e magari qualcuno in più). Warner aggiunge: «La crescente disuguaglianza del reddito, benché ovviamente indesiderabile dal punto di vista sociale, non ha necessariamente grande rilevanza se tutti diventano contemporaneamente più ricchi. Ma se la maggior parte dei vantaggi del progresso economico vanno a un numero relativamente ristretto di persone che guadagnano già un reddito elevato — che è quanto sta accadendo nella realtà di oggi — si avvia evidentemente a diventare un problema».
L’ammissione, cauta e tiepida nel suo tenore ma piena di comprensione anche se solo semivera nel suo contenuto, arriva al culmine di una marea montante di scoperte dei ricercatori e di statistiche ufficiali che documentano la distanza rapidamente crescente fra quelli che sono in cima e quelli che sono in fondo alla scala sociale. In stridente contraddizione con le dichiarazioni dei politici, che pretendono di essere riciclate come credenza popolare non più soggetta a riflessione né controllata né messa in discussione, la ricchezza accumulata al vertice della società ha mancato clamorosamente di «filtrare verso il basso» così da rendere un po’ più ricchi tutti quanti noi o farci sentire più sicuri, più ottimisti circa il futuro nostro e dei nostri figli, o più felici...
Nella storia umana la disuguaglianza, con tutta la sua fin troppo evidente tendenza ad autoriprodursi in maniera sempre più estesa e accelerata, non è certo una notizia. E tuttavia a riportare di recente l’eterna questione della disuguaglianza, delle sue cause e delle sue conseguenze, al centro dell’attenzione pubblica, rendendola argomento di accesi dibattiti, sono stati fenomeni del tutto nuovi, spettacolari, sconvolgenti e illuminanti.

Le due facce di Costantino


Con lui la Chiesa libera e la Chiesa del potere
Nel 313 il suo editto consentì a tutti di professare la fede
Ma gettò anche le basi del rapporto che ancora stringe politica, affari e religione

