venerdì 28 dicembre 2012

Diritto e castigo


Quando il romanzo detta legge
Viaggio nella colpa da Kafka a Camus

Un saggio raccoglie diversi interventi sul rapporto tra gli scrittori e l’idea di giustizia vista attraverso la letteratura

Roberto Esposito

"La Repubblica",  27 dicembre 2012

Cosa può mai congiungere il diritto alla letteratura? Un solco profondo sembra separare la fluidità senza confini della scrittura letteraria e la rigidità di un ordine giuridico volto a discriminare la condotta lecita da quella illecita. Eppure proprio questo impossibile rapporto è oggetto di inesauribile interrogazione. Se fin dalla metà del Novecento è attivo in America un Law and Literature Movement, anche in Italia si vanno aprendo cantieri di ricerca sulla relazione tra la sfera del diritto e i territori della letteratura, del cinema, della comunicazione mediatica. Un’ampia, raccolta di studi in argomento è adesso contenuta nel volume, curato per Vita e Pensiero da Gabrio Forti, Claudia Mazzucato e Arianna Visconti con il titolo Giustizia e letteratura I.
Il libro – che nasce da una serie di seminari interdisciplinari tenuti da giuristi e critici letterari nella Cattolica di Milano – scorre lungo due assi tematici originati dalla stessa esigenza di fondo. Da un lato esso ripercorre con puntualità gli innumerevoli temi che il diritto ha offerto alla letteratura, come anche al teatro e al cinema. Dall’altro ricerca quella consapevolezza supplementare, quel sovrappiù di senso, che la pratica letteraria può fornire, dal proprio punto di vista, all’universo giuridico.
Se si rileggono con questo sguardo i grandi testi rivolti alla questione della legge, si ha l’impressione che essi siano in grado di rivelare qualcosa del diritto che questo, dall’interno del proprio linguaggio, non arriva ad afferrare – l’ombra che circonda la sua luce o il punto scuro in cui essa rischia di spegnersi. Non solo per difetto, ma talvolta anche per eccesso. Non solo, intendo, quando il diritto sbaglia, ma anche quando, dal proprio angolo di visuale, ha ragione. Se opere come Il Mercante di Venezia e Otello di Shakespeare rivelano il pregiudizio razziale, rispettivamente nei confronti di un ebreo e di un nero, che sottende il giudizio di condanna, i romanzi di Defoe, da Lady Roxana a Moll Flanders, mostrano, dietro il delitto, una condizione di estremo bisogno che in qualche modo ne eccede la rilevanza penale, aprendo uno squarcio nel formalismo della legge.
Delitto e castigo di Dostoevskij, poi, attraverso la vicenda tormentata di Raskol’nicov, spinge la domanda sulla colpa ai suoi estremi confini – in quella zona indistinta dove bene e male, orrore e compassione, s’intrecciano in una vertiginosa spirale.
Ciò che la letteratura insegna, rispetto all’assetto astrattamente codificato del diritto, è che nell’esperienza vissuta non esistono leggi generali, perché i casi della vita sono sempre singolari e irripetibili. Perciò le condanne, come le assoluzioni, risultano inevitabilmente imperfette, visto che in qualche modo siamo tutti colpevoli, ma anche, da un altro punto di vista, tutti innocenti. I decreti di colpevolezza assoluta appaiono inadeguati per una duplice ragione indagata dalle opere di Proust, Musil e Hofmannsthal. Intanto perché le situazioni individuali vanno sempre calate in quel caleidoscopio sociale che condiziona i nostri atti non meno della nostra volontà. E poi perché l’idea stessa di libero arbitrio, su cui poggia l’intero edificio del diritto penale, presuppone una compattezza dell’identità personale che di fatto non esiste. La coscienza individuale è in realtà sottoposta ad una metamorfosi che finisce per destituire di senso le categorie giuridiche di imputazione e di responsabilità. Come imputare una data azione ad un uomo che ormai è diverso da quello che l’ha commessa? Ma a questa prima decostruzione del diritto se ne aggiunge una seconda, ancora più radicale, che riguarda non più i suoi limiti, ma la sua essenza. Non solo il sistema normativo non riesce a incasellare nelle proprie griglie una realtà umana in linea di principio sfuggente ad un ordine prefissato, ma, tutt’altro che situarsi al polo opposto della violenza criminale confina ambiguamente con essa. I romanzi Il giudice e il suo boia, Il sospetto, Giustizia di Friedrich Dürrenmatt ne forniscono la rappresentazione più tesa. In essi coloro che vogliono affermare la giustizia lo fanno usando i medesimi metodi criminali che intendono punire. Ma se il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta, il giudice diventa giustiziere e questi cacciatore di prede.
Siamo al punto in cui la giustizia distributiva – che attribuisce a ciascuno la sua pena – diviene volontà di infliggere il male, rendendo intercambiabili colpevole e vittima.
L’autore – al quale forse il volume non dà sufficiente rilievo – in cui il contatto tra giustizia e violenza si fa compiuta sovrapposizione è Kafka. Non soltanto perché i suoi protagonisti – a partire da quello del Processo – sono catturati nelle procedure della legge come mosche in un bicchiere, ma perché la pena è presupposta alla colpa che dovrebbe punire. Nel suo mondo a rovescio non è più la colpa a determinare la pena, ma questa a produrre quella. Per penetrare a fondo nella sua metafisica della legge, bisogna integrare alla comparazione letteraria quella filosofica. A stringere in un nodo irresolubile diritto e violenza è stato soprattutto Benjamin. Non soltanto, per lui, il diritto è sempre istituito da una violenza originaria, ma la violenza è lo strumento attraverso il quale l’ordine giuridico si perpetua, condannando la vita ad una eterna colpevolezza. È questa la funzione che il nomos eredita dal mondo demonico che lo precede – schiacciare la vita sulla nuda parete del destino. Quando René Girard vede nel diritto una razionalizzazione della vendetta, porta alle sue conseguenze questa linea di discorso: come ci narra Lo straniero di Camus, la società, per proteggersi dal conflitto che l’attraversa, ha bisogno di concentrare la violenza su una vittima scelta a caso. Le immagini kafkiane della giustizia bendata – non perché imparziale, ma perché colpisce alla cieca le sue vittime – e della macchina che incide la norma trasgredita sulla carne del colpevole, nascono da questo orizzonte. Ancora oggi film come Pulp Fiction di Tarantino o Dogville di Lars von Trier riproducono in forme e con moduli narrativi diversi il medesimo motivo di una giustizia pienamente identificata con il crimine che combatte.
Ciò non vuol dire che la relazione tra diritto e scrittura s’incanali necessariamente in questa direzione mortifera. Anzi a prevalere, negli autori del libro, è un’ispirazione costruttiva, volta a sottolineare i valori affermativi di una norma giuridica capace di conformarsi alla grana molteplice della vita. Benedetta Tobagi, in un intervento di particolare intensità, invita a guardare il male impresso negli occhi della vittima, senza distogliere lo sguardo dalla sofferenza: diventare testimoni del dolore, narrandone i percorsi, può favorire un’umanizzazione del diritto. La testimonianza letteraria ci aiuta a capire che la verità giudiziaria non è l’unica possibile.
Che essa va collocata in un mondo di relazioni in cui le azioni degli uomini siano restituite alla loro complessità. Dal punto di vista della comunità siamo legati da una legge più profonda di quella giuridica – che la integra senza identificarsi con essa. Anche su questa consapevolezza poggia il ponte invisibile che congiunge le sponde opposte della letteratura e della legge.

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