domenica 27 gennaio 2013

Quel sottile confine fra la creatività e la follia


Un saggio esplora e ripercorre l’accostamento fra originalità artistica e disagio psichico

Marco Rossari

"Corriere Salute",  27 gennaio 2013

«In primo luogo è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia». Probabilmente, aveva in testa queste parole di Erasmo da Rotterdam quell'insegnante di Innsbruck che, qualche tempo fa, ha deciso di tenere lezioni regolari su un tema tanto delicato agli studenti delle scuole secondarie. L'obiettivo era avvicinarli a un discorso respinto di continuo ai margini della società e della vita civile. Ed è senz'altro sulla falsariga di questo esempio che Eugenio Borgna — psichiatra, vincitore del Premio Bagutta nel 2005 con L'attesa e la speranza — ha tenuto un seminario in un liceo di Novara per riprendere il filo di quel ragionamento intorno alle zone grigie tra malattia e creatività, tra norma e follia. Anche per ribadire che la nostra vita, stando al verso di Georg Trakl che regala il titolo al libro, tratto da quelle lezioni, risuona di armonia e di follia, oscillando a volte impercettibilmente tra questi due poli.
Ma forse i presupposti risalgono a un momento ancora precedente. «Vedo come danzano le stelle d'oro, / ancora è notte, ancora è il caos come mai ancora». Sono due versi scritti da Ellen West, una paziente di Ludwig Binswanger, massimo esponente della psichiatria fenomenologica (una branca che, per semplificare, interpreta la malattia mentale come uno dei modi possibili di porsi dell'essere umano). Il celebre psicologo riportò i conati poetici di questa giovane donna in un saggio sulla sua degenza in clinica psichiatrica per alcune turbe legate all'anoressia, e sulla successiva dimissione, culminata in un tragico suicidio. In quel dialogo tra psicosi e poesia, Binswanger si sforzava di rinvenire ed evidenziare il confine in cui l'una trapassasse nell'altra e viceversa.
Partendo da questo illustre presupposto, Eugenio Borgna ha continuato a esplorare nella propria opera la «sorella sfortunata della poesia», e cioè il territorio della malattia mentale, in un modo nuovo. Non l'ha fatto da un punto di vista clinico, ma appunto fenomenologico, per cercare nel buio della mente una testimonianza sui tanti orizzonti e sulle innumerevoli gradazioni presenti nel dolore, nella malinconia e nella colpa, tanto negli artisti quanto nell'uomo comune. Qual è la realtà della follia? Qual è la sua immagine? E le opere del pensiero, come già suggeriva Franco Basaglia, non possono aiutare a decifrare le spirali, tuttora misteriose, della schizofrenia, della depressione e della psicosi? Da qui parte un lungo percorso che si snoda attraverso le malinconie presaghe della poetessa suicida Antonia Pozzi («Quando dal mio buio traboccherai / di schianto / in una cascata / di sangue / navigherò con una rossa vela / per orridi silenzi / ai crateri / della luce promessa»), l'abissale misticismo di Teresa di Lisieux («O Gesù! (…) Lasciami dirti che il tuo amore arriva fino alla follia…»), la malinconia creatrice di Søren Kierkegaard e lo straziante carteggio tra i poeti Nelly Sachs e Paul Celan, in un tentativo, davvero disperato, di chiedere aiuto a poesia e filosofia per decifrare i fenomeni della vita psichica. È possibile intravedere nei deliri di Septimus, il soldato sconvolto dalla guerra nel romanzo La Signora Dalloway l'ombra della fine che avrebbe fatto l'autrice Virginia Woolf? Possiamo intuire qualcosa del peso che sovrasta l'anima del depresso in un quadro di Arnold Böcklin? Borgna procede come un Pollicino impavido, ogni volta smarrito in un bosco terrificante, e raccoglie uno dopo l'altro le tracce tormentate di chi è passato di lì, disseminando la propria opera di segnali e richieste d'aiuto, citazioni e squarci tragici. Quindi raffronta questi estratti con gli sfoghi espliciti, quasi urlati, dei suoi pazienti (Claudia, Elena, Raffaele: persone comuni), affetti dalle stesse malattie, con il risultato di farci leggere l'alienazione con gli occhi dell'arte e la poesia con gli occhi della malattia. «Dilatare l'area della normalità nella follia e della follia nella normalità», ci dice Borgna, deve essere la prassi di qualsiasi psichiatra, per capire che in ogni esperienza psicotica vivono zone di non-follia e, per usare due parole care a Simone Weil, che in ogni ombra c'è un po' di grazia. Così le parole furibonde di Friedrich Nietzsche possono riecheggiare in quelle di un uomo precipitato nell'abisso della depressione, nel tentativo di riallacciare un dialogo necessario tra medico e paziente, tra vita e non-vita, in cui davvero, per rubare le parole usate da Cristina Campo in riferimento a Virginia Woolf, ogni artista, e prima ancora ogni essere umano, sembra solo nella propria esistenza come il ragno «unicamente sostenuto e insieme prigioniero del tessuto che ordisce (…) questa trama senza sosta riprodotta dalla creatura che vi corre sopra, attenta alla minima smagliatura, allo strappo più lieve: perché realmente la trama è seduta sopra un abisso, realmente un piede in fallo può significare la fine».
Ecco che allora le affinità potranno emergere tra le esperienze più disparate e disperate, in un continuo e lacerante gioco di echi, dove l'obiettivo è sempre quello di riaffermare la dignità negletta del l'infermo. Se dal 1978, anno della legge Basaglia che chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, il malato non è più condannato alla reclusione, ciononostante continua a venire discriminato, come una colpa o un presagio infausto, nella vita quotidiana delle famiglie e della società civile. Non solo, emarginato nel l'idea generale che abbiamo di lui. Incompreso e impenetrabile, il paziente finisce in un vuoto che non ha eguali. E forse accostare la voce di un classico a quella di uno sconosciuto qualsiasi può aiutare a capire. Lo dimostrano questi due brani. «Perché mai è così tragica la vita; così simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso. Guardo giù; ho le vertigini; mi chiedo come farò ad arrivare alla fine. Ma perché mi sento così: ora che lo dico non lo sento più. Il fuoco arde; stiamo andando a sentire l'Opera del mendicante. Eppure è intorno a me; non riesco a chiudere gli occhi. È una sensazione di impotenza; di non fare nessun effetto». E poi: «Non voglio guarire, sì voglio guarire, ma non guarisco. (…) È una disperazione, è un caos. Mi faccia morire. Faccio diventare matti tutti. Non mi faccia più soffrire, sia bravo. Vorrei fare una cosa, e poi riprendere quella sofferenza. Mi faccia dormire, tanti giorni». Il primo è tratto dai diari di Virginia Woolf. Il secondo dalle sedute di una paziente anonima. Nel libro prende il nome semplice e bello di Anna.

Le lettere di Paul e Nelly


Uno dei casi più toccanti raccontati da Eugenio Borgna è quello di Nelly Sachs e Paul Celan, due grandi poeti in lingua tedesca. Entrambi ebrei, entrambi sopravvissuti alla Shoah con terribili cicatrici, dopo avere perso nei lager alcuni loro cari, ed entrambi ricoverati in cliniche psichiatriche in diversi momenti della loro vita, hanno lasciato un epistolario che va dalla primavera del 1954 alla fine del 1969 e che racconta la storia di due animi umanissimi e tormentati. Alla fine della Seconda guerra mondiale, Nelly Sachs — poi premio Nobel nel 1966 — si rifugia in Svezia, dove comincia a manifestare esperienze psicopatologiche. Il tracollo, testimoniato da una lettera, avviene nel '60: «Una lega di spiritisti nazisti mi perseguita in modo così orribilmente raffinato con il radiotelefono, sanno tutto, ovunque io metta piede». Le lettere spedite a Celan mostrano l'insorgere della malattia e il grido d'aiuto che cercava di inviare a un uomo, a un poeta, nel quale intravedeva i segni comuni di una condizione psicotica.

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