Paolo Rumiz

"La Repubblica",  25 febbraio 2013

A diciassette secoli dall'editto di Costantino (Milano, febbraio 313) la Chiesa nella tempesta ha il coraggio di guardare in faccia l'imperatore che con quell'atto diede libertà ai cristiani, ma pose anche le basi delle tentazioni “temporali” del papato, delle origini fino alle laceranti divisioni dei giorni nostri. Un'operazione coraggiosa, che cerca la verità di un personaggio più complesso di quanto non dicano gli schemi scolastici, e non teme di rileggerne le trasfigurazioni mitiche e le manipolazioni interessate.
È il senso della monumentale Enciclopedia costantiniana della Treccani che sarà tra breve in libreria e vedrà una solenne presentazione ecumenica il 21 marzo all'Ambrosiana di Milano. Voluta dal cardinale Angelo Scola e portata a termine da 53 autori coordinati dalla Scuola di scienze religiose di Bologna, l'enciclopedia fa il punto sugli ultimi anni di studi e mostra, dice il curatore Alberto Melloni, «un uomo intelligente e crudele, che con gli anni diventa sempre più monoteista e cristiano; uno che dà alla Chiesa più libertà e alla fine mette mano al portafoglio restituendo e detassando i beni confiscati».
Figura inquietante e bifronte, l'uomo che nel 331 fa di Costantinopoli la nuova capitale della romanità, si mostra giusto verso ebrei e cristiani, ma orrendamente crudele verso figli e parenti stretti, e la statua in piazza della Vetra a Milano, copia fedele di un marmo antico, conferma l'immagine di un dominatore imponente, magnetico e carico di astuzia barbarica (era un balcanico), ma anche impregnato di romanità. In quel carisma, che si ripete nei busti sparsi nelle terre dell'impero, è già leggibile la trasfigurazione che ne faranno i pagani e i cristiani.
Egli è prima di tutto estetica, cerimoniale. Il bianco-panna del Papa e la porpora dei cardinali in conclave nascono da colori imperiali, imitano dunque la potenza terrena di Costantino. Quando l'algido Putin sulla porta del Cremlino si fa fotografare in posizione devota davanti al capo della chiesa moscovita, ricalca di proposito la postura di lui nelle icone. E persino il turco Erdogan, quando consegna al patriarca di Istanbul-Costantinopoli l'atto di restituzione dei luoghi di culto ortodosso, reinterpreta la politica del pacificatore religioso erga omnes che i sultani ereditarono dalla città di Costantino.
L'enciclopedia penetra il mito, a partire dalla battaglia di Ponte Milvio - in hoc signo vinces - dove probabilmente a trionfare non fu la Croce ma un'analoga insegna legionaria; rilegge l'antico falso della “donazione” dei territori imperiali alla Chiesa; evidenzia come forzata persino la lettura del clamoroso evento del 313. Ormai lo si sa: l'editto non fu tale, ma semplice lettera agli amministratori dell'impero; non fu di Milano, perché l'epistola fu vergata a Nicomedia, l'attuale città serba di Nis; e non fu nemmeno di Costantino, perché a emanarlo fu il suo omologo d'Oriente, l'imperatore Licinio.
Cosa sono allora le solenni parole di libertà riprodotte sulla prima delle cinque porte di bronzo del duomo di Milano? In quella città i due cesari effettivamente si vedono in febbraio, e lì Costantino, da poco padrone dell'Occidente, ordina a Licinio (che undici anni dopo avrebbe tolto di mezzo per diventare cesare di un impero riunificato) di diffondere la libertà di culto in generale, e non solo ai cristiani, anche nelle provincie orientali. La decisione viene ufficializzata a giugno, e solo per i territori dell'Est. L'Ovest non ne ha bisogno, perché la libertà di culto è già stata adottata; e non da Costantino, ma dal predecessore Galerio.
Don Federico Gallo, studioso dell'Ambrosiana, si attiene ai fatti. «Costantino fa costruire basiliche a Roma, a Gerusalemme e Betlemme. Convoca un concilio, quello di Nicea che condanna Ario come eretico, e persino lo presiede. Rende festiva la domenica, svolta decisamente epocale, e dà spazio ai cristiani. Ma attenzione: non fa lui stesso il devoto. Il suo primo interesse è la pax deorum, e cioè che le diverse fedi dell'impero coabitino sotto lo stesso pantheon». Assiste alla condanna di Ario, ma si fa battezzare in punto di morte da un vescovo ariano.
Resta imperatore prima di tutto, anche se dai cristiani riceve il titolo di epìscopos, e non somiglia affatto a Teodosio, che nel 380 renderà il cristianesimo religione obbligatoria di Stato, portando a termine la metamorfosi dei cristiani da perseguitati a persecutori. Nel suo epistolario con sant'Ambrogio per esempio, dopo aver protestato per alcune sinagoghe bruciate dai cristiani, Teodosio finirà per farsi convincere dal vescovo di Milano della giustezza sacrosanta di quell'infamia. Mai l'uomo di Ponte Milvio avrebbe ceduto su questo punto.
È peraltro Costantino a gettare le basi di quell'inciucio fra politica e religione che spingerà la Chiesa a influire sul potere civile e persino a chiedere e ottenere esenzioni fiscali sulle sue proprietà (Imu). Ed è da Costantino che la Chiesa vive il rischio di «derive cesaropapiste e antisemite», come spiega l'esperto di ebraismo monsignor Piefrancesco Fumagalli. «L'imperatore che ci perseguitava con la spada oggi ci accarezza il ventre», ammoniva già nel quarto secolo Ilario di Poitiers. Da lì vennero il gran rifiuto degli anacoreti, la protesta ereticale, la rivolta di Dolcino, l'anatema dell'Alighieri, la protesta di Melantone, lo scisma luterano.
In Oriente è diverso. L'impero dura un millennio in più, riluce di ori e mosaici da Ravenna alla Persia, affascina con le sue liturgie i principi pagani della Russia e l'Islam delle origini. Fu scoprendo la lupa scolpita, spiega Andrea Piras nell'enciclopedia, che i khan dell'Asia centrale scoprirono affinità totemiche con Roma. Paradossalmente, la tolleranza costantiniana sopravvisse meglio a Istanbul che a Madrid: mentre Isabella la Cattolica espelleva gli Ebrei, il sultano li accoglieva e si dichiarava primo imperatore di “Rum”, la romanità. Le cancellerie di Costantino e del sultano, ricorda Anna Calia nell'Enciclopedia, erano entrambe «poliglotte e multiconfessionali». E non esiste città, ricorda la bizantinista Silvia Ronchey, dove una religione perdente «abbia conservato più luoghi di culto della Costantinopoli ottomana».
Ma come a Roma, anche nel mondo ortodosso il 313 è pretesto di una rilettura interessata. Costantino diventa il sigillo della symphonia, la simbiosi invincibile di stato e fede che secondo Josip Brodskij sta alla base dell'assolutismo zarista e bolscevico. E oggi, per i Greci, celebrare il 313 significa invocare la riconquista della Polis per mano di un nuovo Costantino. È cantando il suo nome che i Greci esuli dalla Turchia, sgozzano ancora un toro e ballano avvinghiati a icone, seguendo un ritmo arcaico come la tammurriata. «Per noi serbi – dice il liutista Sasha Karlic – Costantino risveglia anche musicalmente l'archetipo balcanico del guerriero di luce contro le tenebre».
Metamorfico e inafferrabile, ritrovi il suo fantasma dappertutto: nelle fondamenta bancarie di Milano, tra le pietre del Foro dove inizia la via Emilia, affrescato in una chiesa di Montreal assieme a Mussolini, riletto da un post comunista come Putin, mitizzato in senso fascista dal polacco Pilsudski o dal greco Metaxas. Lo riscopri nei canti che la Sardegna dedica a un santo col suo nome, nelle celebrazioni cattoliche di Aquileia, o in quelle ortodosse di questi giorni in Serbia, dove l'imperatore torna tra i vivi come simbolo di quell'identità perfetta di popolo, religione e Stato che tanti disastri ha inflitto ai Balcani.

lunedì 25 febbraio 2013

Bellezza e fragilità secondo Piero di Cosimo


Melania Mazzucco 

"La Repubblica", 24 febbraio 2013

Piero di Cosimo, La morte di Procri (1495-1500), olio su tavola, Londra, National Gallery

C'è una giovane donna distesa sull’erba. Il manto rosso che indossava si è disfatto, lasciando scoperti  corpo e seno. Il sangue stilla ancora dalla ferita alla gola, e dai graffi sul polso sinistro e sulla mano destra. Si è difesa. Ma da chi? Non si vedono assalitori, né cacciatori. Sta morendo, forse è appena morta: il suo viso ha il colore latteo del cielo. C’è un fauno dalle zampe caprine e le orecchie d’asino, accanto a lei: le scuote delicatamente la spalla, come volesse svegliarla. La fissa – contrito, innamorato e colpevole. C’è un cane fulvo, dall’altra parte. La veglia, con l’ostinata fedeltà dei cani. L’inutilità della carezza del fauno e dell’attesa  del cane trasmettono a chi guarda un dolore non meno intenso perché sommesso. Dietro il corpo di lei, come ripetendone le curve, la costa digrada fino alla riva dell’acqua: un paesaggio idilliaco dove volano un pellicano e degli aironi, simbolo di sacrificio e di innocenza, e giocano altri tre cani. Strani fiori che non so riconoscere sbocciano sul prato e sui cespugli. Il contrasto fra i colori squillanti, la miniaturistica attenzione ai dettagli e la posizione delle figure accentua il senso di perdita e di malinconia. Di rimpianto, commozione e pietà per la giovane donna morta. Ma, stranamente, anche per il fauno e il cane che l’aspetta invano. Tutto ciò è stato dipinto a olio su tavola di legno di pioppo, fra il 1495 e il 1500, a Firenze. 
Dici Firenze in quegli anni e pensi a Botticelli, Filippino Filippi, o Leonardo da Vinci, sulla via del ritorno dopo la caduta di Ludovico il Moro, o addirittura a Michelangelo, appena partito dopo aver già meravigliato tutti. Invece il pittore di questo capolavoro non è altrettanto conosciuto – forse perché delle sue appena 56 opere solo 13 sono ancora in Italia. Si chiamava Piero di Cosimo Ubaldini, abitava vicino Santa Maria Novella. Era stimato, ma anche criticato per il carattere, la solitudine, la stravaganza. Era un tipo “fantastico”. Per imporsi, un pittore doveva lavorare per i Medici, per i signori o per il papa, meglio se in luoghi pubblici, dove le sue opere fossero viste, discusse, imitate. Lui invece lavorò per il papa solo quando era apprendista nella bottega di Cosimo Rosselli, e per il resto lavorò per le confraternite della sua città, per mercanti di lana, banchieri e raffinatissimi gentiluomini che gli chiedevano spalliere e cassoni destinati a decorare le loro camere da letto. Un altro pittore li avrebbe dipinti in fretta, e per far soldi, o li avrebbe delegati ai suoi assistenti, e si sarebbe concentrato sulle pale d’altare e i ritratti dei papi. Non Piero di Cosimo. A quelle spalliere, destinate a sparire nelle stanze segrete dei palazzi, viste solo dai padroni di casa e dai loro amici, dedicò le invenzioni più originali e tutto il suo singolare talento. 
Un pittore che fa questa scelta, a Firenze – mentre il sinistro frate Savonarola instaura la teocrazia, tuona contro il vizio, il lusso, i libri profani, e brucia in piazza sui roghi delle vanità i cassoni, gli specchi, le carte da gioco, i ritratti immodesti e quadri come questo – a me sembra degno di qualcosa  di più del rispetto ironico che gli  riservarono i contemporanei e i posteri. I quali gli riconobbero il merito di aver formato i migliori artisti della generazione successiva (Andrea del Sarto, Jacopo Pontormo). Ma trovavano troppo eccentrici i suoi soggetti e i suoi modi: ha dovuto accontentarsi dell’ammirazione dei romantici, dei surrealisti e di noi nati secoli dopo. 

Dunque questa incantevole opera era una favola (cioè una scena mitologica) destinata a una camera da letto. Ad ammonire o educare gli sposi, forse. Ma qual era il suo messaggio? Che cosa è accaduto, e chi sono la bella e le bestie? Non lo sappiamo. L’immagine conserva il suo ambiguo mistero. La tradizione riconosce nella fanciulla Procri, protagonista delle Metamorfosi di Ovidio, e di una favola di Niccolò da Correggio recitata per le nozze di una Este (la sua tragica storia d’amore in seguito piacque a Shakespeare). La vicenda è complessa, e mi perdonerete se la riassumo. Innamorata, ricambiata, di Cefalo, Procri è vittima della gelosia del compagno e della propria. I due si lasciano, e Procri, sobillata da un fauno che le insinua il sospetto di un tradimento, si ritira nella foresta, in compagnia del suo cane Lelape, finché Cefalo, eccellente cacciatore, scambiandola per selvaggina, la uccide. Piero di Cosimo però manipola la fonte, altera la cronologia, elimina Cefalo: insomma reinventa la storia, e la trasforma in una elegiaca meditazione sulla fragilità della vita. Degli uomini, dei fauni, e degli animali – tutti dipinti con la stessa democratica attenzione e la stessa cura. Per capire quanto era rivoluzionario Piero di Cosimo, bisogna ricordare che i suoi contemporanei ritenevano i fauni dei grotteschi mostri di natura, dal sesso priapico perennemente rizzato, e i cani esseri privi di anima razionale, come tutti gli animali (e anche gli Indiani, appena scoperti da Colombo). Per lui, invece, uomini, mostri e cani sono segnati dallo stesso dolore di vivere. 
Osservava con religioso rispetto la natura, le nuvole – perfino lo sputo di un malato sul muro non gli suscitava disgusto, ma lo ispirava. Vasari influenzò il destino dell’arte di Piero di Cosimo dedicandogli una biografia ricca di aneddoti raccolti fra i suoi allievi. Indugia sulla “bestialità” del pittore, che aveva disegnato un intero libro di animali, amava la natura selvaggia e disprezzava la compagnia degli uomini. Apprezza il pittore, deride la persona. Ma è possibile distinguere l’uomo e l’artista? Nel Quattrocento credevano di no: ognuno dipinge se stesso. Io non ho risposta. Ma il pittore che ha dipinto il cane di Procri non era un uomo “bestiale”: era un uomo. 

Piero di Cosimo (1461/62-1521), fiorentino. “Ingegno astratto e difforme” lo definisce Vasari Il pittore, inquieto e lontano dall’armonia rinascimentale, esercita il suo senso del fantastico e l’attenzione per la natura dipingendo scene mitologiche.

Per approfondire:

Iconografia: Engramma.